ELENA ZETA GRIMALDI| In questi giorni, una percezione condivisa è che le regole del tempo così come ne abbiamo sempre avuto esperienza siano scomparse: ognuno di noi si aggira in uno strano ambiente psichico in cui tutti siamo costretti. Uno dei principali strumenti con cui ci rapportiamo al mondo ci appare inutilizzabile, dandoci la sensazione che il nostro rapporto con la vita sociale sia in stand by. Sembra che l’unico modo per continuare a misurare sia raccontare – e qua mi viene in mente l’ultimo libro di Lutz Bassmann/Antoine Volodine, i cui protagonisti, immersi in un buio senza spaziotempo, usano proprio il racconto per provare a darsi un ordine delle cose, ma questa è un’altra storia.
Ho riflettuto a lungo su questi concetti e sui loro possibili rapporti, decidendo poi di parlarne con qualcuno che di tempi (ma anche di spazi) ha un’ottima esperienza: Paolo Jedlowski, autore (tra gli altri) di Il sapere dell’esperienza (Il Saggiatore, 1994), Storie comuni. La narrazione nella vita quotidiana (Mondadori, 2000), Il racconto come dimora. «Heimat» e le memorie d’Europa (Bollati Boringhieri, 2009), Memorie del futuro. Un percorso tra sociologia e studi culturali (Carocci, 2017), Intanto (Mesogea, 2020). Milanese di nascita, vive tra Milano, Roma e Cosenza dove è professore ordinario di Sociologia all’Università della Calabria. I suoi studi si concentrano su memoria, esperienza, narrazione e vita quotidiana, quindi, come ha detto lui stesso, ha sempre «pensato sul tempo, ma il tempo vissuto».
Come sta vivendo questo tempo?
Beh, come ciascuno. Ciascuno un po’ a suo modo ma tutti nello stesso tempo. Sul lavoro le università si sono organizzate con corsi a distanza più o meno complicati: le riunioni le facciamo, le lauree anche – col rischio che i parenti però si arrabbiano perché non possono essere alla seduta. Poi, essendo un insegnate di Sociologia, mi viene voglia anche di pensarci sopra, a quello che sta accadendo. Però con dei limiti: mi sono accorto che ho più voglia di viverlo questo momento, che non di teorizzarlo. Come dire? Ho voglia di ascoltare. Ascoltare anche me stesso, le reazioni che vengono. D’altra parte viene curiosità di sentire gli altri, come stanno vivendo.
Perché sentiamo l’esigenza di raccontare, in particolare di raccontarci?
È una domanda la cui risposta sarebbe molto lunga. Viene in mente a tutti Boccaccio, no? Questi ragazzi che nel tempo della peste cosa fanno? Raccontano. Raccontare è una grande fonte di benessere, di condivisione, di creazione di altri mondi… è una cosa che fa bene. Ma lei diceva raccontarsi… e anche qui la faccenda è lunga. La cultura moderna ha praticamente inventato l’autobiografia, dapprima letteraria e poi che si è diffusa di ceto in ceto, di gruppo in gruppo. La cultura moderna ha enfatizzato il senso di essere individui: ciascuno è un po’ diverso. Non è chiamato a raccontare di sé solo chi è eccezionale, ma tutti, perché ciascuno è un esponente della vita e ha diritto di dirsi. Da fine Ottocento in poi c’è una crescita di autobiografie di figure marginali, o appartenenti a movimenti di emancipazione (donne, poi neri, e così via). E poi, specie in Italia, l’educazione per gli adulti (che è cominciata negli anni Sessanta) quanto ha enfatizzato il “raccontatevi”? Raccontatevi perché così imparate a raccontare, a parlare, ma così anche diventate capaci di prendere voce. Dall’educazione per gli adulti sono nate esperienze come la Libera Università dell’Autobiografia in Italia. È un lungo filone che ci porta al diritto attuale di raccontarci.
È cambiato qualcosa con l’avvento dei social?
Negli ultimi dieci-quindici anni c’è stata un’esplosione di auto-racconti nel web (piattaforme come facebook hanno esasperato la faccenda), e lì al diritto di raccontarsi si è aggiunta una esasperata voglia di visibilità: mi racconto dunque esisto, e più gente mi ha visto più io esisto. Devo dire che l’insieme non è poi sempre interessante, perché si tratta di presentazioni di sé. Testimonianze ritoccate, niente di simile a una ricerca di sé, o a un ragionare sulla propria esperienza, metterla in campo e riflettere. La presentazione di sé può essere un po’ stucchevole. Invece raccontare di sé – diciamo – sul serio, come fai a volte a un amico caro, a chi ami, a volte a uno che non conosci ma c’è stato un click che ha aperto la porta… ecco, quello è interessante. Ma in questi giorni io sento una cosa diversa: non solo la voglia di raccontarsi, ma la voglia di sentirsi raccontare cosa stanno vivendo gli altri. Ci si telefona, ci si manda mail tra persone che si conoscono ma in fondo non si frequentavano più di tanto… Ci si dice ma, ripeto, ci si chiede l’un l’altro. Io a un amico ho chiesto «Che cosa ti manca in questi giorni?» e lui è partito a raccontare, ma poi l’ha chiesto anche a me. Perché è un’esperienza così nuova che – ammesso che la salute vada bene a te e ai tuoi cari – è veramente interessante. Per reazione, ti fa capire di più com’è fatta la tua vita normalmente, no?
