LAURA NOVELLI | Quando leggo qualcosa di suo, mi tornano in mente un paio di occhi scuri luminosi e profondi, capaci di un garbato distacco e insieme di un’empatia sconfinata, di una calma rassicurante e insieme di un bagliore cautamente tormentato. Un po’ come il mare di quell’amatissima Sicilia dove è nata e cresciuta, prima di trasferirsi a Roma per studiare. Ma il legame con la sua isola e con la sua città, Messina, Nadia Terranova, una delle autrici più interessanti della narrativa italiana contemporanea, non lo ha mai spezzato. Anzi, in alcuni dei suoi libri le radici familiari e geografiche diventano voci nitide, consuetudini emotive, luoghi riconoscibili, persino mitologici. Basti pensare all’intenso romanzo Addio fantasmi, pubblicato da Einaudi nel 2018, a tre anni di distanza da Gli anni al contrario (felice esordio nella letteratura per adulti dopo diversi apprezzati libri per i più giovani), e giunto finalista al Premio Strega 2019. La protagonista, Ida, racconta qui un ritorno a casa, un nostos femminile di riappropriazione intima e identitaria che attraversa la memoria – soprattutto la memoria più dolorosa – per farsi atto di rinascita, di crescita ed emancipazione. Anche in Omero è stato qui, opera per ragazzi edita da Bompiani l’anno scorso, la Sicilia, lo stretto, quel mare proteso tra due terre si impongono con vigorosa prepotenza, offrendosi come mappatura diacronica di culture, leggende, avventure, vicende millenarie. Quasi che da lì, esattamente da quell’angolo di mondo privilegiato, si potesse guardare indietro, alla classicità, e in avanti, a chi arriva da lontano, da domani. E Messina farà da emblematico sfondo pure nel suo prossimo romanzo, sul quale è ancora tutto assolutamente top secret.
È però nella capitale che Nadia (mi permetto di chiamarla per nome perché ho la fortuna di conoscerla personalmente) vive e lavora da anni. E proprio alla città eterna ha dedicato una silloge di racconti, Come una storia d’amore (Giulio Perrone Editore), che sarebbe dovuta arrivare in libreria a marzo ma che, a causa dell’emergenza sanitaria, vedrà l’uscita ufficiale il 14 maggio. In questi mesi di quarantena, la Sicilia è rimasta lontana e il Pigneto si è trasformato nella sua nuova “isola”. Lo ha scritto lei stessa in un palpitante articolo uscito su La Repubblica pochi giorni dopo l’emanazione del decreto #iorestoacasa: «L’isola di ciascuno si è rimpicciolita come non pensavamo possibile, ma il sentimento del quartiere è lo stesso». Un sentimento umanissimo, pervaso da una genuina propensione alla solidarietà, alla vicinanza, al bisogno di comunità fraterna. E allora perché non chiamarla? Non sentire la sua voce? Non chiederle di condividere con PAC le sue sensazioni? Iniziando proprio da qui, da quel pezzetto di città «che non perde l’anima e anzi la ingrandisce».
Nelle settimane di distanziamento sociale legate alla cosiddetta Fase 1 delle misure anti Convid, il clima umano del Pigneto è andato via via cambiando rispetto a quanto scrivevi nel tuo corsivo su La Repubblica?
Debbo dire che in tutti questi mesi la solidarietà di quartiere è rimasta intatta. Il fatto di vivere in una zona che somiglia a un borgo è una fortuna. Quando si esce, si incontrano sempre le stesse persone, ci si saluta, ci si aiuta. Ti racconto due aneddoti che mi hanno colpito molto. Qualche giorno fa mi ha fermato un signore molto garbato e in là con gli anni per dirmi che mi vedeva ogni giorno passare con le buste della spesa lungo la stessa strada e che gli sarebbe piaciuto conoscermi. Così gli ho raccontato che sono siciliana e lui si è messo a parlare di sé, dei suoi legami con la Sicilia. La cosa è finita lì ma è come se quell’uomo mi avesse volute dire: “Qua siamo. Non ci possiamo muovere. Tanto vale che andiamo in verticale, che ci conosciamo”. Ho capito quanto questa occasione di stare chiusi in poco non ci debba necessariamente far fuggire da questo poco, ma al contrario ci possa dare la possibilità di esplorarlo.
Il secondo episodio riguarda il negozio dove vado ogni giorno a fare la spesa: c’è una signora che abita sopra la bottega e puntualmente cala il paniere per farlo riempire delle sua provviste. Solo che non sempre avvisa il bottegaio per cui capita spesso che questo paniere arrivi in testa agli altri clienti.
