RENZO FRANCABANDERA | Le meditazioni profonde del periodo di cattività sono finite. Il buonismo delle comunità, i like ai like degli streaming stanno finendo, le prospettive di ripartire con un ripristino di una condizione che somigli anche lontanamente a quello che era, paiono allontanarsi. Le risorse sono e saranno poche, con il rischio che partano (e già stanno partendo) lotte di tutti contro tutti. Timbri di adeguatezza. Misuratori del sacro fuoco, termoscanner del bruciore interiore per l’arte. I baciati dalle muse contro chi li sfrutta per campare, costruendo sulle spalle dell’artista il proprio fare impresa.
Il confine della dignità della persona è stato spostato dalla povertà, che si affaccia all’orizzonte, che ha cancellato con un soffio la linea dell’area di rigore e l’ha ritracciata a una distanza dalla porta che non può essere tollerata da chi già viveva di poco, accettava pagamenti con due anni di ritardo, dividendo il piccolo incasso con il teatro “instabile”.
Tutto sembra proprio come nell’opera di Bernard Marie Koltés di cui facciamo richiamo nel titolo, un’opera in cui, come ne I Persiani, l’azione principale, motore della narrazione, si è già consumata. Alboury, si apposta in prossimità del cantiere di un’impresa francese. Alboury è nero. E chiede ai due padroni, bianchi, Cal e Horn la restituzione del cadavere del fratello operaio, ucciso dal nevrotico Cal a seguito di una discussione nata per un banale pretesto. Nella notte nera, in cui si confonde la giungla dei lavoratori per lo più neri, il cantiere con le sue luci, i neon intermittenti, svetta come una roccaforte al cui interno si mettono in campo le più diverse strategie per non consegnare il corpo, ormai scomparso, a colui che lo reclama.
Attorno c’è la notte e le scure figure umane, che la violenza ha reso feroci. Ogni personaggio sviluppa astio e paura nei confronti dell’alterità, del diverso, inteso in senso etnico, nell’apparenza narrativa di Koltès, ma socio-antropologico nella verità.
Il possibile cadavere del teatro, o quello che la comunità chiamava teatro, il corpo del reato, viene reclamato da quelli che se ne sentono parenti stretti, i congiunti, fra improvvisi scatti di aggressività, accondiscendenze intermittenti, come i neon del cantiere, memorie e nostalgie. Ciascuno con un suo bisogno di sentirsi un po’ Antigone. Ciascuno con l’ovvio bisogno umano di lavorare e tornare dentro il cantiere in condizioni di apprezzabile sicurezza. Silenzi. Petizioni su Change. Rivendicazioni via streaming. Ancora silenzi di risposte mancate.
La situazione è abbastanza chiara.
Come funzionava, nella società tardo industriale e dei servizi, la produzione teatrale?
Esistevano due circuiti, uno dei grandi teatri finanziati dal settore pubblico, con scuole, repliche pagate, professioni, diritti. Uno indipendente, di piccole realtà combattive che operavano in modo autonomo, con poche repliche raccolte con grande fatica, da abbinare a corsi nelle scuole, pratiche di docenza, lavoretti e incastri, pur di poter continuare a praticare il linguaggio. A far da cerniera fra questi due mondi il sistema dei festival, tantissimi, verrebbe da dire anche troppi. Più numerosi delle province. Che creavano, a loro volta, dei micro circuiti di sostegno e produzione, che consentivano ad artisti del circuito indipendente, di tanto in tanto, di circuitare anche nei grandi teatri, respirando l’ebbrezza di qualche replica pagata in modo quasi normale.
Ora questo schema salta, perchè senza il pubblico, i conti al momento non tornano.
Il decisore pubblico ha grandi difficoltà, e sempre più ne avrà, per garantire a tutti coloro che di questo hanno vissuto e vivono, il sostegno sufficiente al mantenimento del sistema come era, ma senza poter peraltro prospettare un’alternativa accogliente e remunerativa per tutti.
