ANDREA ZANGARI | Non c’è miglior modo di presentare Renato Rizzi ai nostri lettori che fare cenno al teatro Shakespeariano di Danzica. Una solenne mole costolonata di mattoni scuri che, sul limitare del centro storico, fa eco al gotico locale, ma anche alle forme processionali di antiche architetture sacre: sale ipostile e cortili egizi, ziqurat mesopotamiche o piramidi precolombiane. Un teatro che è anche una cattedrale, un luogo sacro, un gesto di apertura al cielo dischiuso dalle falde alzate di quel tetto apribile come ali spiegate. Così la sala teatrale riconfigura la cavea elisabettiana. Il disegno dello spazio è un paradossale compaginare le due prospettive sceniche: quella, appunto, del teatro shakespeariano (ma anche romano) e quella della sala all’italiana, con il punto di fuga all’infinito. Storia dello spazio, ma anche metafisica dello spazio teatrale, che sospende lo sguardo dello spettatore fra scena e cielo. Una tensione poetica fra orizzonte dell’immanenza e della trascendenza che attraversa tutto il lavoro di ricerca – fra didattica e progettazione – di Renato Rizzi. Che ha lavorato a lungo con Peter Eisenmann, pietra miliare dell’architettura degli ultimi cinquant’anni, e che da tempo insegna progettazione architettonica presso lo IUAV di Venezia.
Rizzi ci ricorda che la professione e la vocazione dell’architettura non sono certo solo di matrice tecnica, ma indicano la forma stessa del pensiero dell’Occidente. Un architetto che dunque potrà sembrarvi un po’ filosofo, e le cui parole forse vi riporteranno, a ragione, ai temi cari all’indimenticabile Emanuele Severino.
Partiamo da Lei e dal sul lavoro: come sta? Prosegue l’attività didattica online? È possibile insegnare architettura così, a distanza?
Fisicamente sto bene. Certo, molte cose sono cambiate. In superficie però, non in profondità. Il cambiamento maggiore, dal punto di vista pratico, riguarda l’università. I laboratori di progettazione al terzo anno allo IUAV sono divisi in due semestri. Nel mio caso il primo semestre è dedicato all’impostazione generale del progetto, ovvero alla preparazione dei materiali grafici e alle lezioni teoriche. Il secondo semestre è dedicato invece allo sviluppo e alla costruzione del modelli (in gesso). Dovrei aprire ora una parentesi troppo lunga per spiegare e introdurre il modello didattico che applico a scuola. Accenno solo al punto di partenza: Architettura. Tutto dipende e discende dalla sua struttura semantica. Arché+téchne. La prima radice fa riferimento all’ambito degli indominabili, la seconda ai dominabili. Noi apparteniamo a una disciplina che, almeno per metà, non è dominabile dalla nostra volontà. Basta questa prima distinzione per aprire una voragine nella cultura e nella mentalità del nostro tempo. Infatti, noi siamo in un’epoca dominata dai saperi tecnico-scientifici, nella quale sono stati banditi i saperi indominabili.
Anche se “tutto” il nostro sapere dipende e deriva da un indominabile: dall’apparire del mondo. Questo è e rimane il grande problema, l’enigma della forma.
Detto questo, ritorno ai semestri, per aggiungere che la seconda parte del laboratorio è dedicata al lavoro pratico-manuale. Cosa che non si può fare in streaming. Per il mio laboratorio questo è un vero dramma. Consideri che abbiamo già acquistato più di 2 mc di materiali, che sono per ora in un magazzino, ma inutilizzabili. Il digitale non può sostituirsi completamente al manuale. Ma questa è la più pre-potente superstizione del nostro tempo.
Più tempo per pensare, per progettare dunque.
Sono una persona solitaria. Ho bisogno vitale di silenzio, fondamentale per la concentrazione. Credo sia uno tra i valori più alti della civiltà. Senza contemplazione non si fa produzione.
Nel silenzio è più facile misurare il tempo, leggerne la direzione, le dilatazioni, il senso. Per alcuni c’è da leggerci una lezione, alcuni lo pensano solo come una fase da attraversare il prima possibile…
Per la questione del tempo dobbiamo ritornare al binomio iniziale. Viviamo nella cronologia dei calendari, ma la nostra vita è altro. Piuttosto è la somma totale dei tempi.
Arché–aion/téchne–chronos. E nel mezzo a questa doppia copia, il nostro kairos: il tempo opportuno. L’attimo della nostra vita che congiunge la totalità dei tempi e il divenire.
