ESTER FORMATO | È la saturazione di riflessioni ancorate a una visione precostituita o a un “io penso…” che presumono di decifrare lucidamente quanto sta accadeno hic et nunc, a causare una sensazione di burn out della comunicazione. Perdendo così di consistenza, si ha come l’impressione che l’atto del comunicare diventi fiacco e incapace di trattenere qualsiasi pensiero. Come tornare, allora, a quelle particelle elementari che stanno alla base di tutto? Non elettroni né quark ma parole, atomi del linguaggio umano, colte nella loro multiforme essenza e non incasellate in un profluvio virulento e mediatico che ci impregna giorno dopo giorno.
Ed ecco che ci siamo imbattuti nell’Alfabeto della Pandemia in cui chiunque può restituire un significato alle parole che segnano questo momento che stiamo attraversando. Si tratta di un vocabolario collettivo, aperto a plurime sensibilità e formazioni; un processo partecipativo che ha al centro una costituenda rete di rigeneratori di spazi urbani su base culturale, lo Stato dei Luoghi – di cui si aspettava l’assemblea costitutiva il 29 febbraio a Milano ma che per ovvie ragioni non è avvenuta – e la sensibilità di Ilda Curti, assessore alle Politiche per l’Integrazione, Rigenerazione urbana e Arredo urbano di Torino; in precedenza assistente parlamentare a Bruxelles, tuttora al centro di Reti e Processi partecipati a favore di sviluppo sociale e relazioni. Ne è nato un bellissimo dialogo con lei che è ora su queste pagine.
Quali sono le esigenze che l’hanno portata a costruire un Alfabeto – vale a dire un vocabolario – della Pandemia?
In concreto avevamo bisogno di uno strumento collettivo che ci permettesse di pensare insieme a quanto sta avvenendo. Abbiamo discusso molto su come chiamarlo. Con la parola pandemia non volevamo richiamare la malattia, ma riprendere il significato originario della parola greca che ci permette di riferirci a tutto il popolo, inteso globalmente. Ciò che sta accadendo riguarda ciascuno di noi e impone di domandarci tutti insieme non solo cosa avviene ora, ma specialmente cosa accadrà dopo. Tutti avremo per questo una responsabilità collettiva e individuale.
Quindi “pandemia” in senso di ripristino della collettività?
Sì. C’è da dire che questo progetto non vuole essere prodotto autoriale, ma strumento partecipato con il quale ognuno declina la propria sensibilità attraverso la sua parola. Ci sono arrivati tanti contributi provenienti da mondi diversi. Ci è stata donata la parola cucire ed è stata dotata di un significato commovente. Noi vorremmo un dopo che ricucia le diseguaglianze che sembrano, attualmente, acuirsi; ci è stata donata da Chiara Bersani un’altra parola stupenda fragile; anche Emma Dante, per continuare a citare il mondo del teatro, ha contribuito con quando.
Anche persone comuni possono partecipare?
Assolutamente si, chiunque può donarci una parola. Nel giro di una settimana anche tanti utenti facebook hanno voluto partecipare. Siamo arrivati già a centinaia di lemmi. L’altra domenica, ad esempio, sono stata tutto il pomeriggio in collegamento con il collettivo della CasermArcheologica di Sansepolcro in cui si sta svolgendo un lavoro straordinario. Con gli operatori vi erano circa una quarantina di abitanti del comune e insieme per ore, anche se a distanza, abbiamo parlato delle parole, parole da inserire nell’Alfabeto, ne abbiamo discusso tutti insieme ed è stato emozionante.
Stiamo forse assistendo a una contrazione della parola. Nel nostro vocabolario quotidiano sono tornati i termini patria, famiglia, eroe, ma con l’unico retaggio che sembra abbiano oggi: quello pseudo-fascista. Dunque, sono parole che hanno perso un’originaria accezione virtuosa, legata alla pietas. Che fine faranno? Il loro è un destino politico segnato?
Io spero che il loro destino sia segnato, nella relativa declinazione pseudo-fascista. Ma è difficile invece ripensarle con il loro significato primigenio che ha a che fare con la pietas perché negli ultimi secoli il loro aspetto inclusivo, quindi autenticamente comunitario, è stato eliminato. Ora queste sono parole che escludono e guarda caso nel dibattito corrente la parola pietas non compare, ed era proprio questo il concetto che garantiva loro una bellezza.
Anche il caso di eroe è un esempio calzante: un pezzo che ho letto citava Enea, eroe pius per eccellenza, che porta sulle spalle un anziano, suo padre. Ma è palese che per l’opinione pubblica questo termine sia molto ambiguo…
Sai, secondo me, qui emerge il bisogno di celebrare un momento straordinario e l’auto-narrazione è imprescindibile dalla storia di una comunità, quindi anche l’identificazione dei personaggi eroi. Ma è anche vero che la parola eroe ha a che fare con la bella morte, e quindi con il martirio. Il martirio è a sua volta parte di una retorica letteraria e di una cultura troppo distanti da noi e che non hanno nulla a che vedere con il lavoro dei medici e degli altri operatori sanitari che svolgono la loro professione e che vorrebbero semplicemente adempierla in sicurezza.
Ho letto tanti articoli, visto tanti tg in queste lunghe settimane e ho l’impressione che la lingua sia stanca. Svuotata. Per il troppo afflusso mediatico, per la riduzione a slogan, ad hashtag di parole importanti. Per una democratizzazione e semplificazione della comunicazione a tutti i costi. Appaiono davvero così vuote queste nostre parole?
Le parole sono stanche e offese. Proprio le parole politica, democrazia e comunità mi mandano ai matti, perché non significano più nulla. Comunità, ad esempio: quale o quali comunità? Se la declini al singolare definisci che c’è un dentro e che c’è un fuori, ma se lo fai al plurale ne lasci intendere la porosità, la possibilità che diverse comunità abitino lo stesso spazio o che gli individui possano appartenere a differenti comunità. Quindi se ne capovolge la prospettiva completamente.
Pensiamo anche alla Comunità Europea; personalmente, lavorando anche a Bruxelles, mi sento fortemente europea, prima che italiana. Ma il problema è che proprio per un cambio di prospettiva simie a quello enunciata poc’anzi, dell’identità idealmente comunitaria (com’era secondo chi la creò) rischieremo di vedere le macerie, se uno scatto istituzionale non interviene sull’egoismo degli Stati.
La polisemia delle parole è alla base della nostra complessità spirituale, umana e mentale ed è la loro forza intrinseca. È forse recuperando questa pluralità, che si potrà rinvigorirle di nuovi slanci? Questo è il senso del vostro Alfabeto della Pandemia?
Se vuoi l’Alfabeto sta riuscendo a far emergere proprio questo, tant’è che all’interno le parole possono ripetersi. È accaduta una cosa bellissima con la parola assenza: in cinque l’hanno compilata, ognuno con sfumature diverse e con una propria autenticità.
Ognuno di noi ha la responsabilità di qualcosa, o semplicemente di prendere coscienza su quanto accade. Sicuramente l’Alfabeto pandemico ci aiuta in questo e soprattutto mette insieme più voci, unisce anche a distanza e solleva un’ulteriore esigenza: chiedere a intellettuali organici e coinvolti di ridisegnare un mondo. Pertanto, nel nostro piccolo, ci stiamo ritrovando tutti insieme attorno alle parole e questo ci fa sentire meno soli.