LAURA CARUSO* | Nell’articolo – pubblicato su PAC la scorsa settimana – I numeri ci parlano, ma dobbiamo essere disposti ad ascoltarli non emerge alcuna posizione personale.
Eppure potrebbe sembrare che si parli di una “verità indiscutibile dei numeri” e che l’unico nodo da sciogliere stia tra la scelta delle fonti e la combinazione di informazioni differenti che, una volta sbrogliato l’intreccio, fanno apparire questa indiscutibile verità.
In realtà le cose non stanno esattamente così: le stesse informazioni, selezionate dalle stesse fonti e anche combinate con altre rilevate allo stesso modo, ci possono condurre a considerazioni del tutto opposte.

Per restare al tema SARS-CoV-2, l’Istituto Superiore di Sanità ci mette a disposizione un’infografica nella quale leggiamo che i casi critici sono il 2%:

Potremmo certamente sostenere che i casi critici sono una minoranza davvero molto modesta, il 2%.
Tutti sappiamo che la nostra popolazione “vale” poco più di 60 milioni di persone (60 milioni e 360 mila, persona più, persona meno, dati ISTAT).
Si possono scorgere due dimensioni in queste informazioni: la prima è relativa (il 2%), la seconda assoluta (1,2 milioni di persone, che rappresentano il 2% della popolazione).
Sono numeri grandi o piccoli?
Non ha alcun senso quello che ho appena rappresentato, lo dico prima che qualsiasi persona dotata di un ragionevole buon senso me lo faccia notare.
Ci sono elementi per sostenere che sono numeri piccoli e grandi al contempo. E per discuterne all’infinito: “Ehi, ma perché hai calcolato il 2% di tutta la popolazione? Non sono mica tutti contagiati! Ah, sì? E quanti sono i contagiati, allora? Sono 200 mila, il 2% di 200 mila fa 4 mila! Ma che cosa stai dicendo, come puoi dirmi che le condizioni severe riguardano solo 4 mila persone se ne sono morte 27 mila?”, e avanti così.
Non esistono “numeri” oggettivamente veri, esistono raccolte di informazioni che rappresentano parti di verità e l’integrazione in un complesso è il collante che tiene insieme una verità che non sarà mai oggettiva, ma interpretata, e ci aiuterà a farci un’idea ragionevole.

Credo di non aver mai scritto che esistono verità oggettive da qualche parte, in ogni caso lo specifico una volta ancora; il mio riferimento letterario è il mio corregionale Pirandello, lui di verità ci ha parlato molto più efficacemente di quanto possa farlo qualsiasi matematico o scienziato.
Se partiamo da questo principio, e cioè che non esistono verità assolute, posso sentirmi pronta per raccontare la mia verità e, prima di farlo, partirei da qualcosa che è legato alle scienziate e agli scienziati, di cui in questo frangente ci siamo trovati spesso a valutare i comportamenti.

Un sentire comune ha visto nelle dispute tra scienziati qualcosa di stonato: Tizio diceva qualcosa, Caia ne ribatteva un’altra, Sempronia sosteneva un’ipotesi e Mevio la contestava.
Ci siamo rimasti molto male, noi ci aspettavamo che dicessero tutti le stesse cose, ma non è andata così ed è successo perché non c’è oggettività neppure nella scienza.
Tuttavia questo è un bene; se ci fosse oggettività anche nella scienza tutto sarebbe regolato da verità immutabili e noi, probabilmente, saremmo ancora alla ricerca delle Colonne d’Ercole per scoprire il luogo esatto in cui la nostra terra piatta finisce.

Passiamo a questo punto al racconto della mia personale verità, a due mesi abbondanti dall’inizio di questa complessa esperienza collettiva.
Immediatamente a ridosso del primo caso rilevato in Italia – sto parlando dell’ormai celebre “paziente uno” Mattia dall’Ospedale di Codogno – si è reagito con un atteggiamento minimizzante. Ora, non è il caso di star lì a recriminare; rileggere questa storia serve a comprendere che cosa è successo, quando e come: ricordarsi le cose senza rimuginare su ciò che è stato è utile per il futuro.
Nelle due settimane successive a quello che poteva costituire un allarme, abbiamo creduto (sperato) che le cose non fossero così gravi, e abbiamo indirizzato i nostri comportamenti in un certo modo.
Siamo stati incentivati a farlo. Noi certamente desideravamo immaginare che si trattasse di qualcosa che si potesse gestire con agilità, e i nostri amministratori e alcune voci di scienza sono stati molto solidali con i nostri desideri.
Vi ricorderete sicuramente di certi inviti:

