FILIPPA ILARDO | Ore 7.00 della quindicesima giornata senza teatro. Se sulle bacheche di facebook si affollano link ai video di spettacoli “archiviati”, così in me si affollano pensieri e domande: è diventato questo il teatro? Una cosa sappiamo, il teatro lo si può fare senza niente (scene, costumi, musica, luci) niente, in qualsiasi luogo, in qualsiasi spazio, in qualsiasi condizione; possiamo insomma fare a meno di tutto, tranne di una sola e ineludibile condizione: l’essere nello stesso luogo e nello stesso tempo di un attore e di uno spettatore. E come la mettiamo con i dispositivi digitali ora che teatri e compagnie aprono, finalmente, i loro archivi? Comincio a pensare che servono altre categorie per formulare pensieri nuovi su scenari del tutto nuovi. È per questo che apro la chat di messenger: Vincenzo del Gaudio (che da anni, insieme ad Alfonso Amendola all’Università di Salerno, si interroga sul rapporto tra teatro, medialità e culture digitali) mi risponde immediatamente (lo credo, siamo tutti a casa…).

La comunicazione, nella sua brutale istintività è diretta, decido di lasciarla così.

Ciao Vincenzo, ho pensato a te, alle tue ricerche. Noi critici siamo disorientati, ci manca il terreno sotto i piedi. Dopo questo silenzio, dovremmo attivare delle riflessioni, dei pensieri, delle chiavi di lettura.

Sto per pubblicare un nuovo saggio ti mando una bozza. Titolo: THÉATRON. Verso una socio-mediologia del teatro e della performance.  A breve, probabilmente, per l’editore Meltemi. Te lo mando.

Ecco lo sto aprendo adesso, leggo: “negoziazione tra spazio fisico e spazio digitale”… Il teatro si trova a ridefinire la propria funzione spettacolare facendo i conti con l’orizzonte mediale dentro cui, comunque, si trova… Mi sa che il nostro modo di vivere l’esperienza mediale e il dialogo con il mediascape, dopo questo momento, cambierà per sempre.

Ma è così da almeno vent’anni, stando stretti. Sono molte le esperienze che ci mostrano come lo spazio scenico sia deflagrato sul piano dei media. L’esperienza spettatoriale contemporanea che diventa più complessa.
Il teatro, in realtà, ci arriva tardi per una serie di ragioni storiche e sociali. Intanto perché ha una tradizione antichissima con cui fare i conti e soprattutto perché spesso è stato pensato come alternativo ai media. Ma oramai anche nelle arti performative la cosa è sempre più così, basta pensare a fenomeni come i lavori della compagnia britannica Imitating the Dog.

Tu scrivi: “guardare il teatro all’interno dell’ecosistema mediale”. Come far dialogare il medium teatro con il medium audiosivo?

Ma il bello dei media, anche il brutto, a dire il vero, è che da sempre sono interconnessi. Nel senso che in una teoria integrata dei media il teatro ha una posizione particolare perché, tra tutte le forme, è il modello più antico e quello con il potere di critica più elevato.
Se ci pensi, l’orizzonte tecnologico è sempre stato ineludibile dalle forme di teatro che anzi ne hanno sempre sfruttato peculiarità e funzioni sociali.

Ma quello che non comprendo è: mancando l’elemento primitivo, il grado zero del teatro, cioè la compresenza spazio-temporale, il teatro muore o crea un supporto nuovo, un rapporto diverso con i dispositivi digitali? Magari ricostruendo l’unità di tempo se non di luogo, come nelle dirette in streaming, ad esempio…

Su questa questione della compresenza tutti i performance studies tendono a ergere un muro invalicabile…

…mi ricordo bene la risposta di De Marinis, a un convegno, quando il professore ti disse che nel teatro la compresenza spazio-temporale è un dato imprescindibile senza cui non c’è teatro…

Si si, con Marco siamo sempre in contatto, anche se a volte siamo in disaccordo. Oggi bisogna essere più cauti. Il punto è: in questo momento tu sei presente dove? In chat con me o dove si trova il tuo corpo fisicamente?

In questo momento, io sono con te, ma non sento il tuo respiro e il tuo odore. Mentre parlo con te, io faccio altre cose. Dove guardo? Pensa a quelle dirette in cui persone in giacca e cravatta svelano alla fine di essere in mutande. Non siamo “immersi” nella stessa condizione.

