FRANCESCA GIULIANI | Come coltivare questo tempo provando a immaginare e programmare il dopo? Come l’arte dello spettacolo dal vivo in tutte le sue forme dovrà ripensare il suo dispositivo alla luce di questa frattura che cambierà – e probabilmente lo sta già facendo – quella che è la relazione distintiva del dispositivo teatrale stesso, la copresenza, per dirla alla Grotowski, di almeno uno e un solo attore e uno e un solo spettatore? Quando il desiderio naturale dei corpi di collocarsi in mezzo ad altri corpi, facendo si che l’individualità di quei singoli e singolari Io che oggi cantano da un balcone per riconnettersi a un Noi, si emanciperà dalla paura dell’altro? Lo stare con, l’essere davanti a, l’attraversare uno spazio e l’abitarlo dopo questo vuoto e quest’assenza perdurante di presenza: sono queste alcune delle azioni che probabilmente, almeno per un po’ di tempo, dovranno essere ripensate da ognuno di noi e soprattutto da chi lavora e progetta azioni di comunità in quegli stessi spazi urbani che oggi sono privi di performance umane. In questo senso ho chiesto a Michele Pagliaroni, attore, drammaturgo, regista e direttore artistico del Centro teatrale Universitario Cesare Questa, nonché direttore del giovanissimo festival estivo urbinate UTU Urbino Teatro Urbano come il CTU, come vive questo momento di stasi e di rimessa in discussione, progettando un festival che dell’urbano, dell’insediarsi nella città per re-inventarla, ha fatto la sua sorgente di innesco.
Partiamo dall’inizio, Michele. Ci racconti come è nato e si è sviluppato il CTU Cesare Questa, che oggi rappresenta un centro importante per la città di Urbino, per i suoi studenti, abitanti e non solo?
Il Centro Teatrale Universitario è il frutto di un percorso nato dal basso che ha raccolto e potenziato l’esperienza di La Resistenza della Poesia, una libera associazione fondata nel 2010 da alcuni studenti dell’Università di Urbino. Attraverso la poesia e il teatro, La Resistenza è riuscita negli anni a raccogliere intorno a sé non solo studenti dell’Ateneo ma anche ex-studenti, docenti, poeti e professionisti del teatro, sempre in un’ottica di restituzione alla città, soprattutto attraverso pubblicazioni, spettacoli e reading. Nel luglio del 2016 il Magnifico Rettore Vilberto Stocchi ha accolto la nostra proposta di creazione di un Centro Teatrale Universitario che abbiamo voluto intitolare alla memoria del Prof. Cesare Questa, uno dei massimi studiosi del teatro plautino e per decenni docente all’Università di Urbino. La formazione ha un ruolo fondamentale nella poetica del CTU e i nostri laboratori annuali coinvolgono regolarmente circa trecento giovani (e giovanissimi) del nostro territorio. Dal 2018 dedichiamo l’estate al festival UTU Urbino Teatro Urbano, un momento fondamentale di restituzione del nostro lavoro oltre che un’occasione preziosa di scambio con importanti esperienze nazionali. Nel nostro orizzonte imminente c’è anche lo sviluppo dell’attività di produzione e stiamo ideando un sistema di residenze destinato a giovani compagnie e autori. Quello del CTU Cesare Questa è un progetto ampio e articolato che può essere sostenuto solamente grazie alle energie e alle idee degli studenti che lo frequentano stabilmente.
Che cosa ha comportato per il CTU questo tempo di quarantena e come affrontante questo momento di reclusione e attesa?
Questo tempo ci ha sorpresi all’inizio di una piccola tournée tra le Marche e Milano che, giustamente, è stata annullata. Abbiamo anche rimandato la residenza di allestimento di un nuovo spettacolo che si sarebbe dovuta concludere proprio in questi giorni. Oltre a questo, tutti i nostri laboratori hanno subito un arresto improvviso. Raccogliendo l’invito della nostra Università (una delle prime in Italia, all’inizio dell’emergenza, a mettere a disposizione degli studenti un eccellente sistema di didattica online) stiamo riuscendo a portare avanti alcuni percorsi in remoto, tra cui quello di traduzione e drammaturgia su Le rane di Aristofane, guidato da Monica Bravi e Aureliano Delisi, un gruppo di lavoro che sta producendo risultati molto promettenti. Questa è stata la reazione del nostro teatro a questo tempo.
UTU è nato da pochi anni, quest’anno sarà la terza edizione, ma già rappresenta una di quelle poche attività che animano la città di Urbino durante l’estate, un luogo nel quale circolano idee e visioni. La riutilizzazione dello spazio urbano mi sembra al centro di questo festival già nel nome: in che modo pensate al festival nella città?