E questo vale nel comparto dello spettacolo dal vivo come in tanti altri settori dell’economia e della società, dalla ristorazione fino al parrucchiere e alle palestre: chi lavorava con l’altro essere umano vicino, vive il dramma di un mondo che era, e che al momento non è ripristinabile, assaggia l’oscurità profonda dell’incertezza economica dovuta al rischio d’impresa.
Ecco allora che gli artisti dicono: senza di noi che arte potrete fare?
E gli imprenditori ribattono: senza di noi chi si prende il rischio di tener alzata la serranda? Sarete tutti artisti di strada?
L’assenza storica della modalità cooperativa nel mondo dell’arte, permette alla crisi di mordere con ferocia e rivela a tratti l’incapacità di cercare un lucido consesso in cui si riesca a pensare ad una rete, da far funzionare in condizione emergenziale.
Un’emergenza di cui nessuno può vedere il fondo.
E quindi le tipiche famiglie di artisti, di derivazione capocomicale, che vivevano intorno all’iniziativa culturale, sentono l’insopportabile peso di non farcela. Nella notte nera, la giungla dei lavoratori neri vede il cantiere illuminato, anche esso da neon intermittenti. E da un lato reclama i diritti del lavoro, dall’altro ha paura di restare fuori dal cancello.
La cosa più triste è che in tutto questo la paura vera, di cui nessuno parla, è che non esista neanche più un pubblico, almeno nel breve. Riapriamo, ok, ma per chi? Il pubblico è elemento necessario a sostenere l’impalcatura, come il consumatore compulsivo per i negozi e i centri commerciali, che si vanno infatti svuotando, con i commessi licenziati.
Il sistema produttivo dell’arte si basava su un mix di attività d’impresa a rischio basso, perchè sostenuta, in genere, dopo un certo tempo di gavetta sul confine dell’indipendenza, da un sostegno economico per lo più di derivazione pubblica. Una mollichina, perchè questo linguaggio, di cui pure vogliamo sancire la millenaria necessità, negli ultimi 100 anni, dall’avvento dei mass media tecnologici, ha via via visto ridursi le risorse destinate, a tutto vantaggio di cinema, televisione ed arti più organiche ai bisogni di controllo e consumo del sistema capitalistico.
Come succede di solito prima e durante le guerre (e questo è il nostro scenario), il teatro e i fautori dell’arte dal vivo, assaggiano la romantica durezza della lacrima di Pierrot.
L’angoscia del pagliaccio costretto a far ridere. Che non riesce (salvo poche virtuose eccezioni) a mettersi d’accordo con un altro pagliaccio, per fare un piccolo circuito di cooperative capaci di tutelarsi, di condividere servizi, di ottimizzare il magazzino. Perchè ciascuno è unico e irripetibile, e non vuole legarsi al destino di nessun altro.
L’artista è una belva feroce e solitaria. Incapace di pensare in modo imprenditoriale. Delle professionalità dell’imprenditoria l’artista si giovava, certo, e negli ultimi anni sempre più, impigliato nel sistema delle rendicontazioni, dei progetti, dei bandi.
Di questo ciarpame di scartoffie molti fra loro non volevano sentire neanche l’olezzo, persi dietro lo studio di secolari testi sacri e di pratiche più o meno ascetiche. Ma in fondo, non di rado, l’artista guardava e guarda a tutto questo con un sottile disprezzo per le professioni (a mio avviso indispensabili per tutto il sistema dell’arte in un contesto sociale istituzionalizzato) come appunto i distributori, gli uffici stampa, gli organizzatori, ecc.
Da Menenio Agrippa in avanti, o chi lavora e chi dà lavoro riescono a trovare una convivenza sostenibile e un interesse comune superiore da tutelare, mettendo in discussione ricchezze e capacità, e ragionando in modo cooperativo e meno egoistico, o sarà ancora più dura per tutti.
E diciamocelo, non è detto che i tutti che saranno, sono gli stessi tutti che erano. Forse saranno meno. Come meno saranno i ristoranti, le aziende, i negozietti, le botteghe.
Le luci al neon. Il cantiere. La notte. E il cadavere scomparso.