Questi inviti arrivavano dopo il paziente uno di Codogno e dopo che all’Ospedale di Alzano Lombardo, a primo paziente positivo già accertato, sono stati lasciati aperti pronto soccorso e reparti, senza sanificarli, e non è stata seguita la catena del contagio. Si sono ammalati medici, infermieri, si è lasciata correre quella che al tempo chiamavamo ancora “solo” epidemia.
Non mancavano rassicurazioni da parte di persone di scienza, come per esempio i post su Facebook, poi rimossi, della Dott.ssa Maria Rita Gismondo:

In quel momento eravamo tutti “incoscienti”.

Presto però l’inadeguatezza delle strutture sanitarie, specialmente quelle Lombarde (parlare di SARS-CoV-2 in Italia senza concentrarsi sulla Lombardia è come preparare un passato di verdure senza le verdure), ha indotto tutti, in Italia, a fare un bel dietro front.
È che ci sono volute due settimane e, per usare una immagine abusata, non è molto efficace chiudere la stalla dopo che i buoi sono scappati.

Esiste un organismo, il Centre for European Policy Studies- CEPS che ha pubblicato un interessantissimo studio.
In estrema sintesi, i ricercatori del CEPS tengono in considerazione centrale il valore del fattore R0, che è il moltiplicatore dei contagi e ne dà la misura della velocità.
La velocità della funzione di crescita del contagio è esponenziale, ma non pensiamo alla parola “esponenziale” così come la usiamo, impropriamente, nel linguaggio comune: se nel 2017 ci assumono con uno stipendio di 1.000 euro al mese, lo aumentano a 2.000 nel 2018, a 3.000 nel 2019 e a 4.000 nel 2020, ci viene da dire “aumento esponenziale”, ma invece è lineare.
La funzione esponenziale è diversa:

I ricercatori del CEPS osservano, su diversi paesi (Italia, Francia, Spagna, Germania, Regno Unito, Norvegia, Danimarca e altri ancora) che quello che fa scendere velocemente il valore del fattore di contagio non è legato tanto al rigore delle misure prese, quanto piuttosto alla velocità con cui si prendono. Perché una curva esponenziale va “gestita” subito, nell’immediato.
Ad esempio, la Norvegia, che ha registrato il primo caso il 26 febbraio e ha utilizzato pressoché immediatamente misure moderate (mild, le chiamano loro) e la Danimarca, che ha registrato il primo caso il 27 febbraio e ha adottato pressoché immediatamente misure rigorose (stringent, le chiamano loro) hanno visto ridursi il fattore di contagio in tempi strettissimi.
Un potente schiaffo alla curva esponenziale, che va “educata” da piccola.

Qui sotto un esempio delle curve tracciate da una funzione esponenziale che, partendo da 1, ne riproduce la crescita con un fattore di moltiplicazione esponenzialmente rispetto al tempo.
Immaginate che il tempo sia indicato in settimane, da 1 a 8, e che il fattore sia il nostro R0, e guardate quanto diverse sono queste curve: la curva rossa è riferita ad un fattore pari a 2, la curva gialla pari a 1,5 e la curva verde pari a 1,2. Tra la seconda e la terza settimana, la curva rossa, prende il volo e rallentarne la crescita sarà molto, molto difficile.

Se la Norvegia e la Danimarca si sono mosse in pochissimo tempo, altri paesi come l’Italia, la Francia e la Spagna hanno atteso tempi più lunghi. Nemmeno troppo, se li guardiamo in assoluto, ma lunghissimi in casi come questo: Norvegesi e Danesi hanno agito in 2/4 giorni, inizialmente anche solo con semplici raccomandazioni, noi Europei mediterranei in un paio di settimane.
Beh, lo sapete che i Norvegesi, con misure di contenimento meno rigide, hanno registrato meno della metà dei decessi dei Danesi, con una popolazione sostanzialmente confrontabile? E lo sapete che il contagio e i decessi, rispetto ai nostri numeri, anche i già sottostimati numeri ufficiali, sono incredibilmente più bassi?
Sono i poliziotti che rincorrono il runner sulla spiaggia dopo averlo avvistato con l’elicottero, che fanno la differenza, o la tempestività?
Peraltro, le misure di lockdown rigoroso che sembrano essere le uniche possibili, non più tardi dell’anno scorso venivano indicate dalla stessa OMS come moderatamente efficaci, addirittura sconsigliate.
Sono diventate l’unica possibilità quando è diventato troppo tardi, ma non erano l’unica possibilità in astratto, anzi, in astratto erano una delle vie meno efficaci.

