RITA CIRRINCIONE | Psicologa, danzaterapeuta, performer Butoh, Annalisa Maggiani da anni vive a Berlino e svolge la sua attività clinica e artistica tra la Germania e l’Italia. Direttrice artistica di Gest/Azione Teatrodanza, nella sua ricerca ha sempre attraversato e integrato diversi linguaggi collaborando con performer, musicisti e visual artist di varie nazionalità e culture, e ricercato la connessione con l’ambiente circostante – paesaggi naturali, spazi urbani e luoghi densi di memorie come castelli e ruderi.
Dal 1988 al 1995 ha fatto parte della Compagnia Chille de la Balanza partecipando a diversi spettacoli in strade e piazze e in teatro.
Ha lavorato come attrice in alcune produzioni della rete dctp.tv del regista Alexander Kluge e con la fotografa-regista Digne Meller Marcovicz (1999-2001).
Dal 1996 fa parte della Compagnia berlinese di Danza Butoh Ten Pen Chii art labor – con la danzatrice e coreografa Yumiko Yoshioka, il visual artist Joachim Manger e il musicista Zam Johnson – con cui ha realizzato Butoh Performance Projects nei castelli di Lerici, Portovenere e della Lunigiana.
Nella Metropolitana Nollendorfplatz di Berlino ha messo in scena – curandone anche concept e regia – la Trilogia dell’Ombra sul tema della Nostalgia, dell’Appartenenza e della Migrazione (2003- 2005).
Dal 2003 al 2013 ha organizzato – prima a Lerici e dal 2008 a Sarzana, all’interno di Sconfinando – il festival di assoli Butoh La Danza di Confine, unico nel suo genere. Da questa esperienza è nato nel 2019, con la regia di Mario Morleo, il docufilm On the border, uno straordinario documento con interviste a danzatori, musicisti, studiosi e artisti contemporanei e spezzoni di performance che testimoniano la grande varietà espressiva del Butoh.
Cura le coreografie per la Compagnia Teatro Iniziatico diretta da Angelo Tonelli.
Come italiana residente a Berlino, come stai vivendo questo tempo speciale, tra regole tedesche e prescrizioni italiane che probabilmente ti condizionano?
Penso che molti di noi qui a Berlino stiamo vivendo contemporaneamente in due mondi paralleli: quello italiano, dove ci prefiguriamo di stare quasi per sentirci più vicini ai nostri cari, e quello tedesco. Qui la situazione non sembra così drammatica e le prescrizioni non sono così rigide, mentre in queste settimane dall’Italia ci sono arrivate notizie terribili di dolore e di lutto. Il condizionamento è inevitabile e tendiamo a seguire le disposizioni in vigore in Italia, con il paradosso di sembrare noi italiani quelli che “tengono le distanze”.
Il corpo così centrale e totemico nel campo delle discipline corporee – spazio sacro da cui partire e al quale tornare e luogo della relazione – adesso è il mezzo che veicola il virus, un corpo di cui non fidarsi, da imbavagliare, da isolare, da distanziare dagli altri corpi. È un ribaltamento che disorienta. Come pensi che possiamo viverlo adesso? Quali risorse attivare?
Penso che questo virus, che è arrivato in modo così violento dall’esterno a “occupare” le nostre vite, mettendoci in uno stato di paura, di insicurezza e di disorientamento e portandoci a cambiare repentinamente, anche in modo traumatico, le nostre abitudini, le nostre relazioni e il nostro lavoro, stia portando nuovi “riassestamenti”.
In un momento di forte instabilità, pratiche psicocorporee come la DanzaMovimentoTerapia ci possono aiutare ad attivare il centro e l’asse del corpo, a incentivare i meccanismi di autoregolazione e la forza di coesione resiliente che sono insiti nel corpo stesso e nella memoria corporea. Attraverso il respiro e il grounding possiamo trovare nel corpo un’ ancora che ci può dare un senso di calma e di stabilità interiore e un senso di fiducia nell’esserCi.