Quindi, anche se sembra che tutti stiamo vivendo la stessa identica esperienza, stiamo continuando ad avere delle esperienze assolutamente personali, individuali?
Guardi, si e no. Perché, in un certo senso, siamo veramente in una specie di “intanto collettivo”, in un altro senso siamo diversi. Provo a spiegarmi. Dico prima dove siamo diversi: va beh, lo siamo tutti, comunque, ma in effetti ci sono anche differenze sociali, che in questo momento sono molto marcate. Io lavoro in università quindi lavoro on line: ho delle difficoltà, ma non cambia tantissimo. Il commerciante, l’artigiano, il loro negozio l’hanno chiuso: è diversa la situazione, non possono lavorare. Penso poi a quelli che lavorano in ospedale: è tutta un’altra esperienza. E dico “quelli”, al plurale, cioè è un gruppo, una cosa sociale. I trasportatori: sono costretti a lavorare, e non è che vorrebbero tanto, magari. Però è importante che ci siano i trasporti. E poi li senti − mi è capitato alla radio − dire: «Si, io continuo a trasportare. Però, accidenti, non trovo un bar aperto neanche per far la pipì!». Eh, già… perché i bar son chiusi. Potrei andare molto avanti nell’elenco. Questa stessa cosa sta colpendo necessariamente in modo differenziato le persone a seconda dei mestieri.
Vengo all’aspetto, invece, per cui è la stessa esperienza. Proprio la stessa non è, però… Noi viviamo sempre intanto che vive un sacco di altra gente, no? Però non è che di solito ci sentiamo dentro a un corpo unico, non ci badiamo. Gli altri… si, in certi momenti li senti come “simultanei”, quando guardi la televisione, specialmente. Però “simultaneità” è ancora poco, è astratto. Veramente, sentire gli altri come con-temporanei, cioè dentro lo stesso tuo tempo, non è frequente, lo facciamo per poche persone. Secondo me questa esperienza ci sta dando una sensazione inusuale, forte, di essere nello stesso tempo. A tanti. Cioè, lo sento che intanto che io son qui, c’è quello là dietro la sua finestra, c’è l’impiegato alla posta, quelli in ospedale… Divento più consapevole delle “altre vite intanto”, ecco. E in questo senso è collettiva questa esperienza, pur con le sue differenze singolari.
Lei si è occupato di memoria collettiva. Come funziona? Cosa ci resterà di questi momenti, collettivamente?
La memoria è una selezione (per forza, non ti ricordi tutto) ma è anche una selezione che si fa non del tutto individualmente. Da un po’ più di mezzo secolo i media (e la televisione con più forza) hanno dato i riferimenti per la memoria “storica” di ciascuno. Il crollo delle Torri Gemelle: tu non ci sei stato, ma ti ricordi di averlo visto in tv. Forse ci ha colpito così tanto che ciascuno quasi ricorda dov’era nel momento in cui ha visto quelle immagini. Questo vale un po’ per tutto. Cioè, i mezzi di comunicazione di massa “segnalano” cosa è rilevante per tutti, e poi lo confermano. Con i ripassi, con i richiami: con l’anniversario, la trasmissione che riprende dov’eravamo, come eravamo, com’era, eccetera. L’effetto finale è che tu puoi finire per non sapere più esattamente che cosa stai ricordando di tuo e che cosa stai ricordando di collettivo. Un’assoluta confusione, un impasto. Pensavo l’altro giorno alla canzone di Mia Martini La nevicata del ’56: io nel ’56 avevo quattro anni, non stavo neanche a Roma, non è un mio ricordo. Ma la canzone così bella, ripetuta tante volte (in televisione, su youtube), la voce di Mia Martini… fanno sì che io quella nevicata l’ho vista. Così funziona la memoria: ce la si passa, la si impasta insieme. E avverrà anche questa volta.
Molti stanno utilizzando la definizione “tempo sospeso”, come se vivessimo in un presente che in questo momento non ha né un passato né ha un futuro…
…rispetto a questi giorni qui o, in generale, in questa fase della modernità?