Ecco, questi due quadretti del mio quartiere, senza dubbio sanguigni ma credo riproducibili in tutti i quartieri vivi di Roma come ad esempio Testaccio o Trastevere, ti danno l’idea che le persone hanno ricominciato ad avere un dialogo tutto loro, sotterraneo. La situazione della pandemia è certamente bruttissima, una tragedia immane. Tuttavia, ci sono momenti e risvolti che riempiono il cuore. Non voglio cadere nella retorica delle piccole cose. Penso solo che questa emergenza abbia attivato un bisogno di solidarietà, di esplorazione umana davvero preziosa. Pensa che il bottegaio di cui ho parlato prima ha un figlio piccolo che è rimasto in Toscana con i nonni. Lui e sua moglie non lo vedono da mesi. Sono addolorati ovviamente ma hanno deciso di mandare avanti il negozio, oltre che per necessità economiche, per non abbondare le vecchiette del quartiere. E so che sono sinceri.
Tu personalmente come hai vissuto e stai vivendo questi mesi di isolamento?
Essenzialmente lavorando. Non ho mai smesso, anche perché il mio lavoro non prevede pause retribuite: guadagno quando scrivo. Dunque, per quanto io cerchi di non essere schiava di questo condizionamento, scrivere è la mia professione. Certamente, lo faccio solo quando ho qualcosa da dire e allora, nel momento in cui ho sentito che la situazione dell’epidemia mi stava distraendo dal romanzo cui stavo lavorando, l’ho messo da parte. La mia attenzione era tutta sul Covid e non mi restava che scrivere sul Covid. Mi sono dedicata ad alcuni articoli sul tema; articoli che hanno sì uno sguardo letterario ma che non sono letteratura. Almeno per me, la letteratura ha bisogno di una distanza temporale, di una mediazione, che soprattutto nei primi giorni dell’emergenza sanitaria non avevo. Siamo stati investiti da qualcosa di gigantesco. Quando sei in alto mare, devi nuotare; non hai tempo per fermarti. Motivo per cui ho abbandonato il mio romanzo. Ti dirò di più: come immagino sia capitato ad altri scrittori, sono stata persino attraversata dall’idea, dalla paura, di non riuscire a tornare alla narrativa. Era talmente simile alla fine del mondo ciò che ci stava succedendo che per qualche tempo ho fatto fatica a pensare al futuro. Poi, piano piano, la vena letteraria è tornata e ora sto scrivendo di nuovo.
Puoi anticiparci qualcosa su questo tuo terzo romanzo?
Posso solo dire che uscirà tra parecchio tempo e che si tratta di un progetto molto diverso rispetto ai primi due, lontano dall’intimismo che caratterizza sia Gli anni al contrario sia Addio fantasmi. Ma siccome sono in piena scrittura preferisco non dire nulla di più preciso perché davvero la materia stessa potrebbe variare di giorno in giorno. Invece mi fa piacere dire qualcosa sulla raccolta di racconti che esce il 14 maggio in libreria e che si intitola Come una storia d’amore. Si tratta di dieci racconti al femminile ambientati a Roma. Dieci voci di donne che hanno per sfondo soprattutto la parte est della città, il Pigneto, largo Preneste, il Laurentino, ma anche la zona centrale del ghetto. Ho voluto dedicare un libro alla città dove vivo da quasi vent’anni; è stato quasi un bisogno: la mia scrittura in segno di riconoscenza.
Riconoscenza verso una città complessa e complicata. Quale Roma emerge da queste storie e, soprattutto, che tipo di donne hai raccontato?
Il libro si apre con il racconto di una trans. È un personaggio di fantasia ispirato però alla vicenda di Andrea Olivero, la trans barbaramente uccisa alla stazione Termini nel 2013. Maria viveva alla stazione. Viveva di stenti. Dopo la sua morte, la famiglia non volle neppure salutarla, pagare un funerale. Ricordo che il fatto che nessuno ne riconoscesse le esequie mi colpì moltissimo. La cerimonia funebre fu celebrata diversi giorni dopo la sua morte. Ci andai. Eravamo quattro gatti e sentii un forte senso di ingiustizia e di dolore. Così iniziai a scrivere questo racconto e decisi di ambientarlo proprio qui, al Pigneto.
Poi scrivo di donne che si concedono un’ora di libertà in solitudine, magari entrando in un bar a bere un bicchiere di vino mentre tutti le aspettano per iniziare il cenone di Natale. Una storia delle dieci si muove invece nel ghetto e l’ho scritta pensando a quando frequentavo quel quartiere per studiare l’ebraico perché mi sembrava che nella lingua ebraica ci fosse la felicità. Insomma, è un libro dove metto insieme tanti sguardi di donne, un po’ strane e un po’ organiche rispetto a Roma stessa.
