MATTEO BRIGHENTI | L’unità e la solidarietà dell’Italia di fronte all’emergenza Coronavirus illumina di verde, di bianco e di rosso anche la porta del cielo. Haec est porta coeli (Questa è la porta del cielo) si legge sulla soglia della Basilica di San Miniato al Monte. Da mille anni veglia sulla città di Firenze e adesso, illuminata del tricolore su iniziativa del Comune, sul Paese intero. «San Miniato è da sempre lo specchio di Firenze. In questi giorni terribili lo è di tutta l’Italia» spiega padre Bernardo Gianni.
Il monaco olivetano è l’abate di San Miniato, dove vive dal 1996. Nato in riva all’Arno nel 1968, è una figura di spicco della spiritualità e della cultura fiorentine. Nel 2018 ha coordinato le celebrazioni per il millenario dell’Abbazia che nel 1018 il vescovo Ildebrando volle a presidio della città. Nel 2019 Papa Francesco l’ha scelto come predicatore per gli esercizi spirituali della Quaresima.
A PAC dom Gianni dice subito: «Siamo isolati, perché lo dobbiamo restare, ma non siamo soli».
Il tempo imposto dal contagio del Covid-19, a detta comune, è un tempo sospeso. Che cosa significa questo per lei?
«Dal nostro punto di vista, quello monastico, se la domanda si riferisse solo alla consuetudine di stare chiusi in casa, all’avere del tempo più disponibile alla riflessione, alla meditazione, direi che dovrebbe essere la normalità, anche se, purtroppo, magari non sempre noi ci riusciamo. Il dramma è che questa presunta normalità monastica adesso è frutto per tutti di una vicenda di male molto forte, molto lacerante e molto pericolosa. Noi monaci siamo davvero molto in apprensione, la nostra preghiera è ardente per tutti i malati e per tutti coloro che in questo momento rischiano la vita per sé e per gli altri».
Oggi quale prospettiva vede dall’Abbazia di San Miniato al Monte?
«È una prospettiva che cerca di abbracciare la città, come abitualmente facciamo, con lo sguardo, ma soprattutto con il cuore, con la preghiera, rendendoci il più possibile disponibili alle numerosissime chiamate telefoniche di tanta gente che cerca in noi un punto di conforto, di condivisione, in questo momento così difficile. La nostra è un’intercessione, è una preghiera come è tipico della Chiesa e in particolare dell’esperienza monastica. E sicuramente è un’esperienza di disponibilità, per il momento soltanto vocale, verso le persone, per rispettare le necessarie indicazioni che ci vengono date, e allo stesso tempo per incoraggiare la gente, però, a sentirsi accompagnata, a sentirsi non dimenticata. Questo include persone credenti e non credenti. Devo ammettere che si riscopre, non dirò la fede, che è qualcosa di forse ancora più indicibile, ma quantomeno un’esigenza di raccoglimento, di meditazione, di fiducia, che luoghi come questo, comunque, possono in una qualche misura, se non garantire, almeno evocare.
Quindi, in questo senso, siamo lieti di sentirci utili pur in un momento in cui non ci è dato di poter essere gomito a gomito negli ospedali, con chi soffre, con chi lotta per non far soffrire. È un’impossibilità che ovviamente brucia nel cuore di ogni credente, ma dobbiamo riconoscere, ripeto, un oggettivo limite rappresentato dal rischio serio di contagio. Ciò comunque non ci dispensa dal fare tutto il possibile, attraverso Facebook, per esempio, o Internet, per raggiungere concretamente il cuore della nostra gente».
Come è cambiata la sua e la vostra vita?
«La differenza più significativa è rappresentata dall’interruzione delle liturgie. È una cosa drammatica non avere più la possibilità di spalancare le porte alle persone che soffrono, che cercano qui consolazione e anche un’esperienza magari di bellezza, perché questo era il periodo in cui la Basilica, forse anche fin troppo festosamente, sarebbe stata presa d’assalto da tanti studenti in gita ai quali raccontare la bellezza di San Miniato, il senso di questo luogo. Ora tutto è immerso in un silenzio che nemmeno in piena estate riusciamo a vedere. La sensazione è che, se non ci fosse la preghiera, e qualche artificio tecnologico per stare vicini a fedeli e non, ci sentiremmo veramente un po’ frustrati.