Il corpo frammentato di questo momento va nutrito di immagini che veicolano sensazioni legate a memorie di vita e di coesione vitale. Può aiutare un lavoro basato sulla polarità: da un lato sentire i confini corporei, lo spazio personale e le connessioni corporee; dall’altro, attraverso il movimento, liberare la fantasia e l’immaginazione che non hanno confini.
Ma anche accogliere il senso di vulnerabilità che stiamo vivendo è fondamentale per muovere questi stati emotivi, per trasformarli, per dare una forma e un senso a ciò che altrimenti rimarrebbe congelato, pietrificato.
In queste settimane di isolamento coatto, tanti di noi stanno praticando attività fisica o tecniche di consapevolezza corporea. A dispetto del training quotidiano, mi è capitato di percepire il mio corpo indefinito come una figura di Francis Bacon. Ho ripensato allora alla frase di Marian Chace «Un corpo è un corpo tra altri corpi». Ecco, sono gli altri corpi che ci mancano adesso?
Il corpo senza confini netti, alla Bacon, come tu dici, ci parla di instabilità, di paura, di trauma. Il corpo tra i corpi, il tocco, il contatto, come la carezza o l’abbraccio, così importanti nella costituzione del nostro Io-corporeo, sono embodied, memorizzati nel nostro corpo: anche se adesso non ci sono concessi, possiamo immaginarli. Lavorare con l’immaginazione, come ci ha ricordato l’analista junghiana Verena Kast, in una recente intervista di Stefano Carpani, in questo momento può esserci d’aiuto.
Ma il corpo confinato, distanziato, come una monade senza porte e finestre, continua a cercare una collegamento con altri corpi attraverso il canale virtuale, l’unico al momento possibile. Nei video che si succedono nei social vediamo orchestre, corpi di ballo, attori, danzatori connessi virtualmente da diversi continenti – i corpi chiusi in tanti piccoli quadrati – che creano insieme e confermano l’arte come possibilità di vita e di rinascita. L’atto performativo è come tornato alla sua essenza di rituale catartico.
L’impossibilità della co-presenza reale dei corpi colpisce anche il teatro e gli spettacoli dal vivo. Quali prospettive intravedi?
Nella mia esperienza di teatro di strada con i Chille de la Balanza – che mi ha aperto all’arte performativa legata ai luoghi e alle persone, all’approccio dell’arte Partecipata, alla Performance Site-time-social Specific – ho sperimentato in pieno l’empatia dello scambio improvvisato tra i corpi, la grande risonanza e il nutrimento reciproco che ne scaturisce.
Credo che, nonostante la distanza sociale, le mascherine, l’uso dei guanti, forse svilupperemo nuove possibilità corporee e si creeranno nuove vie per l’incontro: il nostro sguardo, così importante nella relazione, forse si acuirà, si farà più profondo e forse potremo davvero abbracciare l’altro con lo sguardo; la chinesfera – lo spazio personale che è collegato anche all’incontro e alla relazione – si amplierà per poter toccare lo spazio dell’altro. Speriamo comunque che il tempo che dovremo vivere in questo modo non sia così lungo da creare cambiamenti troppo profondi nel nostro corpo e nelle nostre relazioni.
Gli artisti – nomadi in cammino per il mondo – sono ora in un momento di stanzialità forzata in cui ciascuno ha il tempo di confrontarsi con il proprio lavoro, di guardarsi indietro, di ricostruire la propria storia ma anche di pensare a strategie di sopravvivenza, alla possibilità di poter lavorare in questa situazione inedita nel periodo a venire e forse ci stanno già provando. Questo arricchirà senz’altro il dopo.
Mi sembra che, in modo straordinario, il virus stia muovendo le collettività e le individualità e stia portando le nostre vite dal Fare all’Essere.
Dopo gli orrori di Hiroshima e Nagasaki e la profonda crisi che scosse il Giappone alla fine delle seconda guerra mondiale nacque il Butoh, una danza che attraversando l’ombra, il lato oscuro dell’esistenza, permise di andare oltre la distruzione e la morte verso un processo di metamorfosi e di rinascita. Nelle analisi che si susseguono in questi giorni si arriva a quel periodo per ritrovare una situazione altrettanto traumatica a livello globale. Quale danza può raccontare questo periodo di paura, di isolamento e di sofferenza? Pensi che il Butoh possa ancora farlo?