Continuando a parlare di libri, cosa hai letto in questo periodo? Con quali autori hai condiviso le tue giornate?
Quando è iniziata questa brutta storia del Coronavirus, stavo leggendo un romanzo di Valérie Perrin, Cambiare l’acqua ai fiori; una commedia agrodolce con protagonista la guardiana di un cimitero. Dunque, una storia che parlava di prossimità alla morte, anche se in modo lieve e intelligente, che ad un certo punto ho messo da parte. Non ho avuto più voglia di leggerlo perché c’era la morte dappertutto intorno a noi. Poi l’ho ripreso e mi è piaciuto molto. Contemporaneamente mi sono appassionata alle poesie di Audre Lorde, una poetessa e saggista americana, femminista e nera, della quale qualche anno fa è uscita in Italia la splendida raccolta D’amore e di lotta. Ma debbo confessarti che, per affrontare la durezza dei primi giorni, mi sono concessa anche alcuni audiolibri. In particolare, mi piace ascoltarli quando svolgo le faccende di casa. Ho scelto la tetralogia di Elena Ferrante letta da Anna Boniauto e I promessi sposi letti da Paolo Poli. Sono andata sul sicuro, per così dire. Sentivo il bisogno di voci amiche che mi raccontassero storie che conoscevo bene, come qualcuno che mi sapesse riportare a qualcosa di consueto. Qualcuno e qualcosa da cui farmi coccolare un po’.
Rispetto a tutto ciò che abbiamo vissuto o cui abbiamo assistito in questi mesi di epidemia, cosa ti ha colpito di più ?
Sicuramente l’aggressività che ha liberato nelle persone. La paura che ho avuto degli altri esseri umani e dell’istinto alla delazione. Ho notato che le persone, in alcuni casi, si sono progressivamente incattivite contro chi non rispettava le regole o chi non indossava la mascherina. Ovviamente tutti noi notiamo comportamenti scorretti, magari li segnaliamo anche a chi di dovere. Ma ho avuto la sgradevole sensazione che si siano verificate situazioni estreme. Come se uno che non si mette una mascherina potesse causare da solo la pandemia. Credo sia successo perché l’assenza di colpevoli genera sempre la ricerca furiosa del colpevole. Non siamo abituati a pensare che non ci sia un colpevole. Nel caso del Coronavirus il colpevole è il nostro corpo, il mio per primo. Io posso aver avuto il Covid, posso averlo passato a qualcuno senza saperlo e senza mai aver sviluppato una polmonite. In realtà sono io il nemico degli altri. Questa possibilità di percepirsi come asintomatici positivi è, secondo me, l’unica chiave per capire ciò che ci sta succedendo. Invece il messaggio non è passato come avrebbe dovuto, e ciò ha scatenato molta aggressività, semplicemente perché siamo abituati ad avere un nemico da cui difenderci e non siamo abituati, viceversa, ad ammettere che il nemico talvolta siamo noi stessi.
Prima parlavi di Maria Oliviero, la trans morta senza il conforto dei cari. Questo aspetto che riguarda la solitudine nel momento del trapasso e la distanza anche negli addii definitivi credo sia uno dei risvolti più tragici dell’epidemia. Una vera ossessione per molte persone. Cosa ne pensi?
Il tema della sepoltura, variamente declinato, è un tema tipico della classicità. Basti pensare a un’opera come Antigone. Anche per me è un’ossessione. L’impossibilità di salutare un cadavere è una cosa cui penso moltissimo. Così come penso spesso a cosa è un cadavere rispetto alla persona che ho conosciuto da viva. Questa ossessione si è fatta molto forte sia quando ho salutato persone amate che ho visto andare via, sia quando non ho potuto farlo, e quello che è successo a causa del Covid riporta sicuramente ad archetipi propri della tragedia classica. Penso spesso a quanti hanno saputo della scomparsa dei loro cari e non sono potuti andare in ospedale o non hanno potuto celebrare un funerale.
Tempo fa avevo letto un dettaglio che mi aveva dato i brividi: alcuni operatori sanitari raccontavano che dentro gli armadietti dei reparti di rianimazione continuavano a squillare i telefonini dei pazienti molto gravi o deceduti. Ecco, quella notte lì non ho dormito.
Da scrittrice e da donna estremamente sensibile quale sei, pensi che questa pandemia cambierà l’umanità in qualche modo?