Però, ripeto, per noi monaci valorizzare un piccolo spazio e dei tempi “inatittivi” è un’attitudine che ci aiuta in fondo anche a scoprire il significato di una vita fatta apposta per sconfinare in quell’apparente vuoto che può diventare, in realtà, uno spazio senza confini e finalmente abitato da Dio. Lo svuotamento è un tipico approccio monastico, come ci insegnano mistiche e spiritualità di provenienza orientale. La raccomandazione alla gente è di stare in casa, perché si deve stare in casa, e poi, come ci insegna il buon senso, valorizzare ogni difficoltà, fare “di necessità virtù”, come si dice. Che questa reclusione in casa sia riempita da letture, da riflessioni che possano aiutarci a scoprire tutta la delicatezza e nello stesso tempo la preziosità della vita. Quando la vita è messa a rischio se ne apprezza tutta la sua miracolosa consistenza di bene, di bello, di vero».
Vale per tutti, credenti e non credenti.
«Parlare di bontà, di bellezza, di verità credo possa essere una “sfida” e un’attitudine che accomuni gli esseri umani in quanto tali. La bontà è il modo con cui ci si rispetta, ci si prende cura gli uni degli altri, senza farci male. La bellezza è il motore del mondo. La verità la intendo proprio nel suo significato di autenticità, di veracità».
Nella lettera che ha scritto di recente al Corriere fiorentino parla, a proposito del Coronavirus, di emergenza sanitaria, ma anche culturale. In che senso culturale?
«Una vicenda di questo tipo non ha soltanto delle componenti riferibili, diciamo, a questioni sanitarie ed “igieniche”. Non si può pensare che la nostra percezione della realtà e dello stare insieme possa essere come lo era prima di questo contagio. Siamo tutti più impauriti, siamo tutti più indeboliti, anche da un punto di vista economico. Ci sarà da ricalibrare certe nostre attitudini comportamentali e dunque culturali che speriamo, insomma, possano migliorare; questo è l’auspicio. Adesso stiamo vivendo questa inedita esigenza di doverci attrezzare come mai ci saremmo aspettati a una forma di distanza, di contenimento sociale, relazionale, che è oltremodo necessaria. In futuro dovremo elaborare delle ragioni più che buone per tornare a fidarci gli uni degli altri, perché non siamo separabili dal nostro corpo. Dovremo reimparare una sintassi dello stare insieme e questa è un’emergenza culturale, sociale, non semplicemente sanitaria».
È un tempo da vivere o semplicemente da attraversare?
«Le due cose insieme. Non credo che si possa vivere senza attraversare, come non credo che si possa attraversare senza prendere sul serio la vita. È un tempo che ci chiede una riqualificazione della vita, questo senz’altro, proprio perché la desideriamo capace di sentirsi costantemente sollecitata dalla storia, dalla realtà. Non ci piace nessuna forma di spiritualizzazione della nostra vita e quindi di astrazione dal vissuto, dalle problematiche sociali, culturali, storiche. Perlomeno la tradizione a cui sento di appartenere, quella cristiana, modellandosi sull’incarnazione del Signore Gesù, fa del vivere e dell’attraversare, direi addirittura dello sporcarsi con la realtà, la sua cifra saliente. Questo tempo non ci dispensa da questo, anzi, ricostruire il domani sarà tanto più fecondo di futuro quanto più faremo tesoro di tutto quello che abbiamo dovuto vivere, scegliere, subire, e quindi attraversare in questi giorni. Certamente non possono diventare una parentesi».
Un tempo dunque pienamente pasquale, non solo per la coincidenza con il calendario.
«C’è una singolare sincronia, si direbbe, tra il diffondersi del contagio e i tempi liturgici, che sono un po’ l’orologio “più vero”, per chi, naturalmente, ha fede in Cristo. Se è vero come è vero che tutta la struttura quaresimale, dalle Ceneri in poi, evoca un destrutturarsi della nostra condizione umana, attraverso la prova nel deserto, attraverso anche alcune rinunce psicofisiche che propiziano una qualificazione della nostra vita in Cristo, per una nuova creazione, per una nuova riqualificacazione della nostra condizione umana, ecco, si può dire che senz’altro, volenti o nolenti, questo contagio ci impone un destrutturarsi della nostra presunzione umana. Questo contagio ha minato, oltre alla salute, l’idea, tutto sommato data per scontata, che i singoli talvolta possono, per loro sfortuna, dover affrontare un’emergenza medica, sanitaria, ma che, fondamentalmente, il corpo sociale ne è indenne, perché è tecnologicamente così avanzato da non dover mettere in agenda il rischio di non sopravvivenza. E invece, questa epidemia ci svela proprio questo rischio. Allora, ecco che la Pasqua diventa un orizzonte di speranza e di ricostituzione, di rigenerazione del nostro tessuto organico, vitale, sociale, spirituale e di nuovo culturale, perché comunque l’evento Cristo ha una sua portata anche nel nostro modo di interpretare la vita, la storia, il mondo, le relazioni, con il suo contributo condivisibile o meno, ma che certamente può essere oggetto di un dialogo, un’interlocuzione anche con i non credenti, perché apportiamo comunque un certa idea dell’uomo e della donna che, soprattutto in tempi di sofferenza e di malattia, ne fanno risaltare tutto il mistero, l’importanza, la centralità. Basti pensare che nella tradizione a cui appartengo, quella monastica, il monaco ravvisa la reale presenza di Cristo in tre soggetti: la parola e il magistero dell’abate, se sono degni di tale esemplarità, e poi sempre e comunque l’ospite, il pellegrino, il forestiero, di cui non conosci la provenienza, e il malato. Il fratello malato è Cristo. Già una visione così alta del malato apporta nel nostro convivere civile e sociale una inevitabile portata di attenzione e di cura. È quello che stiamo vedendo mirabilmente negli ospedali, dove tutti, credenti e non credenti, rischiano la propria vita per la guarigione dell’altro».