Il punto è esattamente questo.
Allora, il presentismo della condizione moderna è una diagnosi che dice qualcosa di vero. Perché siccome le cose cambiano spesso, velocemente e frequentemente, il peso del passato si alleggerisce forzatamente, perché non ti serve più di tanto per muoverti nel presente. E, d’altra parte, siccome il futuro è costantemente incerto, produce un ventaglio di possibilità continuamente cangianti, è difficile lanciarsi in progetti o in previsioni a lunga durata. Questo è vero in generale, purché non lo si prenda alla lettera: perché il presente, come ha scritto una mia cara amica, «non si basta». Non esiste un presente sganciato dal passato e dal futuro, dalla memoria e dall’anticipazione, proprio non c’è. Quello che è successo è che la modernità ha un po’ – e neanche in tutti gli ambiti – contratto gli orizzonti della memoria e dell’anticipazione. Ma “un po’ contratto”, non “annullato”. Questo, sul generale.
Sull’oggi… beh, intanto vale ancora che «il presente non si basta»: io continuo a ricordare cose, e anche lei, e tutti; io continuo a proiettarmi nel futuro perché è fatta così la vita, abbiamo un’attenzione verso l’attimo prossimo, la giornata prossima e così via. Quello che succede è, sì, qualcosa come una “sospensione”, ma intendiamoci: lo è innanzitutto perché siamo spiazzati. Tutti i programmi che avevamo e che ci strutturavano le giornate sono effettivamente incerti, in un modo radicale, molto inedito. Questo spiazza, e allora siamo in un tempo sospeso perché è difficile prendere decisioni, appuntamenti, fare programmi.
Ma mi interessa e mi convince questa parola “sospensione”. Sarà stato un po’ questo fatto di essere in casa, con libertà limitate… mi è venuto in mente quando ero soldato: era un tempo di limiti, pazzesco per me giovanotto, poi nei primi anni ’70 era una cosa terribile. Era un tempo “sospeso”: sganciato dal prima e dal dopo perché quella esperienza lì non somigliava a nessuna precedente e a nessuna dopo. Poi ricordo addirittura i due giorni che finii nel carcere della caserma… eh, là ancora di più: quando sei dentro, quando sei detenuto, la vita è sospesa, però non è vero che il tempo è sospeso, è che devi darti dei ritmi, delle scansioni, che prima non avevi minimamente in mente. Ecco, forse la difficoltà di darsi dei ritmi (e quindi un ordine del tempo) la stiamo sperimentando. Mancano quasi tutti i rituali (anche quelli collettivi). Poi penso che ciascuno un po’ se la cava, si costruisce i suoi ritmi quotidiani. Però è una fatica, perché… la situazione è così cambiata!
Uno dei suoi libri parla di memorie del futuro, un concetto molto interessante. Come potremmo utilizzarlo in questo momento?
“Memorie del futuro” vuol dire ricordarsi dei futuri che immaginavo in passato. Che io ricordi, non avevo mai immaginato un futuro con una pandemia. Avevo letto un sacco di cose di fantascienza che lo comprendevano, che però non avevano avuto un particolare impatto su di me. Ora così posso “ricordare” futuri immaginati in passato ma allora marginali. E adesso dico “Ma cacchio! C’avevano un po’ azzeccato. Ma come mai? A cosa badavano quegli autori per proiettare questa possibilità in un futuro immaginario?”. Questo è un esercizio che posso fare. Posso anche tornare indietro sull’immaginazione dei futuri di progresso che ci hanno caratterizzato per decenni e chiedermi “Che ne è? Che ne sarà?”. Magari poi posso dirmi − sarebbe un’elaborazione interessante − “Ma forse l’idea di progresso che avevamo aveva qualcosa di ingenuo, oppure di sbagliato, avevamo inteso come progresso una certa cosa (dominio tecnico sulla natura, benessere fisico, ricchezza…), magari il progresso può essere anche qualcos’altro (crescita della capacità di vivere la vita, magari di comprenderla…)”. Ecco, si può tornare sui disegni di una volta del futuro e, istruiti dall’oggi, usarli per ri-lanciarsi verso il futuro: “E dopo, allora, che faremo?”. Per esempio, potremmo attrezzarci perché se c’è un’altra epidemia ora sappiamo come fare. Ma potremmo anche dirci “Beh, però abbiamo scoperto che forse lavoravamo troppo in certe dimensioni, e magari troppo velocemente”… potremmo riconoscere che vivevamo con una certa bulimia del possibile: facevamo tuttotuttotutto quello che si poteva. E abbiamo scoperto che si può vivere anche facendo mica tutto. Può essere interessante, no? Magari impariamo qualche cosa per i prossimi futuri.
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