All’inizio del mio viaggio nel Butoh, mi colpì uno spettacolo di Carlotta Ikeda in cui, al termine di una danza oscura, perturbante, tornò alla luce, una luce quasi accecante. Fu un’esperienza estatica!
Ristabilendo il legame originario con l’Universo e con la sua ombra, il Butoh ci mette in contatto con la fragilità, con il lato oscuro che esiste in ognuno di noi e, allo stesso tempo, ci dà la possibilità di attraversarlo e di uscirne rinvigoriti nella luminosità del “Sì alla Vita”, nella connessione con la “Ciclicità della Natura”.
Il mio primo incontro approfondito con il Butoh avvenne durante un lungo seminario che Kazuo Ōno tenne a Venezia. I temi delle sue lezioni e delle sue performance erano la Vita e la Morte, la Nascita e la Rinascita, l’essere umano come parte del Sistema della Natura, una piccola parte che racchiude nel corpo la memoria del Tutto.
Fondatore insieme a Tatsumi Hijikata di questo genere che unisce il tradizionale teatro-danza giapponese con la danza espressionista tedesca, Kazuo Ōno era anche un maestro vero e autentico.
In un “esercizio” che ci chiese di fare, dovevamo andare verso un ciliegio in fiore che era appena sbocciato: era un ciliegio che aveva attraversato un inverno durissimo e freddo, un inverno in cui era stato tra la vita e la morte. Come potevamo andare verso quel ciliegio? Con quale camminata? Quale danza ci poteva portare verso quell’albero?
Penso che anche in questo momento possiamo chiederci: come ci avviciniamo a noi stessi e agli altri? Come andiamo verso chi in questi giorni ha vissuto con la sensazione di essere tra la vita e la morte? Possiamo danzarlo? Come possiamo esprimerlo?
Percorrendo la Terra Desolata – un attraversare che ci cambia – e arrivando a una nuova terra, non siamo più quelli di prima, siamo più umani, più empatici e risonanti. Entriamo nella possibilità della trasformazione dei vissuti.
Ma quello che sto per raccontare ha davvero dell’incredibile e può rappresentare la migliore risposta alla tua domanda.
Nell’attività di archeologia personale che un po’ tutti stiamo facendo in questi giorni, ho ritrovato del materiale di N-Yoin, la prima produzione di Ten Pen Chii art labor del 1997 in cui ho danzato con Yumiko Yoshioka.
La performance si svolse nel mitico Tacheles – celebre Centro sociale e polo d’arte contemporanea e controcultura della Berlino underground di allora – che all’epoca accolse tanti eventi e laboratori di questo genere. Sul booklet di N-Yoin allegato al CD con le musiche originali di Zam Johnson, leggo:
Unknown thinks are happening. A constantly growing virus is on the move. […] No one knows what the effects of its appearance will be. However, it is certain, that is highly contagious […]. Like a parasite, the virus enters, reprograms the cell and makes it work for itself. As of now, it is unknown how many living being have already been infected.
Qualcosa di sconosciuto sta accadendo. Un virus in costante crescita si sta muovendo. […] Nessuno sa quali saranno le conseguenze della sua comparsa. Tuttavia, è certo che è altamente contagioso. […] Come un parassita, il virus entra, riprogramma la cellula e la fa lavorare per se stesso. Al momento non si sa quanti esseri viventi siano già stati infettati.
Tema di N-Yoin era un Virus come ambivalente metafora di cambiamento che porta da un lato alla distruzione di un Sistema, dall’altro diventa stimolo per le metamorfosi della vita. Capace di infiniti cambiamenti, il virus in questa performance è simbolo del genere umano che attacca il Pianeta Terra, dominandolo, sfruttandone le risorse fino alla catastrofe definitiva, ma anche di una particella infinitesimale che può portare profonde trasformazioni in un organismo e in un corpo sociale.