Il personale medico e paramedico è come se fosse composto da “monaci”?
«Quando facciamo del bene consapevolmnete o inconsapevolmente comunque estendiamo i confini del Regno di Dio. Il Regno di Dio apporta giustezza, dignità, valore, significato alla nostra vita, alle nostre relazioni. È per questo che il Signore è venuto e quindi se noi riusciamo a estenderne il Regno, attraverso la cura, la condivisione, la responsabilità, e diciamo pure una parola non molto simpatica, soprattutto in questi tempi, attraverso il sacrificio di sé, noi viviamo davvero dinamiche pasquali e questo, credo, riempie il cuore di speranza in tutti. Si può credere o non credere, decifrare queste cose con un linguaggio e una sensibilità spirituale o meno, però quando vedi persone che antepongono gli altri a se stessi, tu riscopri la ragione per cui veramente sei vivo. Questa mi sembra la bellezza che contempliamo in tanta sofferenza, in tanta bruttezza».
L’anno scorso lei è stato scelto da Papa Francesco per gli esercizi spirituali della Quaresima. Come legge la camminata del Papa per le vie e le chiese di Roma di qualche giorno fa in preghiera contro il Coronavirus?
«Il Papa ha un suo stile piuttosto forte in termini di comunicazione, di espressività, direi proprio di originalità e di creatività nel modo di interpretare il ministero che gli è stato affidato. Ha fatto l’eccezione che conferma la regola uscendo, come non dovremmo fare noi, di casa, ma lo ha fatto per rendere visibile che cosa? Una percezione che erroneamente si è avuta e cioè che in fondo la Chiesa, una volta che si è riparata dietro le sue porte, ha fatto quello che doveva fare, lasciando poi il flusso di questa storia al suo destino. Il Papa, per quello che mi è riuscito di interpretare, ha scelto proprio di contravvenire a un ordinamento civile per segnalare che la Chiesa, anche se in questo momento non sembra, continua ad abitare la vita della gente e la sofferenza dei tanti, e lo fa attraverso la preghiera, prima di tutto, ma anche nelle innumerevoli circostanze in cui tante persone, come battezzati, come religiosi, come presbiteri, ognuno con i propri crismi, cercano di fare la sua parte in questa situazione così drammatica. Il Papa ritiene e ci ha detto più volte come Dio abiti la città. Quindi, per lui scendere nel cuore di Roma è stato davvero incontrare Dio nella vita della gente».
Lei è un appassionato di poesia. Per tracciare un orizzonte che ci porti fuori da questo momento quale poeta le viene in mente?
«Mi viene in mente una voce nostrana, Margherita Guidacci, che ci dona una bellissima poesia che parla di ali: ci restituisce la possibilità di pensarci liberi. Lei immagina due farfalle che sono chiuse in un bozzolo e a un certo punto, finalmente, diventano farfalle e volano. Il primo verso recita così: Amore è questo senso d’ali. La percezione pasquale, per l’appunto, è che si è costretti a stare a lungo in un bozzolo, in una situazione di oscurità, di buio, di paura, che si ritiene ormai l’unico destino a cui si pensa di dover appartenere. E invece, inaspettata, arriva questa trasformazione che ci rende capaci di volare e quindi, come scrive la poetessa, fendere con il petto un elemento ignoto finora – e a un tratto divenuto la patria. È il simbolo dell’infinito a cui l’uomo può e deve aspirare. Mi sembra una lirica molto bella, con un bell’augurio per tutti».
In definitiva, questo è un tempo di separazione dagli altri, ma di attraversamento e di scoperta di sé.
«Se si vuole, sempre in una prospettiva di fede, è quella pedagogia che il Signore ci fa vivere attraverso i momenti difficili che, con la sua luce, con il suo aiuto e con il dono della sua parola, possono maturarci come successe a Israele nel suo cammino nel deserto».