GIORGIO FRANCHI | Ci sono poche cose che sento ancora sulla pelle a distanza di anni come la prima volta che mio nonno ha condiviso con me i suoi pensieri sulla morte. Ricordo tutto: come era vestito, come cadevano le luci del soggiorno, la posizione dei giornali impilati sul tavolino davanti a lui. Era Pasqua; se ne sarebbe andato un mese più tardi, quasi di colpo, senza avvertire. Ricordo che fece un’analisi che mi parve lucidissima sugli anni della sua vita, le cose che aveva ottenuto e quelle che invece si era perso. Mi confortò sapere che ritenesse che le prime fossero di più e le seconde fossero sacrificabili. Insomma, che sarebbe morto con il sorriso.
Come dopo un naufragio si fa il conto di dispersi e sopravvissuti, dopo l’ultimo respiro del nonno la verità cominciò pian piano a emergere e il suo bilancio esistenziale a traballare. A oggi non saprei dire se tutto ciò che mi ha detto in quella conversazione corrisponda alla realtà, né tantomeno giustifichi una vita. Nel suo struggente e ironico Cronosisma, Kurt Vonnegut racconta:
«Quest’estate, in un ristorante cinese, ho chiesto al romanziere William Styron quante persone sul totale dell’intero pianeta avessero ciò che abbiamo lui e io, cioè una vita che vale la pena di essere vissuta. Ci siamo accordati sul diciassette per cento».
Sta tutto qui il gioco della nostra vita, rientrare in quel diciassette per cento. Superate le esigenze primarie della sopravvivenza e scalata ad ampi balzi la piramide di Maslow, l’uomo brama un senso per la propria vita, senza il quale rischia di mettere in crisi l’intero sistema che si ritrova attorno. Come l’armadillo ha sviluppato una corazza per sopravvivere ai predatori, noi, privati di una minaccia che non coincida con noi stessi, sopravviviamo alle sferzate del nostro odioso grillo parlante grazie a ciò che Yuval Noah Harari chiama “sé narrante”:
«Ci identifichiamo con quel sistema interiore che prende l’ingarbugliata matassa della vita e ne ricava un filo apparentemente logico e coerente. Non importa se la trama è piena di lacune e bugie, né che venga riscritta in continuazione, per cui la trama di oggi contraddice completamente quella di domani». (Homo deus, 2015)
Il demiurgo platonico lascia dunque l’iperuranio per continuare a operare dentro di noi. Il libro di Harari arriva in un momento storico in cui, per l’occidente, la realtà è stata superata dalla sua narrazione. Dopo settant’anni senza guerre e la scomparsa degli ultimi testimoni di Auschwitz (esattamente tre mesi fa se n’è andato Pietro Terracina), la trasmissione della memoria alle masse è completamente lasciata ai film. Quando tutti i testimoni spariranno, i registi che vorranno raccontare l’orrore dei campi di concentramento useranno altri film come fonti.
Una rivisitazione ordinata e coerente della realtà quella cinematografica (o giornalistica, pubblicitaria etc.) che prende sempre più importanza nelle nostre vite. Al che ci domandiamo cosa giustifichi la nostra esistenza. In un certo senso, arriviamo a desiderare una guerra che dia inizio al nostro racconto. Perché, come tutti sanno, una buona storia è composta da una situazione di equilibrio iniziale, un evento che la sconvolga e il viaggio dell’eroe per rimettere a posto le cose.
Lo scoppio del Covid-19 è stato una cartina al tornasole del nostro desiderio inconscio e socialmente inaccettabile che tutto intorno a noi bruci, per essere catapultati all’interno di un momento storico che non sparirà, inglobato nella nostra concezione di una realtà esperienziale usa e getta. Di fronte a chi sta realmente soffrendo i contraccolpi del virus (come l’intera comunità dei lavoratori dello spettacolo in Italia) si leva una moltitudine che aspettava solo un’epoca che valesse la pena di essere vissuta. Ne sono la prova le compulsive drammatizzazioni delle direttive del Ministero della Salute: in ogni TG viene intervistato qualche passante che parla, con toni enfatici, del bisogno di “continuare a vivere”, equiparando una normale riduzione della socialità a un isolamento totale in un bunker durante un raid.
Insomma: con i teatri chiusi per l’epidemia, l’unico modo di dare un senso alle nostre vite è raccontarci da soli.