ILENA AMBROSIO | È un polifonico coro di voci quello che – come è giusto che sia – si è levato nelle ultime settimane dal mondo della cultura. Voci che cercano di interpretare e raccontare le attuali contingenze, di indagarne risvolti umani, sociali e valoriali, di immaginare possibili futuri. Voci diverse e, spesso, in contrasto. Come orientarsi tra esse? Quali ascoltare per capire, trarre spunti di riflessione o, almeno, conforto?
Ho conosciuto personalmente Stefano Petrocchi, direttore della Fondazione Bellonci, collaborando qualche anno fa, all’organizzatore del Premio Strega. In quel periodo ebbi l’occasione di scoprirne la capacità di coniugare una conoscenza accurata e quasi enciclopedica a una acuta e, a tratti, ironica lucidità nell’osservare le cose, nel comprenderle e nel dirle. Così ho pensato che un confronto con lui sarebbe stato utile e proficuo per mettere ordine e capire come l’ambiente culturale sta “gestendo” l’emergenza Coronavirus.
Stefano come stai organizzando il tuo tempo e il tuo lavoro in questo periodo di reclusione obbligatoria?
Come molti lavoro da casa, ma in realtà l’avrei fatto comunque perché proprio in questi mesi la Fondazione Bellonci avrebbe iniziato i lavori per la trasformazione della sede in casa museo; ovviamente tutto subirà uno slittamento. Lavoro in casa con mia moglie che fa lo stesso e mio figlio che segue le lezioni in remoto; ci dividiamo gli spazi ma in modo non troppo faticoso.
Ora ci sarà bisogno di una riprogrammazione generale del lavoro, considerando che la preparazione del Premio procede con rapporti e incontri in presenza. Come vi state organizzando?
Gli eventi del Premio sono collocati in un periodo che va da fine maggio a giugno/luglio, durante il quale siamo con gli autori in giro per l’Italia. Non sappiamo ancora cosa riusciremo a fare. Lo stesso vale per le due votazioni (quella che determina la cinquina finalista e quella che decreta il vincitore, n.d.a.) che, come sai, sono previste a metà giugno e inizio luglio. Dovremo capire se le attività saranno riprese e se sarà possibile fare incontri in presenza di molto pubblico. Staremo a vedere.
Certo è che questa situazione ci sta permettendo di sperimentare soluzioni alternative che potranno valere anche in futuro.
Avete realizzato, infatti, una serie di incontri on line con gli autori candidati al Premio Strega Giovani. Di cosa si tratta?
È un mini ciclo di incontri che abbiamo organizzato in collaborazione con l’associazione Piccoli Maestri, nata per portare la lettura nelle scuole. In questo caso i Piccoli Maestri hanno adottato i libri che concorrono allo Strega Giovani e ne parleranno insieme agli autori in video conferenza con le oltre cinquanta scuole italiane che fanno parte della giuria. Un’iniziativa che potrebbe proseguire in futuro e che comunque arricchisce il programma del Premio.
Si cerca di sperimentare nuove forme di comunicazione per mettere in contatto autori e lettori.
Arriviamo al nucleo della nostra discussione. Vorrei riflettere con te su come il mondo della cultura sta reagendo a questo momento. In un intervento su Doppiozero, Lucia Calamaro lancia un’invettiva contro tutti coloro che stanno parlando o parleranno, nel brevissimo futuro, del presente che stiamo vivendo e, in generale, contro la comunicazione amplificata cui siamo soggetti in questo periodo. Secondo te gli intellettuali stanno raccontando in modo appropriato ciò che viviamo? E poi, ha senso farlo subito o c’è bisogno di un periodo di sedimentazione dell’esperienza per trovare un modo sensato ed efficace?
Io penso che presente e riflessione sul presente siano sempre andati di pari passo, soprattutto ora che tutti possono esprimere il proprio parere tramite i social. Quindi non vedo perché non dovrebbero farlo gli intellettuali. Il punto è capire se lo stanno facendo bene o male.
Io credo che abbia molto senso in questo tempo ragionare su quanto l’emergenza che stiamo vivendo cambi il nostro stile di vita e i nostri valori; mi pare che alcuni – penso ad Agamben e a Baricco – si stanno concentrando proprio su questo. Agamben, in particolare, ha fatto degli interventi per la casa editrice Quodlibet molto criticati ma che credo siano in ogni caso interessanti.
