ANTONIO CRETELLA | Tra le usanze che spero vengano portate via da quel briciolo di consapevolezza collettiva che fiduciosamente suppongo stia maturando come pupa nella crisalide della quarantena, c’è quella disturbante grammatica della paura che ci infetta con il suo lessico ridondante e forzoso, la sintassi dell’urlo e la formattazione dello scandalo perbenista. Sempre uguale a se stessa tanto da divenire oggetto abusato di satira, la sua efficacia non sembra risentire dei continui debunking e delle numerose smentite: è un linguaggio segnaletico, veicolo di un allarme espresso dalle forme e dai colori che aggirano la comprensione e puntano ai gangli del cervello ancestrale. Come quegli insetti innocui che imitano i colori e le forme dei loro consimili velenosi o il crotalo che annuncia la sua presenza con lo scampanio dei sonagli, l’osceno capslock, le siepi di punti esclamativi, i colori rosso e giallo indici di allarme titillano la reazione primitiva riflessa e in-mediata, nutrono il non-pensiero adrenalinico, manovrano lo stato neurovegetativo del suddito-elettore. Poco importa il contenuto: tutto può diventare incommensurabilmente minaccioso in un pauroso maiuscolo in corpo 30.
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