LAURA CARUSO* | In questi giorni siamo tutti molto concentrati sulla App Immuni, che ci ha già idealmente traghettati in quella che viene definita fase 2; ne discutiamo limiti, rischi, ci dividiamo tra l’appoggio incondizionato, l’avvicinamento cauto e l’ostilità più decisa.
Questo interesse rispetto alla prossima fase ha certamente un legame con gli indiscutibili danni che il prolungato lockdown sta producendo con una certa “iniqua equità”: i più fortunati sono estenuati da un modello di vita che nessuno dei viventi è in grado di ricordare in età adulta e i meno fortunati vi aggiungono l’angoscia di lavori perduti, debiti che non si possono ripagare, tavole sulle quali non ci sono piatti da riempire.
Ma c’è anche una piega sull’informazione in generale che è cambiata e in qualche misura ci rende un po’ tutti più preparati a una fase di “sblocco”: se fino a qualche settimana fa i media si concentravano sui numeri crescenti e disperanti, con il corredo di immagini inquietanti e di spot interpretati da persone famose che ci raccomandavano di restare a casa, da una decina di giorni la musica è cambiata e il ritornello che sentiamo sempre più spesso ci racconta che i numeri stanno migliorando.

Credo che avvicinarsi con attenzione alle informazioni quantitative possa aiutarci a comprendere meglio che cosa sta succedendo e a indirizzare i nostri comportamenti individuali. C’è molta attenzione – non voglio sminuirla – sui comportamenti collettivi e sulle scelte politiche di questo periodo, ma penso che la somma di comportamenti individuali informati e consapevoli non sia affatto da sottovalutare.

Sin dal principio di questa emergenza, diciamo dall’ultima settimana di febbraio, ho pensato di concentrarmi su questi numeri e mi sono resa conto che manca, nei professionisti dell’informazione, una cultura matematico-statistica di base. Non credo che ci sia quella malafede che molti ipotizzano, credo piuttosto che la disciplina della matematica sia snobbata: si pensa di poterne fare a meno.
Così sì è incominciato a dire che la situazione stava migliorando senza tener conto di quello che riguarda qualsiasi funzione, ignorando che cosa sia un punto di flesso, un punto di massimo, una distribuzione di frequenze.
Da molto tempo prima che si raggiungesse l’ormai famoso picco, si dava per scontata una discesa che non c’era affatto.

«Stanno scendendo i contagi», «Contagi in riduzione», «Curva del contagio in riduzione», erano i titoli dei giornali.
I contagi in realtà stavano ancora crescendo. La curva dei contagi aveva raggiunto un flesso, il punto in cui, cioè, la curva da convessa diventava concava, ma stava ancora crescendo. Stava diminuendo sino a zero, ma non era ancora a zero la sua velocità di crescita. Crescere molto lentamente non significa decrescere. Salire meno ripidamente non significa scendere: se percorro in salita una scala e gli scalini sono via via sempre più bassi, da 25 centimetri a 20, poi 10, poi 5, non basta che i gradini che sto salendo siano più bassi perché io possa dire che sto scendendo.
La maggior parte dell’informazione ha tuttavia commesso questo errore piuttosto grossolano.

Se noi diciamo che i numeri stanno migliorando, dovremmo in qualche modo dimostrarlo. Allora proviamo a rivedere i dati ufficiali, e confrontiamo quello che ci dicevano un mese fa rispetto a quanto ci mostrano il 21 aprile.
Il 21 marzo gli attualmente positivi (cioè il totale delle persone contagiate al netto dei guariti e dei deceduti) erano pari a 42.681 unità, al 21 aprile lo stesso dato è pari a 107.709.

Nella settimana precedente il 21 marzo i decessi registrati erano 3.384, nella settimana precedente il 21 aprile sono 3.581. Com’è, quindi, che lo scenario disastroso del 21 marzo si è trasformato in un uno scenario più roseo al 21 aprile?

Certo, le cose stanno migliorando. Il numero degli attualmente positivi è sceso, negli ultimi giorni. Dello 0,02% il 20 aprile e dello 0,49% il 21 aprile. Scenderà ancora. Dobbiamo capire con quale velocità.
Inoltre, questi numeri che da tempo vengono pubblicati alle ore 18 di ogni giorno, sono decisamente poco credibili.
Se dovessimo credere a questi dati, dovremmo concludere che la letalità di questo virus supera il 13%. Questo non è ragionevole, e se noi teniamo conto delle stime di letalità che provengono da soggetti qualificati o anche semplicemente da esperienze più accurate, possiamo leggere tassi di letalità che vanno dall’1,14% (ISPI) a circa il 2% dell’esperienza Sud Coreana.
Quindi ci sono una buona notizia – la letalità non è di oltre il 13% ma decisamente più bassa – e una cattiva notizia – le persone contagiate non sono 180 mila, ma oltre 5 milioni, perché se applichiamo il tasso di letalità a ritroso per individuare i contagiati, se stimiamo i decessi che non sono stati rilevati e applichiamo i fattori di moltiplicazione ai decessi attuali, che si riferiscono a contagi di almeno due settimane fa, per arrivare al dato odierno, quel numero troviamo.
Non entro nei dettagli del modello che ho utilizzato, capisco perfettamente che si potrebbe obiettare che sono dati sparati per aria da una massaia, ma alle stesse conclusioni giunge una ricerca dell’Università degli Studi di Milano (5 milioni), un paper dell’Imperial College di Londra (6 milioni) e Silvio Brusaferro, Presidente dell’Istituto Superiore di Sanità ci ha detto che il 90% degli italiani non è venuto a contatto col virus (e visto che siamo 60 milioni, il 10% è venuto a contatto col virus e fanno 6 milioni).
Per quel che può valere, questo non è il numero degli ancora positivi ad oggi, moltissime persone sono guarite e noi non lo sappiamo, perché la gestione di questa emergenza si è basata molto spesso, in assenza di sintomi gravi, sulla cura a casa dei malati. Mi spingerei a dire che, oggi, gli ancora positivi”siano intorno ai tre milioni.

