ANTONIO CRETELLA | Sulla protesta montante a Minneapolis dopo la morte di George Floyd durante il suo arresto politici americani e nostrani si sono affrettati a spendere parole di condanna quasi più vibranti di quelle di cordoglio per la sorte dell’uomo: “non si risponde alla violenza con la violenza”, “non è una protesta, è un atto criminale”, lo stesso presidente Trump twitta senza troppi giri di parole “where looting starts, shooting starts”, adombrando l’uso della violenza armata per contenere i disordini in modo così patente da ricevere la censura della piattaforma social per incitazione alla violenza. Eppure gli statunitensi dovrebbero comprendere bene il meccanismo della protesta, giacché l’atto di nascita degli USA è segnato da un atto di “rioting” non molto dissimile. Nella seconda metà del ‘700, i rapporti tra l’Inghilterra e le sue colonie americane erano molto tesi: la madrepatria sfruttava le colonie imponendo tasse e regole commerciali stringenti, ma al contempo non esisteva una rappresentanza politica che curasse gli interessi dei coloni. “No taxation without representation” era infatti lo slogan di questi ultimi. Non ottenendo nulla dalla madrepatria, nel dicembre del 1773 i coloni distrussero un intero carico di tè destinato all’Inghilterra in quello che viene ricordato come il Boston Tea Party, primissimo atto della rivoluzione che portò alla guerra di indipendenza. Sperare che il sistema si autoriformasse non portò a nulla. Viene dunque da chiedersi: come può una minoranza oppressa che non ha una rappresentanza politica forte né mezzi di pressione sull’opinione pubblica sperare di farsi sentire in un paese dove il suprematismo bianco e il razzismo sono considerati varianti accettabili del pensiero e possiedono enormi mezzi di propaganda?
Sembrano, questi novelli garanti della sicurezza pubblica, ignorare il paradigma storico per il quale le grandi conquiste di diritti sono state frutto di ribellioni e che oggi non avremmo la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo senza la presa della Bastiglia. Non si può mettere sullo stesso piano la violenza dell’oppressore e quella dell’oppresso: è l’errore, spesso malignamente ricercato, che si commette nell’equiparazione tra lager e foibe, tra partigiani e repubblichini, un errore alimentato dallo scandalo per il singolo evento che nasconde la quotidiana e silenziosa oppressione che non fa notizia e che cerca di convincerci che lasciare annegare in mare degli esseri umani sia meno grave dell’attentato al decoro pubblico rappresentato da chi chiede la carità all’angolo della strada.