Dunque, l’evento inatteso (dominabile o indominabile?) che stiamo vivendo, dovrebbe farci capire, di nuovo, che non siamo i dominatori del tempo. Il tempo non è una misura che possiamo gestire a nostro piacimento. Noi siamo l’assoluto del tempo. Per questa ragione i nostri estremi massimi sono inizio e fine. Per questa ragione dobbiamo sempre ripartire dall’inizio se vogliamo comprendere qualcosa dell’attualità del presente nel quale si disvela il futuro che conserviamo, sebbene ancora non lo conosciamo.
Siamo molto lontani dall’azzeramento e dello snervamento del tempo nell’epoca digitale.
La tecnica. È come se fossimo tutti, come individui, come comunità, specie, in attesa di essere salvati dalla scienza e dalla tecnologia: la tecnica espanderà il proprio orizzonte di dominio sulle nostre vite?
Ma questa è pura fede, superstizione. Come mai non comprendiamo che stiamo correndo sempre di più verso la nostra disumanizzazione? Ci rendiamo conto che questa pandemia è la dimostrazione lampante della hybris, la tracotanza del nostro sistema tecnico-scientifico-economico? Ci rendiamo conto che, in generale, siamo sotto questo tipo di cultura dalle elementari fino all’università?Istruire non è educare (bildung, dal quale deriva l’inglese to build, building, ovvero, portare le immagini –bild– che sono dentro di te, ad emergere come il tuo edificio interiore). Educare vorrebbe dire: accedere all’ambito degli indominabile che non conosciamo ma che dobbiamo risvegliare. Il lavoro del poeta. Ma non saremmo tutti in potenza dei poeti se poesia vuol dire produrre al più alto livello dei valori, degli ideali? Dove le potenze, le forze giungono al vertice più solenne: la grazia. Il più alto valore estetico.
Ciò che dovremmo produrre, progettare ora è un adattamento. Certo questo è anche compito dell’architettura: riconfigurare lo spazio per l’emergenza e per il futuro. Quali saranno le forme per questa architettura? Quelle spesso fluide e arbitrarie di tanta architettura contemporanea?
La domanda contiene due temi: il soggetto e il limite.
Torniamo nuovamente al binomio arché–téchne. Nel nostro tempo l’individualità del soggetto è centrata solo nell’ambito delle tecniche: quello è il campo dell’arbitrarietà. Ma se ci spostiamo sul polo dell’arché, siamo nel campo della singolarità. La differenza è enorme, poiché la singolarità si sviluppa nel rapporto con gli indominabili. Il punto di vista tra l’uno e l’altro è completamente diverso. L’arbitrarietà è nominativa: io decido, io comando, io…io…. La singolarità è dativa: mi devo impegnare in modo tale che le cose vengano a me. Verso di me. L’arbitrarietà, cioè la tecnica, procede avanzando (come un esercito). La singolarità, invece, avanza retrocedendo, per fare spazio all’emergere del mondo. Per avere la più ampia prospettiva sulle cose.
L’arbitrarietà è acritica, senza responsabilità, sociale. La singolarità è sempre critica, sempre nel rischio, e sarai sempre solo. Ti richiederà il tuo dispendio totale. Chi sceglierà la seconda rispetto alla prima? Anche se per destino appartiamo alla singolarità!
Il secondo tema, riguarda il limite. La fluidità delle forme porta in sè il concetto di uno spazio infinito, omogeneo e continuo. Questa la tracotanza della potenza tecnica. Ovvero dell’il-limitato. Mentre il mondo è limitato e finito. Come noi siamo limitati dal nostro corpo. La téchne è l’assoluto dell’il-limite. Arché, l’assoluto del limite. E non è un paradosso. L’il-limite è il mostruoso dell’in-forme. Il limite è l’indominabile della forma. L’uomo senza forma non vive. Il nostro virus non è forse l’evento più eclatante dell’informe illimitato? Non è forse l’effetto tragico della globalizzazione? Siamo consapevoli?
Parlando di limite, oggi in molti viviamo limitati da queste mura intorno a noi. In qualche modo l’architettura ci è prigione ora. Se potesse scegliere di visitare un luogo, paesaggio o monumento lontano o vicino, quale sarebbe?
Ci sono molti tipi di viaggi. Ma di certo il viaggio più importante è quello che ci possono offrire la grande cultura, la grande arte, la grande poesia. Solo in quel modo potremmo viaggiare nuovamente. Di nuovo: senza contemplazione non si produce, senza contemplazione si ditrugge. Il turismo moderno ha distrutto e inquinato mezzo mondo. Consumare è l’opposto di contemplare. La contemplazione è al culmine di un enorme e faticoso lavoro di educazione. Concludo con questo aforisma di Kafka, scritto a Zürau:
«Non è necessario che tu esca, rimani al tuo tavolo e ascolta… Non ascoltare neppure, aspetta. Non aspettare nemmeno, rimani in silenzio e solitudine. Il mondo ti si offrirà per essere smascherato, non né può fare a meno, estasiato si torcerà davanti a te».