Urbino Teatro Urbano e, più in generale, la forma del festival, ci sono sembrati gli strumenti più adatti a nostra disposizione per indagare il rapporto tra la città e la sua rappresentazione, perché permettono di analizzare lo spazio come categoria e modalità del fare esperienza e non semplicemente come «sfondo alle attività umane» (Simmel, 1908). Lo spazio urbano della città di Urbino è il campo di reazione di fenomeni sociali unici, non replicabili altrove, in cui si può osservare un dialogo perpetuo tra un centro storico (patrimonio dell’umanità UNESCO dal 1998), un centro dinamico costituito dall’antichissima Università degli Studi, e quello che io definisco il suo centro atomico cioè la comunità degli studenti, alla costante ricerca di nuove pratiche di convivenza. UTU vuole dare forma a queste tensioni, verso soluzioni condivise di riappropriazione degli spazi urbani e della loro reimmissione nel ciclo di vita della città. Solo per fare un esempio, nella scorsa edizione del festival siamo riusciti a riaprire al pubblico il meraviglioso Palazzo Gherardi, un edificio del XVI secolo, sede del vecchio tribunale della città, chiuso da decenni. Qui il pubblico ha potuto assistere all’Ifigenia in Cardiff di Gary Owen, nella regia di Valter Malosti e interpretata da Roberta Caronia. Sono stati gli studenti a ripensare, allestire (e ripulire) il luogo, al solo scopo di restituirlo alla città per una sera.
E oggi come state immaginando UTU2020 che quest’anno presenta anche delle importanti novità come il bando Fai il tuo teatro?
Stiamo continuando a progettare il festival ben coscienti che saremo costretti a rivedere le nostre scelte, forse a cambiare direzione. E dobbiamo ripensarlo da lontano, costruendolo sul ricordo che abbiamo della città, senza sapere cosa troveremo al nostro ritorno. A febbraio abbiamo pubblicato il bando Fai il tuo teatro!, un’opportunità importante che, a soli due mesi di distanza, assume un significato completamente nuovo proprio perché è una guida per la ricostruzione. È infatti una chiamata rivolta a compagnie e collettivi che abbiano in progetto di costruire un teatro sul proprio territorio, là dove un teatro manca, non funziona o ha perduto il suo valore di luogo civile. Il bando (nato da un’intuizione di Marina Saraceno) si rivolge anche a coloro che vogliono organizzare festival o feste tradizionali, magari sospese o annullate negli ultimi anni, oppure da recuperare nella memoria di una comunità. I gruppi selezionati potranno partecipare a un percorso di formazione gratuito tenuto da maestri della progettazione (Mimma Gallina, Giorgio Testa, Debora Pietrobono, Gianluca Balestra) e della tecnica (scenotecnica, illuminotecnica e grafica) oltre a una classe di letteratura e critica teatrale tenuta da Franco Cordelli. La scadenza per l’invio delle candidature è stata rimandata al 26 aprile ma già sono tantissime le adesioni da tutta Italia. Il periodo del festival, per ora, rimane fissato dal 27 giugno al 5 luglio.
In che modo questo stato di emergenza si riflette e si ripercuoterà sul futuro del festival?
Il primo effetto c’è già stato, immediato: quello di rendere tutti i festival ancora più necessari; non mi riferisco solamente a UTU, ma penso anche agli altri eventi che animano la nostra città e non solo. I festival sono luoghi di condivisione, di formazione del cittadino e terreno fertile di pratiche di riappropriazione degli spazi. Sono luoghi indispensabili di ascolto del sé e dell’altro da sé. Temo che il primo grande ostacolo che si troveranno ad affrontare gli organizzatori sarà un’ulteriore burocratizzazione di ogni aspetto della relazione con gli enti, soprattutto quelli pubblici e (temo) anche nel rapporto con il pubblico. Si dovrà fare i conti con nuovi criteri di sicurezza e con un’aporia insuperabile tra la difesa della salute e la “nostalgia di com’era prima”. I festival devono essere pronti a cambiare forma, ma oggi gli organizzatori hanno il dovere di proteggere gli artisti prima di proteggere il loro pubblico.
Come ti immagini il futuro passata questa “crisi”?
Devo confessare sinceramente che in questi giorni cerco di non immaginarmelo il futuro, ma spero di farmi trovare pronto. Solo questo posso dirti: “ciò che non siamo, ciò che non vogliamo”. Risentiamoci tra un anno, e ti dirò com’è stato:)