Rispondere a questa domanda oggi è sempre più complesso perché nel migliore dei casi sei in entrambi i luoghi. E se una tecnologia ti permettesse di sentire il mio respiro (il telefono e i suoi derivati principali lo fanno) e il mio odore, cosa cambierebbe? A mio modo di vedere nulla. Non lo sei mai veramente neppure a teatro. Per retroterra culturale. Per esperienze percettive pregresse. Oggi viviamo in un ambiente in cui i media producono modelli percettivi fino ad arrivare a una posizione estrema secondo cui è la nostra mente ad agire in modo mediale. Tu sei una critica e lo sai bene che non hai lo stesso sguardo di uno spettatore comune. Che da ultimo significa che non percepisci allo stesso modo e soprattutto non rielabori l’esperienza allo stesso modo degli altri comuni spettatori.

Vero. Vedo, a volte, il pubblico emozionarsi per una cosa che a me sembra scontata, addirittura brutta, piatta… e questo comincia a preoccuparmi. Che spettatrice sono? Che sguardo ho?

Questo ti fa capire che la presunta unità di connessione del teatro è chiaramente un sogno. Il Novecento l’ha sognata ardentemente, soprattutto gli anni Sessanta e Settanta. Si è cercato di rispondere all’ipermediazione crescente con una sorta di rifiuto ai media. Pensa a esperienze come quelle di Grotowski, in quegli anni il teatro si è sforzato di mostrare le proprie differenze rispetto ai media, cinema e televisione su tutti, piuttosto che evidenziare le analogie.

Leggo la definizione di mediashock: “L’ossessività dei mezzi di informazione in occasione di crisi e disastri, il modo in cui i media rimediano e premediano queste narrazioni dello shock”. Stavi già lavorando su questi concetti, prima dell’emergenza? Siamo noi troppo indietro e siete voi sociologi troppo avanti?

È il concetto elaborato dal mediologo americano Richar Grusin secondo cui, semplificando, nei momenti di crisi i media producono narrazioni che influiscono sul piano emotivo e percettivo, determinando veri e propri shock percettivi che riconfigurano il modo di intendere il mondo e destabilizzano modelli sociali consolidati

È questo che cambierà nel futuro, secondo te? Ci fideremo di più del supporto mediatico, del dispositivo elettronico?

Ma è già così: le esperienze più avanzate per le arti performative vanno già in una direzione di integrazione. L’esperienza di Punckdrunk, ad esempio; ha fatto uno spettacolo con PlayStation che è esattamente a metà tra social network e teatro.

Tu lo hai visto o lo hai studiato?

Solo studiato. Ho visto i lavori di network theatre, un tipo di teatro basato proprio sull’idea che lo spettacolo, nell’era digitale, si costituisca a partire da una negoziazione tra spazio fisico e spazio digitale. Ad esempio, ho assistito a spettacoli della compagnia catalana Kònic Thtr, che usa i media digitali in funzione drammatica, come sensori di movimento, la motion capture live, videomapping.

Dove?

A Barcellona e a Belgrado. Ma dire dove è un po’ complesso. Sono messi in contatto due palchi in due città del mondo che interagiscono a distanza, si integrano tra loro e gli spettatori fanno esperienza dei due palchi contemporaneamente.

Cambia anche la spettatorialità?

Certo, ci si trova di fronte un’esperienza mista, su questo ha lavorato molto Laura Gemini. Ma guarda che la musica pop, oramai, lo fa da un po’ senza per questo provocare scandalo. Pensa solo al concerto in ologramma di Tupac, o di chi per lui; ultimamente pure Whitney Houston. Guardi uno spettacolo live, ma il cantante è morto da più di 10 anni.

E in italia?

Fanny e Alexander sono stati dei veri pionieri. Ad esempio T.E.L. si svolgeva contemporaneamente a Napoli e a Torino, e si era in interconnessione via Skype.

Questi sono artisti che hanno scelto di dialogare con il mediascape e ne hanno fatto un loro campo di ricerca. Ma per tutti gli altri? Questa interconnessione forzata, secondo te, cosa cambierà? Cosa possiamo aggiungere di nuovo, in una visione del post-futuro, sia nel campo degli studio sia in quello della percezione del teatro e dei percorsi artistici?

Gli altri hanno due strade: 1) rivendicare la propria estraneità al mediascapes e pensare il teatro come una sorta di avamposto culturale di un mondo che non c’è più; 2) accettare che l’obsolescenza del medium scenico è anche una possibilità e utilizzare il teatro come spazio per comprendere meglio i media digitali. Ma per fare questo bisogna avere la consapevolezza dell’obsolescenza e dell’ineludibilità del rapporto. Pensaci, alla fine pure uno come Tino Caspanello, che credo sia assai lontano dai media digitali, per mandare in giro i suoi lavori li deve caricare on line, ecc.