L’occasione, più che psicologica ed emotiva è, per me, sociale. Questa tragedia ci sfida a cercare di creare una società in cui gli ultimi non restino così indietro. A dire il vero, mi sembra che siamo tanto lontani da tutto questo. Come facciamo adesso a fare in modo che la gente che ha perso il lavoro non si riversi per strada impazzendo, rapinando, manifestando un disagio che già esiste? Come facciamo a tornare alla normalità se il 25% degli esercizi commerciali, penso soprattutto a parrucchieri ed estetiste, chiuderanno lasciando sul lastrico intere famiglie? Questo è ciò a cui ora dobbiamo guardare. Dobbiamo cercare di utilizzare questo momento per creare una società di eguali dal punto di vista economico. È un’urgenza che non possiamo rimandare.
Questo del lavoro è un tema cruciale, anche pensando alle generazioni future. Tu hai scritto tanto per i ragazzi, vai nelle scuole a parlare di letteratura. I più giovani, secondo te, che cosa si porteranno dentro di questa esperienza così difficile?
Sono sicura che ci sorprenderanno. Come sai, faccio parte dell’associazione Piccoli Maestri fondata da Elena Stancanelli. Si tratta di un’attività del tutto volontaria alla quale però non rinuncerei mai. Vado in giro per la Penisola a incontrare classi di ogni ordine e grado di scuola; racconto ai ragazzi i libri che hanno amato certi scrittori, quelli che amo io. Adesso anche questo lavoro si svolge ovviamente sulla rete ed è ricco di scoperte. Vedo brandelli di case, ragazzi collegati dalle cucine, da stanze in cui ci sono stendini, divani, genitori che compaiono all’improvviso. I più fortunati hanno una stanza tutta per loro e allora mi rendo conto di quanto divario sociale ci sia nel nostro Paese. Tuttavia sono convinta che i giovani stiano mostrando una resistenza fortissima. Un po’ perché sono più abituati alla tecnologia e quindi al dialogo tecnologico, un po’ perché forse sono più pronti a prendere dalla vita quello che capita. Probabilmente non si rendono conto che l’estate dei sedici anni è un’estate fondamentale e che non viverla, non ubriacarsi sulla spiaggia, non fare le strimpellate con gli amici significa perdere qualcosa. Vivono il tempo presente e ciò li rende forti. Motivo per cui mi sembra che dobbiamo noi imparare da loro e non viceversa.
Oltre all’attività con le scuole, immagino che il tuo lavoro legato ai laboratori di scrittura e alle iniziative complementari alla scrittura sia cambiato in questo periodo, come è successo a chiunque abbia iniziato a sperimentare lo smart working. Come ti sei trovata in questa nuova dimensione e quali scenari futuri intravedi, a tal riguardo, per il settore letterario?
Sì, è vero: molte attività che prima facevo dal vivo si sono spostate on line. Passo molte ore davanti al computer. Mi collego sedendomi davanti alla mia libreria. Poi spengo e riprendo a leggere o scrivere. La considero un’opportunità. Un’esplorazione. Senza dubbio per parecchio tempo ci dovremo scordare di stare insieme in una libreria, di prendere un libro da uno scaffale e poi posarlo, di bere e chiacchierare. Cose stupende, che faremo magari tra un anno o quando si potrà; intanto ci adatteremo. Fortunatamente abbiamo tanti strumenti tecnologici che nel 1918, quando esplose l’epidemia di febbre spagnola, non c’erano. E allora penso: abbiamo l’on line, usiamolo! All’inizio si collegheranno in pochi, il divario digitale si sentirà tantissimo ma cercheremo di fare un passo alla volta. Sono convinta che potremo continuare a costruire progetti belli anche da remoto. La cosa più giusta, secondo me, è avere sguardi nuovi. Siamo dentro una sfida nuova e abbiamo l’occasione di sperimentare strade nuove. Ora pensiamo a vivere così e facciamone tesoro e quando torneremo alla nostra vita di sempre, ci ritroveremo tra le mani anche questa possibilità, l’avremo esplorata e potremo riutilizzarla al meglio.
Senza nulla togliere alla drammaticità del momento, si avverte un’energia positiva nelle tue risposte. E allora, per chiudere, cosa imparare di costruttivo da questo tempo?
Io direi che mai come oggi bisogna che il nostro orizzonte sia vicinissimo. Bisogna gettare lo sguardo in profondità, come si fa quando si guarda alla fine del mare, ma essere consapevoli che quell’orizzonte è le sei di pomeriggio, l’indomani mattina, perché fare programmi a lunga scadenza rischia di essere frustante. Dovremo imparare a mettere tutta la nostra profondità in ogni singola giornata: qualcosa accadrà. Io sono una pianificatrice e per me è stato molto difficile questo cambio di prospettiva ma ora me lo tengo stretto perché mi è utile. Personalmente credo che questa esperienza abbia rafforzato in me il senso di resistenza. Ho dovuto schierare in campo più forza che fragilità, come presumo sia capitato a tanti di noi.