MARIA FRANCESCA GERMANO | Una volta uno “svuotacantine” mi chiese se avessi intenzione di vendergli i miei libri; me li avrebbe pagati un tot al chilo, mi disse. I miei libri! UN TOT AL CHILO?! Lì per lì pensai potessero servire a rifornire bancarelle di libri usati alle feste patronali. E invece no: «C’è molta richiesta di libri, di qualsiasi tipo, per addobbare librerie vuote e far bella figura in casa. E li vendiamo al chilo». Una specie di carta da parati insomma.
E in questi giorni di dirette Facebook, interviste e strisce quotidiane, dichiarazioni di politici e scienziati, puzzle di videate di riunioni Skype e assemblee di ogni tipo, lo sfondo libreria va alla grande. Siamo un popolo di grandi lettori in definitiva.
Ma c’è chi, dall’inizio di questa quarantena, pubblica su Facebook, ogni giorno, esilaranti micro video, usando come sfondo un frigorifero aperto. Michele Sinisi, eclettico attore-regista teatrale, aiutato dai suoi tre figli – Maddalena in regia e Antonio e Luigia come attori – all’ora di pranzo inoltrata, quotidianamente, pubblica in rete il suo Decreto Quotidiano, in cui tra il serio e il faceto filosofeggia su questo tempo in geniali pillole di sessanta secondi ciascuna.
Com’è nata l’idea del tuo Decreto Quotidiano?
L’idea è nata nei primi giorni di quarantena quando il Presidente Conte emanava il primo decreto a cui ne seguivano altri a cadenza quasi quotidiana. Lì ho pensato di poter individuare un contesto formale in cui rispecchiare questa ritualità casalinga di attesa del nuovo decreto.
Invece della classica libreria come sfondo usi l’intimità di un frigorifero aperto, stuzzicando anche un po’ il lato voyeuristico di chi guarda. Cosa vuole dirci il tuo frigo?
Si fa, appunto, il verso alla libreria che sempre fa da sfondo agli esperti in collegamento con le varie trasmissioni di approfondimento economico-politico e che ora accolgono anche le nuove “star”: i virologi. Il cibo presente nel frigo aperto invece rimanda alla scorta alimentare che in modo ansiogeno ha catturato le nostre vite nei primi giorni di quarantena. Una nuova esposizione del sapere, come se tutto il senso delle nostre esistenze in questi giorni si condensasse nello spazio dei nostri stomaci. Le nostre priorità erano diventate la speranza e l’angoscia del domani culinario.
I tuoi figli sono meravigliosi, come hai fatto a coinvolgerli? Danno il loro contributo in termini di idee?
Il coinvolgimento ha fatto leva sulla possibilità ludica di questa esperienza. Nell’ipotesi di condividere l’esperienza giocosa nel tempo assieme, hanno iniziato a intervenire sulla questione dell’inquadratura e sulle parole giuste da condensare in quei sessanta secondi di filmato. Così, coinvolgendoli, mi è sembrato di conciliare l’utile e il dilettevole in questo primo mese di reclusione.
Immagino che questo appuntamento quotidiano ormai scandisca il tuo tempo. Ti sta aiutando ad affrontare la chiusura dei teatri? Hai paura? Pensi che possa essere una prova generale per iniziare a pensare anche a un altro modo di fare l’attore?
Ho sempre pensato e desiderato la mia funzione narrativa nel fare teatro. Il mio ruolo è quello di raccontare storie. Per il momento che viviamo, viste le costrizioni, ho tradotto le modalità del teatro attraverso il mezzo che, in questo momento, mi connette in modo esclusivo alla platea: la rete. Diversamente non si potrebbe fare. Il termine di questo stop non è chiaro. Al momento l’ipotesi di riapertura è fissata per dicembre inoltrato, dipenderà dall’evoluzione della situazione. La paura per certi versi è una compagna molto presente in queste giornate ma per non cadere nell’angoscia, sublimo il tempo della reclusione alimentando continuamente la malattia della creazione. La faccio lievitare come il pane presente sul tavolo in ogni decreto quotidiano; come se fosse il pane quotidiano di noi attori o artisti in generale: il gioco e il divertimento – parola, quest’ultima, che abbiamo ahimè imparato a temere.
Certo è pure che si fa di necessità virtù e in questi giorni sto maneggiando il mezzo (un cellulare) per fare queste riprese, la fissità dell’inquadratura (regola aurea di quest’empatia) e il tempo dentro il quale si stende lo sviluppo della narrazione. Sto imparando empiricamente ad utilizzare questo mezzo.