Si, tutti noi studiamo sul video, ma non lo ammettiamo.

Eh, ma non è una roba pacifica. Cioè, trattare il video come documento implica una serie di problemi importanti. Pensa a come funzionano le dirette social. O le conferenze stampa. Sono documenti? Si? No? A quale condizione?

Nel libro parli di Handscapes.

Sì, è una drammaturgia di Tino Caspanello e da lui diretta insieme a Cinzia Muscolino, che ha come tema portante il rapporto tra presenza e assenza dei media in scena. Tale dialettica viene sviluppata su due livelli interconnessi tra loro: uno letterario e uno scenico. Caspanello mette in relazione la scrittura drammaturgica con la scrittura in rete.

E il proliferare dei flashmob? C’è una forma di teatralità o ci stiamo spingendo oltre? Forse il bisogno di un rito collettivo?

È ovvio che c’è una forma di teatralità. Pensa a come il teatro agitprop può essere pensato come una forma archeologica del flashmob. Se superi il pregiudizio, ti rendi conto che il teatro è uno spazio mediale da sempre e come tutti gli spazi mediali vive di ri-mediazioni continue. Per esempio i social network sono uno spazio enormemente teatrale.

In che senso?

Sui social noi costruiamo continuamente forme di identità che si basano su frammenti di comunicazione spesso prodotti da altri. Negoziamo la nostra identità e la costruiamo in modo teatrale. Sui social mettiamo in scena la nostra identità, Goffman parla di performance per il comportamento in pubblico (ed è uno dei primi a usare il termine performance), delle parti della nostra personalità. Beh, è chiaro che questo implica diversi livelli. Per gli attori, è ancora più evidente: Zombitudine e i frammenti che Frosini e Timpano inscenano sul web, non sono performance quelle?

Si, lo sono, ma abbiamo ritrosia ad ammetterlo.

Lo spazio del web è uno spazio performativo. I social network producono una performance “di secondo grado”: cioè generano nuove forme di ri-messa in scena. I live blogging, live twitting e tutte le pratiche che si basano sul commentare in diretta un determinato evento producono un modello di liveness indiretto.

Stai dicendo che esiste una forma di “liveness digitale”?

Il problema non è più quindi definire lo spettacolo dal vivo in contrasto con lo spettacolo non dal vivo. L’esperienza scenica si fa sempre più integrata con il mediascape contemporaneo. Quindi l’unità spazio-temporale diventerà un concetto ibrido, che si va complicando sempre di più. Esiste infatti una dimensione di liveness digitale che significa condivisione del tempo. Rispetto allo spazio il discorso si complica, invece, perché i nostri corpi oggi producono e significano lo spazio in diversi modi. Ad esempio toccando un cellulare. È chiaro che questo differisce dallo stare in uno spazio fisico insieme, ma per me questa differenza non è ontologica. Lo è sul piano della gradazione della percezione. Siamo insieme pure on line, ma a un grado diverso.

Ti sei accorto che, alla fine mi stai rilasciando un’intervista? Io copioincollo e la pubblico… solo una cosa però: corpo e teatro sono un binomio imprescindibile, dobbiamo dimenticare tutto?

Non dobbiamo dimenticare niente. Il corpo è imprescindibile per qualsiasi cosa facciamo, anche per stare online, almeno fino ad oggi. E il teatro ci ricorda sempre che questa corporeità può essere negoziata ma mai elusa. Il teatro è lì per dirci “io mi ibrido, ti mostro come funziono e come funzionano gli altri media, per questo non puoi fare a meno di me”. Insieme ad Alfonso Amendola, quando abbiamo curato gli scritti teatrali di Abruzzese, ci siamo inventati questa definizione “il dispositivo segreto”.
Perché il teatro sta là, nessuno ci fa caso, ma se lo guardi bene ti permette di capire come funzionano le altre forme di comunicazione. Questo perché il teatro dovrebbe essere morente, o morto, da secoli.
Ma alla fine non muore mai.

Mi sembra un’ottima chiusura per un’intervista!

Assolutamente sì.

 Ci mettiamo pure gli emoticon! (Scherzo)

Va bene! (Scherzo pure io, ma neppure troppo).