Ma a questo punto della storia le cose stavano ormai così, e da “incoscienti” siamo diventati tutti “sceriffi”.
«State a casa! Ma che cosa non vi è chiaro? Dovete restare a casa!»
Gente aggredita dai vicini di casa o di quartiere, fucilate a pallini a persone che portavano il cane a pisciare, si è visto di tutto, e non è stato un bello spettacolo.

Nel frattempo si è trovato il modo di individuare un responsabile, e il responsabile è la Regione Lombardia. Ora, lungi da me parteggiare per gli uni o per gli altri (o meglio: io parteggio, ma il voto è segreto), mi pare una soluzione un po’ semplicistica. La Regione Lombardia ha certamente le proprie responsabilità ma individuare “il colpevole” nell’ultimo anello della catena esprime una visione miope.
E i precedenti governi di qualsiasi colore che hanno seguito politiche di tagli consistenti alla sanità? Tutti assolti?

Vediamo ora che cosa è maturato in questa fase di “sceriffi”. Ci siamo tutti molto stancati di restare chiusi in casa. Gli imprenditori e i professionisti non fatturano, i lavoratori vanno in cassa integrazione o perdono il lavoro, quelle interessanti e romantiche teorie del “non dobbiamo tornare alla normalità perché quella non era la normalità” crollano sotto il peso di un modello che non cambia certo in due mesi.
Confesso di essermi lasciata attrarre da questa idea, ma era una stupidaggine, riconosco che è facile parlare di una “nuova normalità” dalla propria casetta accogliente, su un comodo divano, mangiucchiando i propri biscottini preferiti. La spesa, l’affitto, il mutuo, le bollette, a tutt’oggi, vengono pagati in euro e non in buoni sentimenti o propositi per un mondo migliore.
Ci siamo dunque molto innervositi, in maniera trasversale, spinti chi dal fastidio, chi dalla fame, chi dalle riflessioni su un modello sociale, quello del lockdown all’Italiana, che non è più a lungo sostenibile.
E siamo diventati tutti “rivoluzionari”.
Graficamente la nostra trasformazione la riassumerei così:

E ora qui siamo.
Che cosa possiamo fare?
Credo valga la pena di ritornare ai numeri, e alla loro poco oggettiva verità.

Pare che il totale dei contagiati, secondo i dati ufficiali del 26 aprile, arrotondando al migliaio, sia pari a circa 198 mila persone, e che il numero degli “attualmente positivi” (al netto, cioè, dei guariti e dei deceduti), sia pari a circa 106 mila persone. E pare che il totale dei deceduti sia pari a circa 27 mila persone.
Pare questo, ma può apparire anche altro. Per esempio, può apparire che i decessi rilevati non siano tutti. Molti dicono “sono il doppio!”, “sono il triplo!”.  Stiamo bassi. Diciamo che non sono 27 mila, ma 40 mila. È un numero piccolo: non prendetemi per cinica, ma in Italia ogni anno e da molti anni muoiono oltre 600 mila persone, perché quello che abbiamo dimenticato con il coronavirus è che si muore, tutti, sempre, a prescindere dal coronavirus: può cambiare solo un po’ il momento in cui succede.
Se i decessi sono 40 mila, e la letalità non è pari al micidiale e poco credibile 13,5% dei dati ufficiali, allora i contagiati sono molti di più. Facciamo proprio un conto grossolano: diciamo di stare più o meno a metà tra la letalità stimata dall’ISPI e quella rilevata nella Corea del Sud, e diciamo 1,5%. Per avere 40 mila decessi, occorrono 2,7 milioni di contagiati (basta dividere 40 mila per 1,5%, cioè 0,015).
Ma i decessi a oggi sono i contagiati a due settimane fa, visto che sono stati stimati 5 giorni come tempo mediano da incubazione a sintomi e 10 giorni da sintomi a decesso, come da grafico Epicentro ISS:

Quindi i 2,7 milioni, oggi, sono di più. Facciamo un calcolo grossolano: abbiamo detto che non esistono numeri oggettivi, cerchiamo di individuare numeri ragionevoli.