Mi dicevi che spesso le idee scaturiscono dalla collaborazione con Francesco Asselta, il tuo alter ego creativo. Come nasce il vostro sodalizio, cosa vi unisce?
Tutto quello che ho fatto in questi ultimi cinque anni a teatro è sempre stato attraversato e filtrato dal ruolo drammaturgico di Asselta. Non ha mai scritto esclusivamente in termini verbali ma ha accompagnato sempre le parole con immagini e ragionamenti segnici. Il corpo del racconto con Asselta già in teatro era diventato un elemento materico tout court, non solo enunciativo. Il suo percorso cinematografico e televisivo mi ha consentito di uscire in questi anni dal teatro per poi ritornarci con aria meno viziata da convinzioni noiose e autoriferite. Ci uniscono forse, più di tutto, l’autoironia e la voglia di vivere giocando a raccontare storie. Mille sono i modi in cui ci piace raccontare ma sempre ci muove la curiosità di indagare le possibilità espressive dello spettacolo. Ora in questa esperienza di #decretoquotidiano maneggiamo una scrittura a metà strada tra i nostri due background.
Qualche tempo fa sono stata al MAT di Terlizzi a vedere il tuo Riccardo III. Alla fine dello spettacolo mi hai fatto litigare con la mia amica, era arrabbiata perché le avevi spruzzato dell’alcool addosso. Diciamo che ti ha odiato. Penso che questa sia la tua caratteristica: in un modo o nell’altro fai colpo; artisticamente ti si odia o ti si ama.
Mi piace pensare che quello che faccio a teatro non risulti funzionale all’intrattenimento ma alla condivisione di un’esperienza. Nel caso di Riccardo III l’obiettivo era lavorare sulla dimensione della cattiveria scenica ed emotiva passando per la deformità fisica del personaggio shakespeariano. Quello che accade in scena è la conseguenza di un progressivo ragionamento teatrale specifico al racconto in questione. Mi dispiace per il rapporto con la tua amica… spero sia recuperabile e in questo senso potremmo reincontrarci. Potrei offrirvi una bevanda analcolica.
Se non fossi un attore cosa ti piacerebbe essere? Chi volevi diventare da ragazzino?
Da ragazzino volevo diventare un architetto. Prima di scegliere definitivamente il teatro avevo fatto l’iscrizione a Firenze alla facoltà di Architettura, indirizzo restauro. Mi è rimasta la passione per l’urbanistica e la lettura dello spazio, la lettura delle planimetrie. Un lavoro di cui sono soddisfatto è il Laboratorio X Zone tenuto ad Andria qualche anno fa durante il periodo di residenze teatrali create dal governo vendoliano. Lavorai a stretto contatto con architetti, geometri ed ingegneri con l’obiettivo di raccontare i metricubi della città. Il teatro era un mezzo, come dovrebbe sempre essere secondo me.
In più di un Decreto hai tirato fuori le tue origini cattoliche. Quanto hanno influito in quello che sei ora?
Il mio percorso di vita è impregnato di una cultura cristiana. Ho scoperto il teatro grazie all’oratorio e quel gioco è diventato l’unica memoria indelebile nel tempo che è passato. Da meridionale e mediterraneo, la spiritualità è strettamente connessa con la dimensione culturale più in generale. È una dimensione totalmente diversa da quella evidentemente vissuta da chi è cresciuto in una grande città del nord, dove l’influenza mitteleuropea è arricchita da un orizzonte più protestante. Ho vissuto quella stagione scoprendo la circolarità di quell’esperienza spirituale, il “noi” della comunità per cui ciascun individuo è funzionale allo stare assieme. Questo è molto diverso dalla verticalità predominante nel rapporto con la spiritualità più protestante del nord.
Sai essere tragico ma sai anche far ridere, o sai far ridere perché sai essere tragico, qual è la tua natura vera?
Sicuramente non riesco a stare sempre nello stesso spazio esperienziale. Mi annoio. Mi piace cambiare giocattolo dopo averlo anche aperto per scoprirne il meccanismo. Quello che ci attrae è sempre spostato nel domani. O comunque le sfide e i progetti ambiziosi sono distrazioni alle grandi domande della vita e alle quali soccomberemmo se dovessero persistere nelle nostre teste. L’alternanza del ridere e del piangere costituiscono la prima esperienza armonica di ogni essere umano.
Qual è la prima cosa che farai quando sarai libero di farla?
Andare al mare a bere un gin tonic con amici e famiglia. Non vedo l’ora. Veramente.