LA REDAZIONE | Cosa facciamo adesso?
Siamo parte di una comunità piccola, che come tante comunità piccole fa parte poi di altre comunità via via più grandi.
Abbiamo iniziato provando a resistere e a dire che avremmo potuto stare seduti larghi ma restare aperti, nei nostri luoghi di aggregazione. Che avremmo potuto mantenere le nostre abitudini, modificandole di poco. Senza fermarci.
Abbiamo capito che non era così.
Poi è arrivata la scelta del blocco totale, della quarantena prima nazionale e ora mondiale. Una scelta che, come dimostrano alcuni studi ha l’ambizione di azzerare i contagi dopo un certo tempo.
Ed eccoci chiusi in casa e riversati nell’ultima piazza che resta percorribile senza certificati, quella social, che a ben guardare non ha minori elementi di tossicità emotiva.
Dopo due-tre settimane di streaming, spettacoli, adesso alcuni meme ironizzano sulla pretesa di continuare a fare gli scalatori, gli skipper, i teatranti, i dj, aggirandoci fra la cucina e il ripostiglio. Intanto il dramma dei numeri, dei distacchi laceranti, fiacca il desiderio di andare a fare allegria sui balconi. E si resta un po’ attoniti.
Qualche giorno fa abbiamo fatto una riunione di redazione via Skype. L’abbiamo sempre fatta così, anche prima del virus, perché in casa PAC siamo davvero da tutta Italia e da anni ci sentiamo e confrontiamo così almeno una volta al mese, a distanza ma tutti insieme. Siamo vicinissimi alla comunità, ma questa vita via streaming, intasata di videoconversazioni, appuntamenti social, balconate che manco Eduardo in Questi fantasmi… Che combinazione profetica quella scena, poi, con quel titolo, ripensata oggi.
Oggi che per testimoniarci in vita dobbiamo agitare uno smartphone sperando che qualcun altro dal caseggiato vicino risponda.
È un tempo incredibile, che non avremmo mai pensato, anche se ognuno dentro di sé sapeva che prima o poi sarebbe arrivato.
La grande frenata.
Eppure si pensava a qualche gigantesco tornado che avrebbe spazzato la superficie terrestre per il cambiamento climatico, qualcosa di colossale.
Invece, come qualcuno abbastanza preveggente aveva già spiegato qualche anno fa il pericolo maggiore era proprio quello della pandemia.
E questa pandemia non è un terremoto, uno tsunami, una inondazione, che affligge alcuni ma non tutti.
Qui siamo costretti a frenare. A fermarci.
Tutti.
Siamo in un tempo mai sperimentato dall’umanità negli ultimi 50-60 anni. E più. Causato da qualcosa di microscopico, ma contro cui poco al momento è possibile fare, se non affrontarlo tutti assieme come genere umano, e accogliere la dura lezione tutti assieme, per immaginare e ripensare il futuro sul pianeta.
Per ora da un lato assistiamo a grandi atti di generosità, anche umana, dall’altro anche forti egoismi, nazionali e locali. Accaparramenti di tamponi e mascherine. Corse alle armi. Che futuro occorre pensare per evitare che dopo il virus non sia la guerra dell’uomo contro l’uomo a porre fine a tutto? Occorre pensare orizzonti.
È quello che vogliamo iniziare a fare anche noi di PAC in questo momento.
Ce lo siamo detti chiaramente: nessuno di noi riesce in questo momento a commentare visioni streaming di un passato più o meno remoto, che pretendono di occuparci il tempo ma senza condividere emozioni profonde e pensieri capaci di farci respirare quel clima della sala, dello spettacolo dal vivo che tanto amiamo.
Se siamo in vita abbiamo l’obbligo di guardare avanti, oltre. Ecco perché da oggi PAC offrirà una serie di interventi su cosa succederà, cosa è utile che accada, cosa non dovrà accadere di nuovo, quando tutto questo sarà finito.
Lo faremo rivolgendoci alla comunità dell’arte, certo, ma anche a scienziati, pensatori, filosofi, medici, o semplici detentori di qualche sapere profondo, senza bollini accademici, ma che possa servire da stimolo e riflessione alla nostra comunità. Quella piccola, sì. Ma anche quella più grande. E poi quella più grande ancora.
Perché abbiamo bisogno che questa esperienza, questa reclusione planetaria, dipani consapevolezze. E che si creino di nuovo orizzonti che ci aiutino a guardare oltre le paure. Anche se probabilmente sarà tutto diverso da come è stato finora.
Ecco finalmente…un respiro profondo! Questo virus rischia di farci respirare poco e in superficie.
Ora possiamo tentare un passaggio più profondo in questo triste tempo.
Parliamo di teatro, che impone a noi che lo trattiamo “un anima ricca”, “un soffio vitale”.
Dove, come?
Tornaremo a toccarti a baciarci noi teatranti ma dovremmo farlo in altro modo. Tutto ci sta sfuggendo, ci siamo relegati in isole più o meno felici, non più un festival, ne seminari aperti condivisi. niente più luoghi per un confronto semplice ingenuo vero vitale.
Il teatro, ora, sta dialogando con le nuove generazioni? Sta tentando di interessare la comunità a una comune riflessione su i nostri tempi? Si sta facendo carico, con i suoi mezzi, di far rinascere ” un soffio vitale” tra noi uomini di questo tempo digitale, vicinissimi ormai, troppo vicini ma senza “un Anima ricca”?
Il teatro come “veicolo” di Grotowski dov’è?
Non ci interessa più.
Claudio Orlanfini