PAOLA ABENAVOLI | Si può scrivere un’opera in questo periodo così confuso e strano? Si può realizzare non un “semplice” diario della quarantena, ma raccontare “la” storia attraverso “una” storia di un personaggio di finzione, tramite elementi del reale e del contingente? E farne arte? E soprattutto, si può creare una “messinscena” che sappia sfruttare le tecnologie, che nasca proprio per quegli strumenti di diffusione, non facendone un uso fine a se stesso, ma cercando nuove strade espressive, un diverso tentativo di comunicazione diretta con il “fruitore” dell’opera, al di là di etichette (non è teatro nel senso classico, “non è una pièce teatrale, non è un radiodramma”, specifica lo stesso autore)? Si può sperimentare in questo tempo?
Tante le sfide che Dario De Luca, consapevolmente, si è posto di affrontare, realizzando Voce in chat – coronoperina, un esperimento che potremmo definire “social teatrale”, che ha coinvolto pochi fruitori-spettatori, attraverso una chat di Whatsapp. In nove giorni, una serie di appuntamenti mai uguali, mai alla stessa ora: “È interessante per me sorprendere il ricevente in qualsiasi momento della sua giornata reale, aprendogli un “file” di attenzione su questa fiction, creando curiosità o fastidio o, magari, addirittura disinteresse”, spiega l’autore, introducendo il progetto.
E, in effetti, i vari momenti, i vari messaggi inviati proprio mantenendo la temporalità del racconto, hanno sorpreso, incuriosito, creato attesa nei partecipanti alla chat, immergendoli in una storia che fin da subito si è profilata ricca di inquietudine, sia per il periodo nel quale si svolge – i giorni di lockdown – ma anche per la situazione di crisi personale che vive il protagonista, fatta di solitudine, distacco, gelosia. Un racconto fatto di quotidianità, in cui si instillano i sentimenti e, appunto, le inquietudini del protagonista, che parla alla ex compagna proprio attraverso la chat con cui l’autore si rivolge al pubblico: e lo fa con messaggi, scritti e vocali, foto, video, link a canzoni, insomma con il mezzo che tutti usiamo, ma criticandolo e pur, allo stesso tempo, facendone strumento narrativo e creando un nuovo possibile linguaggio drammaturgico.
Ciò che emerge è proprio una drammaturgia, un testo intenso, denso di riflessioni (su tutte, la frase del drammatico monologo finale: “un vaccino efficace per umanizzare l’uomo non si troverà mai”). È un doppio esperimento, quello del racconto in diretta di un tempo difficile, non semplicemente sfondo della storia del personaggio, e quello di una via nuova e non fine a se stessa, per cercare, al di là di steccati o definizioni, di sperimentare la costruzione di un rapporto – seppur mediato – in qualche modo più diretto con lo spettatore, attraverso un messaggio mirato, attraverso l’uso della voce, da sempre strumento principe nella creazione teatrale.
Voce in chat vince queste sfide, facendoci immaginare la possibilità di inventare nuovi linguaggi espressivi, che non siano – naturalmente – alternativi al contatto diretto, alla presenza fisica di attore e spettatore in uno stesso spazio, ma che lancino degli input, che siano un modo per esprimere, che siano strumenti di racconto e parte di essi.
Un esperimento che, dunque, sottende un’idea, un lavoro, uno studio. Un esperimento che potrà essere sviluppato, che potrà magari avere un futuro, come opera a sé o, chissà, come parte di un racconto più ampio e differente… Tutte ipotesi (di chi scrive, non dell’autore), ma scaturite da una coraggiosa sfida, una delle proposte più interessanti viste in questo “tempo sospeso”.