Tutto questo andrebbe tenuto in considerazione per il nostro prossimo futuro: non sto dicendo che non si debbano programmare le azioni che riportano i cittadini a una vita meno costretta e l’economia a una ripresa che sarà faticosissima: sto dicendo che dovremmo farlo sulla base delle informazioni che non sono, purtroppo, quelle ufficiali.

In questo quadro stiamo sempre più ascoltando ipotesi di allentamento delle misure di lockdown che si basano su fasce di popolazione.
Anche qui io credo sia importante far riferimento alle rilevazioni di cui disponiamo.
Per quanto i dati ufficiali possano traballare, ce n’è uno che in qualche misura dà indicazioni significative: si tratta dei decessi. Per questi, Epicentro, il portale epidemiologico dell’ISS, propone di continuo un aggiornamento interessante su sesso, età, patologie associate, tempi da sintomi a ospedalizzazione e da ospedalizzazione a decesso.
Si tratta di un’analisi su oltre 21.500 decessi, aggiornata al 20 aprile, che ci racconta un sacco di cose e ci può aiutare a sfatare alcuni miti.

Il primo mito riguarda le persone anziane. E se noi guardiamo il report ISS in effetti ci accorgiamo che le persone over 70 rappresentano l’84% dei decessi.
Ma i criteri non possono basarsi solo sull’età: è facile, attraverso la lettura di questi dati, ipotizzare che il rischio di una donna di 75 anni in buona salute sia inferiore a quello di un uomo di 55 anni iperteso, diabetico e obeso.
Un criterio basato su dimensioni uniche, come l’età, sarebbe certamente non solo penalizzante per alcuni, ma anche rischioso per altri.

Un’altra informazione che a me pare non sia stata del tutto compresa riguarda il sesso.

Il Messaggero: “Coronavirus, perché colpisce più gli uomini che le donne? Lo studio sugli ormoni”
Il Fatto Quotidiano: “Coronavirus, il rapporto dell’Iss: uomini colpiti più delle donne”
Repubblica: “Coronavirus, due vittime su tre sono uomini”

Che cosa vogliono comunicarci?

È certamente vero, scorrendo il report ISS, che nei decessi vi sia una preponderanza dei maschi rispetto alle femmine (13.844 contro 7.706, cioè, rispettivamente, maschi 64,2% e femmine 35,8%).
Sulla base di questa sommaria informazione, si potrebbe credere che programmare una ripresa tenendo conto di questa differenza sia molto utile. Potremmo dire: incentiviamo la ripresa delle donne e invitiamo a maggior protezione gli uomini.
Io ho sentito dire che le donne si ammalano di meno, di SARS-CoV-2, e immagino sia capitato di sentirlo anche voi, ma le cose stanno davvero così?
No, non stanno così. E se noi guardiamo l’infografica di Epicentro-ISS, ci accorgiamo che i contagi (non i decessi: i contagi) sono ripartiti così:

Circa 51% sono femmine, circa 49% Maschi. Questo su circa 180 mila casi. Certo, non sono i 5 milioni che io ho in mente, ma è pur sempre un buon campione.
Per combinazione (ma non è una combinazione) nel nostro paese la popolazione è così divisa tra maschi e femmine: i maschi sono circa il 49% (e sono circa il 49% dei contagiati), le femmine sono circa il 51% (e sono circa il 51% dei contagiati).
Possiamo quindi concludere che le femmine si ammalano tanto quanto i maschi, ma ciò che è diversa è la prognosi dei maschi. Una volta ammalati, i maschi, vanno incontro ad una prognosi più severa, rischiano, insomma, di morire con una maggiore probabilità.
Tutto questo ci induce a riprendere una considerazione che abbiamo fatto poco fa: incentiviamo la ripresa delle donne e invitiamo a maggior protezione gli uomini.
Ma a che cosa servirebbe, se maschi e femmine hanno la stessa probabilità di contagio? Beh, potremmo dire: a lasciar tornare a casa le mogli in modo da contagiare i mariti, che avranno una prognosi peggiore.
Diverso sarebbe se le donne avessero una maggior difesa dal contagio, ma le evidenze ci dicono che non è così.