La scultura/installazione di Joachim Manger – un’enorme sfera composta da migliaia di tubi di ferro ancora oggi esposta allo Skulpturenpark di Katzow – da cui fuoruscivano i nostri corpi durante la performance, ricorda in modo impressionante il Coronavirus.
Così, alla tua domanda se il Butoh può raccontare quello che sta accadendo, rispondo che l’ha già fatto. È proprio vero che gli artisti sono veggenti!
Molti psicoterapeuti stanno lavorando attraverso piattaforme web. Trovi che questa modalità possa funzionare nel campo delle terapie espressive e corporee?
Anch’io sto lavorando attraverso Zoom e Skype con lezioni di gruppo o sessioni singole. Lo schermo crea una forte cesura con l’altro, ma trovo anche incredibile la forza che adoperiamo per entrare in comunicazione: si riescono a creare momenti autentici di vero incontro. Certo ci vuole molta energia e dopo rimane tanta stanchezza e anche un certo turbamento quando un clic fa scomparire dallo schermo il mondo di emozioni e di immagini che si era creato. Nel nostro corpo rimangono le sensazioni dell’incontro, continuano a muoversi, ma quel clic che chiude un mondo mi colpisce fortemente e spero che non ce lo porteremo nel dopo, che non ci accompagni come possibilità di fuga dai rapporti.
Per questa pandemia si è parlato spesso di guerra. Forse non è corretto usare questo termine ma sicuramente possiamo parlare di situazione traumatica. Secondo te possiamo attingere alle pratiche corporee pensate per il disturbo da stress post-traumatico?
Penso che non siamo in guerra ma certamente nel mezzo di una catastrofe che ci ha fatto sentire la terra tremare sotto i piedi. Tante persone durante il giorno sono in uno stato di attenzione permanente e la notte hanno disturbi del sonno, un sonno senza sogni o pieno di incubi. Le pratiche corporee elaborate per la sindrome post-traumatica possono essere un’importante risorsa adesso e soprattutto nei mesi a venire. Abbiamo bisogno di tornare al corpo per incentivare un senso di stabilizzazione interna ma anche per risvegliare le nostre energie e le nostre risorse attraverso la creatività e l’immaginazione. Anch’io, come tanti altri, sto realizzando brevi video di esperienze corporee attinte dalla DanzaMovimentoTerapia, dalla Danza Butoh e da altri approcci. Le Pratiche di quarantena, sono brevissime sequenze che possono essere fatte anche in casa, cercando il “nostro posto”, uno spazio sicuro dove creare la “nostra tana”: Pratiche di quarantena #1 – Il fiore che sboccia; Pratiche di Quarantena #2 – Trovare i confini; Pratiche di quarantena #3 – Stella marina.
È una danza che cura, che ci connette con le forze che sono dentro di noi, dentro il nostro corpo-anima-psiche o, come in Un sogno di primavera, che ci conduce nel cuore della resilienza, nella capacità di risalire dopo la caduta e di trovare nella risalita le connessioni corporee che ci rendono più stabili.
Anche questo grande bisogno di connettersi gli uni con gli altri – oltre che con se stessi e con la propria storia – che coinvolge gli esseri umani che in questo momento si trovano nella stessa situazione di arresto, sta creando una sorta di movimento centripeto, una forza di coesione resiliente e un senso di appartenenza che incrementa la capacità di reagire a un evento traumatico. Spero che questo senso di comunità rimanga anche dopo l’emergenza e che alimenti un movimento di cambiamento per nuove e più vivibili condizioni sul nostro pianeta.
Colgo un rifletterSi di tante persone nell’acqua profonda, un guardare al di sotto della superficie, nell’oscurità, nella propria fragilità ma anche nella propria forza, un chiedersi “Cosa sono io ora?”. Penso che siamo tante “identità in movimento” e che, se alimentiamo quell’antidoto all’angoscia che Ernst Bloch chiama “Principio Speranza”, i tanti assoli possono diventare una danza collettiva di cambiamento.