Vi chiedo di non venirmi ad obiettare che non si può paragonare la Corea del Sud all’Italia, perché prima di basarmi sul loro tasso di letalità ho fatto un piccolo esperimento sociale: ho detto con una certa sicumera a qualcuno che gli abitanti della Corea del Sud sono 15 milioni, o 90 milioni, e ho detto che noi siamo molto più vecchi di loro; ho fatto intendere, insomma, che vi sono evidenze per rendere non confrontabili le due diverse situazioni, e i miei interlocutori hanno fatto cenni di assensi con il capo.
Non è vero: loro sono circa 50 milioni e noi circa 60, hanno una leggera prevalenza di femmine, in linea con la nostra stessa leggera prevalenza e hanno mediamente 42 anni, mentre noi 44.
La differenza sui dati della popolazione, che non mi pare decisiva, è che loro hanno una composizione di over 60 che vale circa il 22%, noi circa il 28%, ma non è una differenza stravolgente ed è riflessa da un’età media più elevata di soli due anni.

Quanti sono, quindi, i contagiati?
Chi lo sa. Secondo i numeri non oggettivi della mia personale verità, ci sono oggi oltre 3 milioni di persone contagiate in Italia e sono concentrate in larga parte in un raggio di 100 kilometri dalla mia cucina.
Tornando alla domanda “che cosa possiamo fare?”, io trovo ragionevole non accontentarsi di slogan come “il Paese deve ripartire”.

Il limite principale della “mia personale verità”, è che non ho nessuna risposta a quella domanda: ho solo tanti pensieri sparsi. In questi pensieri sparsi, solo a titolo di esempio, c’è che il paese può ripartire consapevole che la potenzialità di una seconda ondata non è quella dei dati ufficiali e che quindi le misure da prenderenon sono il foulard che dobbiamo indossare per uscire.

C’è che i controlli sull’adeguatezza dei luoghi di lavoro dovranno essere seri, che le imprese debbano essere aiutate concretamente a rispettare queste misure, anche quelle che non sono in grado di farlo perché non hanno il denaro per farlo.

C’è che dovranno tener conto dei bambini e dei ragazzi, per due importanti motivi: il primo è che la scuola è centrale per qualsiasi civiltà, la seconda è che i genitori tornano al lavoro e non si possono lasciare bambini di otto anni soli a casa: quando mio figlio aveva otto anni sarebbe stato in grado di incendiare tutto il condominio, se lo avessimo lasciato da solo per una giornata.

C’è che si dovrebbe tener conto di qualcosa che per ora ci sfugge, ci pare inutile, mentre, come la scuola, è al centro, e si tratta dell’arte, degli artisti, della cultura.

Sono idee sparse e non “ricette”, perché ho individuato gli ingredienti ma non il modo di cucinarli. C’è una task force che è stata affiancata al governo per lo studio della fase 2, ci sono misure annunciate dal Presidente del Consiglio di domenica 26 aprile, c’è un nuovo DPCM e la prima impressione è che il piatto che ci è stato presentato non contenga esattamente tutti gli ingredienti che immaginavo, ma prima di esprimersi credo abbia senso leggere attentamente quello che è stato previsto e valutare quello che si sta prevedendo dal punto di vista economico.

 

 

*Laura Caruso è titolare a Milano di uno studio che si occupa di assistere banche e istituti di ricerca per l’applicazione degli standard internazionali e la valutazione degli strumenti finanziari.

Si occupa anche di altre cose molto diverse: è facilitatrice dei gruppi di auto mutuo aiuto dell’Associazione per la Cultura e l’Etica Transgenere e fa parte del Gruppo di Ricerca Interuniversitario NuSA – “Nuove Soggettività Adulte” presso il Dipartimento di Scienze Umane per la Formazione dell’Università degli Studi di Milano-Bicocca.