Tutte queste informazioni da cui siamo inondati, insomma, non possono, da sole, costituire la base per scelte ragionate e ragionevoli.
I paradossi sono spesso solo apparenti, e la cura nel selezionare le fonti di informazioni insieme all’abilità di mettere in relazione set di dati differenti, ci aiuta – e molto – a entrare nel cuore delle cose.
Se noi prendiamo un’informazione alla volta, rischiamo davvero di andare fuori strada.

Un altro esempio viene da una notizia che suonava così: “nell’RSA si sono registrati molti più decessi di donne, quindi non è vero che la letalità maschile sia superiore”.
Chi sta nelle RSA? Le persone molto anziane.
È vero: i decessi delle le donne, nella fascia over 90, sono decisamente più di quelli degli uomini.

Questo sembra contraddire tutto quello che abbiamo osservato sopra, no? Allora muoiono più donne? In realtà no.
Questi dati, senza altri che li accompagnano, non ci dicono niente. Anzi: sembrano dirci il contrario di ciò che dovrebbero.
Dovremmo farci una domanda, dopo averli guardati: ma quanti sono gli uomini e le donne over 90? Beh, secondo i dati ISTAT in questa fascia ci sono circa 209 mila uomini e circa 565 mila donne.
È inutile, quindi, osservare che tra i decessi over 90 i maschi sono il 38,5% mentre le femmine sono il 61,5%, contrariamente alla tendenza complessiva che vede i decessi maschili decisamente più alti.
È inutile perché le donne sono molte di più, in quella fascia. Sono il 73%. Succede perché le donne sono più longeve.
Ma quella grande maggioranza del 73% di donne registra solo il 61,5% dei decessi, mentre la minoranza del 27% di uomini ne registra il 38,5%.
Va peggio agli uomini anche in questa fascia, quindi.

L’unica reale difesa da un’interpretazione fuorviante dei numeri è l’assenza di pregiudizio. Se io uso i dati per sostenere una tesi, svolgo un esercizio che nel mio ambiente professionale si sintetizza con la battuta: traccia la curva che ti piace e trova i punti che le corrispondono.
Così il sostenitore a oltranza del lockdown mostrerà i dati della mortalità di Bergamo nel mese di marzo 2020 e dirà che sono il 400% in più rispetto alla media degli anni precedenti, e al tempo stesso chi ha in mente che la ripresa debba essere celere mostrerà dati che dimostrano il contrario.
È possibile fare questa cosa? Sì, è possibile anche partendo dalla stessa base dati.

L’Istat ha messo on line i grafici interattivi dei decessi per comune. Ha scelto di concentrare l’attenzione sui comuni presenti nell’Anagrafe Nazionale della Popolazione Residente che hanno fatto registrare un aumento dei morti pari o superiore al 20 percento nel periodo 1 marzo-4 aprile 2020 rispetto al dato medio dello stesso periodo degli anni 2015-2019. L’intento è proprio quello di fornire informazioni su questa emergenza.
Bene, se sostengo a oltranza il lockdown mostro questo grafico:

Se invece penso che sia indifferibile una ripresa mostro questo:

I dati sono i medesimi, ma nel primo caso ho selezionato il confronto con il 2016, un anno con un numero di decessi complessivi un po’ inferiore alla media degli ultimi anni, e ho selezionato solo marzo e aprile, i mesi in cui più si vedono gli effetti della SARS-CoV-2.
Nel secondo caso, invece, ho preso a riferimento il 2015, gravato da un eccesso di mortalità dovuto a una influenza stagionale particolarmente aggressiva, e ho considerato anche i mesi di gennaio e febbraio.
Stessa base dati, ma differente selezione sulla base del grafico che voglio mostrare. Guardando la prima curva sembra che il coronavirus sia terribile, guardando la seconda sembra invece pressoché trascurabile, anzi: nel 2020 i decessi sono inferiori per una buona parte della curva.
E se seleziono un altro comune, quello più colpito, ottengo un grafico di sicuro effetto:

Ma non è questa la finalità dell’osservazione di qualsiasi dato quantitativo: non è dimostrare la nostra tesi.

I numeri non dovrebbero mai servire a sostenere una nostra idea, ma a farcela.

*Laura Caruso è titolare a Milano di uno studio che si occupa di assistere banche e istituti di ricerca per l’applicazione degli standards internazionali e la valutazione degli strumenti finanziari.
Si occupa anche di altre cose molto diverse: è facilitatrice dei gruppi di auto mutuo aiuto dell’Associazione per la Cultura e l’Etica Transgenere e fa parte del Gruppo di Ricerca Interuniversitario NuSA – “Nuove Soggettività Adulte” presso il Dipartimento di Scienze Umane per la Formazione dell’Università degli Studi di Milano-Bicocca.

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