LAURA BEVIONE | Marcido Marcidorjs e Famosa Mimosa è una delle compagnie più significative e longeve della scena sperimentale italiana, nata a Torino nel 1984 e, dal primo spettacolo di due anni dopo – uno Studio tratto dalle Serve di Genet -, impegnata in una ricerca testarda e puntuale sulla lingua e sul suo dialogo con l’immagine – quest’ultimo aspetto curato dalla pittrice-scenografa Daniela Dal Cin.
Abbiamo chiesto a Marco Isidori – autore, regista, attore, cofondatore della compagnia insieme a Maria Luisa e Sabina Abate, Daniela e Lauretta Dal Cin – come lui e gli altri Marcido stanno trascorrendo questi giorni di forzata assenza dal palcoscenico.
Come state vivendo questo periodo di isolamento? State proseguendo ll lavoro che stavate preparando prima della chiusura dell’Italia?
I Marcido hanno sospeso le prove nel loro teatro Marcidofilm! tre settimane fa. Eravamo in quella fase che noi teatranti siamo soliti definire “tavolino”, la parte “vocale” cioè, del nostro prossimo (speriamo!) David Copperfield Sketch Comedy, un carosello dickensiano. Come tutti ci siamo ritirati in casa, da dove, con i mezzi della telematica cerchiamo, non di proseguire il lavoro, questo è impossibile, ma almeno di conservare ciò che è stato finora costruito. Dovevamo anche debuttare qui allo Stabile torinese con una rinnovata edizione di Happy Days in Marcido’s Field (i beckettiani Giorni Felici), spettacolo che era anch’esso contemporaneamente in prova, ma…
Gli umori, è ovvio, sono altalenanti, però la coesione del gruppo ci sorregge, l’unità di intenti in questo momento è veramente un valore importante, lo direi anzi decisivo per non soccombere all’angoscia dell’impotenza e programmare, seppure con prudenza, il futuro.
Come si modificano le relazioni umane in questo tempo sospeso? Quello che stiamo vivendo è un periodo di reclusione, forzata e improduttiva, oppure di solitudine costruttiva?
Certo il momento presente esige quasi una riscrittura della rapportualità umana, le scimmie vivono di “toccamenti” e noi siamo pur sempre, ricordiamocelo, scimmie! Quanto alla relazione con il nostro io produttore, devo dire che è, oggi, una relazione pericolosa; da una parte ci vorrebbe, diciamo, portare avanti, ma poi il dato depressivo, che non manca, malgrado ogni sforzo per contrastarlo, prende un po’ piede, e le buone intenzioni tendono ad arenarsi. Adesso penso che la solitudine creativa sia da perseguire soltanto come una tecnica” la quale però vive e si “impollina” (dunque fruttificherà!) soltanto se la si mette al servizio di un futuro rinnovato bagno d’umanità vivente; cosa che il teatro sopra tutte le altre arti obbliga e permette. La solitudine si può così sopportare, e se ne possono anzi sfruttare persino le caratteristiche meno positive, quali l’isolamento; e quelle più positive per la produzione, come, ad esempio, la maggior potenzialità di concentrazione, nella prospettiva di un nuova futura “carica” delle arti della Presenza.
In queste condizioni di coprifuoco qual è il ruolo del teatro, arte della presenza per eccellenza?
Lo dico chiaramente, il teatro, proprio e appunto perché arte della presenza (o meglio della compresenza di attori e pubblico), in questo frangente non può far sentire alcuna sua voce diretta; è imbavagliato, inoperante, qualunque giro di valzer ideologico si voglia imbastire per dimostrare il contrario. Può, e forse deve, interrogarsi su se stesso, sviluppando qualche critica specialmente sul contrastato e ambiguo terreno dell’utilizzo drammaturgico dei super mezzi tecnologici che, in tutta evidenza, poco c’entrano con quell’artigianalità a noi cara, anzi preziosa. Ci sentiamo obbligati a una riflessione importante sulla complessità del fenomeno scenico che, potendo, per sua natura, prescindere dalla supertecnologia, in un qualche modo – certo oscuro, certo indicidibile allo stato attuale della ricerca – ne è forse, nemico non dichiarato. Forse, ma è solo questione di tempo: poi credo che apparirà evidente che appoggiarsi troppo alla disponibilità dei tanti “media” è controproducente per l’arte dell’immediato.
Quali autori stai frequentando in questi giorni e quali riflessioni/pensieri/immagini ti suggeriscono?
Di solito, una volta scelto un autore – e noi Marcido ci chiniamo volentieri sui classici: Molière, Shakespeare, Beckett, anche se poi amiamo rivederli e “correggerli” secondo la nostra sensibilità –, andiamo rapidamente al sodo inventando scenari, costumi, decidendo linee interpretative ecc… Ma adesso, adesso che il Generale Tempo ci ha sotto il tallone, (speriamo non per molto ancora) e la sua battaglia ci inchioda in biblioteca, i volumi della stessa cominciano a vociferare, si sentono, giuro! implorare: “Leggimi! Rileggimi! Mettimi in scena! Considerami!”. Noi ascoltiamo, prendiamo uno sgabello, guadagniamo le scaffalature più alte e perigliose, quelle preda di polveri antiche, e scartabelliamo… leggiucchiamo… valutiamo… Ecco ecco che sbuca da un anfratto quasi irraggiungibile e di fatto mai raggiunto, nientepopodimeno che Il concilio d’amore del diabolico, scostumato, drammaturgo tedesco Oskar Panizza, no no troppo blasfemia… troppa verità… non andrà! Tornatene nel tuo scaffale, Inopportuno!
Guarda guarda chi ti ritrovo! Soffocato da alcune riviste di floricultura fa capolino il Tutto il teatro di Eliot; questo è un amore antico, e quando aprimmo il nostro spazio Marcidofilm! il suo Impiegato di fiducia era in lizza per una messa in scena… però… grande dramma… dramma fino… pubblico pochino! Via verso testi meno impegnativi! Allora diamo un’occhiata alla pila di libri sempre in bella evidenza, quelli a portata di mano; tre edizioni del Pinocchio, mannaggia! I Marcido hanno già inscenato la favola di Collodi tanto tempo fa (1992), e la voglia di rimisurarsi col Burattino di legno è ancora forte, chissà che da questa forzata inattività non nasca un Pinocchio, il ritorno. Quanta letteratura! Quanto pensiero umano! Che cumulo di parole… noi siamo stregati dalla parola… ci sembra che “invocandola”, mettendola in qualche modo a “suonare” la si “ingrassi”, le si dia ulteriore reale significato…
Dunque il pensiero dominante è il seguente: mi si dia in mano qualunque testualità, riuscirò a farne dramma. Comprendo l’estremismo di questo enunciato pazzerello, ma il momento presente concede questo scarto intellettuale, tornati alla normalità, normalizzeremo nuovamente i nostri propositi nonché i nostri pensieri. Ma adesso, come diceva Palazzeschi (altra attuale lettura) “Lasciatemi divertire!”.