Il punto è che davvero il modo di vivere che stiamo sperimentando – la segregazione, l’impossibilità di parlare dal vivo con gli altri, di andare a cinema e a teatro – costituisce un “esperimento”, una forma di distopia in atto. Non c’è più bisogno di immaginare un futuro distopico, perché quel futuro è già in mezzo a noi. In questo senso le immagini che stiamo vedendo colpiscono anche chi non se ne rende conto: la figura solitaria di Papa Francesco in Piazza San Pietro, i sanitari che soccorrono le persone in casa, bardati come se stessero sbarcando su Marte; l’esercito inviato a trasportare i feretri a Bergamo e provincia: tutto questo è quello che noi avremmo chiesto all’immaginazione di un autore e invece è realtà. Sono scene terrificanti che non abbiamo mai visto prima, che non possono non colpire l’immaginario di tutti noi e ancor più quello di chi con l’immaginario è abituato a lavorarci, a fabbricarlo. Poi possono nascere riflessioni accettabili, condivisibili o meno.
Abbiamo certamente bisogno di riflessioni ma anche e soprattutto di guide che ci aiutino a decifrare ciò che sta accadendo. Tu a chi tendi ad affidarti?
Personalmente sono molto attento a quelle figure di collegamento tra mondo umanistico e scientifico. Persone che ci aiutano leggere i numeri prima di tutto, perché proviamo tutti l’ansia di capire a che punto siamo della curva di diffusione dell’epidemia. Per cui guardo o a scrittori che hanno una formazione scientifica, come Paolo Giordano, o a scienziati che possiedono una capacità di riflessione ad ampio spettro, una sensibilità che va al di là del loro settore. Quando sento parlare Ilaria Capua, per esempio, percepisco un’attitudine comunicativa e un’empatia molto forti.
La riflessione degli intellettuali, che sia centrata o meno, più o meno sopra le righe, credo sia preziosa in ogni caso e che vada discussa. Ceratemente però mi auguro che chi prende la parola lo faccia assumendosene la responsabilità e non arricchendo il chiacchiericcio. Abbiamo bisogno di parole essenziali non di chiacchiericcio.
A proposito di parole essenziali, secondo te questa situazione sta generando delle modificazioni del linguaggio quotidiano che poi magari si rifletteranno in quello letterario? Penso, ad esempio, a tutto l’immaginario e, di conseguenza, al gruppo lessicale che concerne la guerra, utilizzato per parlare di una cosa che guerra non è. Più in generale credi che i momenti di crisi possano creare delle rotture a livello linguistico come fanno a livello sociale, valoriale ed economico?
Io penso che la lingua si muova con un ritmo suo proprio che è molto lento. Si muove su un tempo lungo e con il contributo di tutti, non sopporta bruschi cambi di direzione sulla base di contingenze specifiche. Ti faccio un esempio: tutti ci sforziamo di distinguere tra ministro/a, sindaco/a e così via, perché tutti sappiamo che il contributo femminile in certi ambiti professionali è molto cresciuto ed è giusto che venga riconosciuto anche a livello linguistico. Tuttavia, perché questo sia effettivo, deve arrivare nel tempo, non c’è decreto che possa modificare una situazione linguistica in tempi brevi.
Quindi sì, probabilmente ci saranno cambiamenti ma che si potranno vedere nel tempo lungo.
Riguardo alla pervasività della metafora della guerra non mi sento di dare un giudizio ma, se si avesse la sensibilità di evitare lemmi guerreschi quando sia ha a che fare con medici piuttosto che con soldati, direi che sarebbe meglio. Però è anche vero che chi si occupa di comunicazione e politica ha bisogno di mobilitare larghe fasce di popolazione e può farlo solo parlando un linguaggio ampiamente e immediatamente comprensibile.
Sempre rimanendo in ambito di parole significative, qualche giorno fa hai pubblicato un post su Facebook nel quale affiancavi una citazione da Calvino e una poesia di Patrizia Cavalli.
Personalmente quale delle due strade senti più tua? E la cultura invece, intesa ampiamente come insieme di valori umani, riuscirà ad avere una voce tanto potente da rompere le sbarre della prigione? Una prigione che forse non è tanto quella di adesso, delle nostre case, ma quella in cui ci ritroveremo dopo, quando non riusciremo comunque ad andare a teatro, al cinema, ad avvicinarci agli altri.
La poesia di Patrizia Cavalli credo risponda direttamente a Calvino con una citazione implicita, da qui l’accostamento che si potrebbe leggere da due punti di vista. Il primo è esistenziale e mi porta a pensare al fatto che esistono due tipi di persone. Uno è quello che ragiona sulle cose, che se ne lascia quasi ossessionare; l’altro, invece, le affronta in maniera più diretta, magari anche più creativa. Io sono del primo tipo naturalmente.
Credi che si vivrebbe meglio e si riuscirebbe a liberarsi più facilmente facendo parte del secondo?
Beh non lo so; magari uno pensa che, invece di capire come è fatto un ostacolo, è meglio prendere la rincorsa, scavalcarlo e basta, e questa è l’ipotesi della poesia della Cavalli. Però se non sei dotato dello slancio necessario, se non hai preso bene le misure, rischi di andarci a sbattere contro. Quindi ci sono svantaggi e vantaggi in entrambi gli approcci.
Leggendo il testo dal punto di vista della riflessione della cultura, invece, credo sia fondamentale avere entrambe le opzioni. È bene che ci siano coloro che ti misurano in modo accurato la dimensione della prigione ma anche quelli che ti portano via di lì cantandoti una canzone. Sono necessarie sia l’analisi che la creatività, non possiamo farne a meno.
Ritieni ci siano, al momento, personalità che rispondano a entrambe le esigenze?
Ti do una risposta che ha a che fare con il lavoro che faccio. Se pensi ai libri premiati negli ultimi anni dallo Strega, ne distinguerai due tipi (in media ovviamte): quelli scritti a un grado di separazione dalla cronaca, che riflettono in modo molto vicino alla nostra esperienza quotidiana, chiamando le cose con il loro nome – penso a Resistere non serve a niente di Walter Siti o a Il desiderio di essere come tutti di Francesco Piccolo –, e quelli che riflettono sul nostro passato più recente – La scuola cattolica di Albinati, per esempio. In entrambi i casi sono tangenti con la riflessione saggistica.
Manca un po’ il tipo di romanzo che ci faccia evadere attraverso l’immaginazione o la fantasia; le si ritrova solo, negli ultimi dieci premiati, in Le otto montagne di Paolo Cognetti, dove c’è meno attualità e più racconto di valori universali.
Questo ti dice, grosso modo, qual è la tendenza attuale.
Bisogna sperare, allora, che in questi frangenti si sviluppi qualche mente immaginifica che l’anno prossimo ci fornisca questa apertura.
Di certo spero di non leggere storie di epidemie! Pensa che ci sono due libri fondamentali per me, che mi hanno reso ciò che sono: Palomar di Calvino e La peste di Camus; non ho riletto un solo brano di La peste in questo periodo, è l’ultima cosa che mi verrebbe in mente di leggere.
Allora lasciamoci con un consiglio di lettura.
Te lo do volentieri: Austerlitz di Winfried Georg Sebald. Si tratta di un romanzo conversazione con due personaggi, uno è un alter ego dell’autore e l’altro un professore di architettura inglese che scopre che tutto ciò che sa delle proprie origini è falso. In realtà è nato da genitori boemi ebrei e da bambino, pima delle persecuzioni naziste, era stato messo su un treno e mandato in Inghilterra per salvarsi, mentre i due genitori erano morti in campi di concentramento.
Questa storia viene raccontata attraverso una serie di conversazione che hanno luogo in tutta Europa – Anversa, Parigi, Londra – quindi, intanto, si può recuperare un’idea di quella mobilità che tanto ci manca in questo momento. Ma soprattuto lo sguardo dei due personaggi è come sarebbe lo sguardo dopo un’apocalisse che ci si è lasciati alle spalle ma di cui si percepiscono ancora gli effetti. Lo sguardo di uno che guarda le macerie dopo un’esplosione. Ho la sensazione che dentro quello sguardo c’è parte di come noi guarderemo il mondo quando usciremo fuori dalle nostre case.