MATTEO BRIGHENTI | Le parole sono il nostro segno più importante, sono il modo con cui condividiamo il pensiero e costruiamo la vita in società. Al pari di un vestito, ci permettono di presentarci, di riconoscerci, di muoverci e di interagire al meglio. «Non uno solo, ma un armadio di vestiti – precisa il Professor Claudio Marazzini – la lingua è come un grande magazzino di costumi teatrali: a seconda di quello che voglio fare, vado a scegliere».
Sulle scelte fatte in tempo di Coronavirus è netto il linguista torinese classe ’49, eletto nel 2014 Presidente dell’Accademia della Crusca, da più di 400 anni l’istituzione di riferimento della lingua italiana (il nome si riferisce proprio al lavoro di ripulitura della lingua). «Assistiamo – scandisce – al nostro solito punto di debolezza: una valanga di forestierismi. Non è una bolla a sé stante, ma qualche cosa che riproduce per l’occasione un fenomeno già ampiamente presente. Anche se magari in questo periodo è in forma più concentrata, perché c’è un’emergenza di particolare intensità».
Marazzini è autore di circa 200 pubblicazioni su temi, tra gli altri, di storia della lingua italiana, della questione della lingua, di storia linguistica regionale, dei rapporti lingua-dialetto. All’interno della Crusca fa parte del gruppo Incipit, che ha lo scopo di monitorare ed esprimersi sui neologismi e sui forestierismi di nuovo arrivo, prima che prendano piede. Ascoltandolo, si capisce che distanziamento sociale, lockdown, droplet, Covid hospital, non sono soltanto una questione di salute pubblica, ma anche di identità nazionale. E che bisogna comunque essere tolleranti verso chi la lotta alla Covid-19 la chiama, semplicemente, guerra.
L’aggettivo riconosciuto per il tempo che viviamo, come ripeto sempre all’inizio di queste nostre interviste, è sospeso. Lei che significato gli dà?
Io non lo uso, confesso che non l’ho nemmeno mai sentito. Forse, si vuole indicare che siamo sospesi verso l’ignoto. Non mi sembra tuttavia il termine più significativo per descrivere quello che è accaduto. Più che sospeso, direi interrotto, dal momento che si sono fermate le attività ordinarie. Se per sospeso si intende interrotto ci si può avvicinare a una descrizione appropriata.
Per molti rimane un tempo sottratto.
Sottratto rischia di essere un aggettivo equivoco. Può avere il senso che gli dava, per esempio, il filosofo Giorgio Agamben, come se ci fosse stato rubato da un complotto sociale. Oppure, è stato sottratto dalla malattia e quindi non è colpa di nessuno. Bisogna poi vedere quali responsabilità si vogliono attribuire ai decreti del Presidente del Consiglio dei ministri che, effettivamente, toglievano alcune libertà, e valutare se erano motivati o non motivati. Non è stato nemmeno sottratto a tutti nello stesso modo. Qualcuno ha intensificato lungamente la sua attività, pensi al personale medico e paramedico, qualcun altro l’ha modificata: chi fa il lavoro agile ha sperimentato forme di impiego nuove. Lavoratori come i ristoratori o gli addetti al turismo, invece, non hanno avuto alternative al fermarsi. Come al solito, davanti agli eventi si crea una varietà di situazioni diverse.
Le parole che usiamo sono ricche abbastanza per descrivere gli eventi di oggi?
L’espressione distanziamento sociale l’ho trovata estremamente infelice. Devo di nuovo citare Agamben: lui vedeva nel distanziamento sociale il crollo dell’assetto della società. Certo, se uso distanziamento sociale, do l’idea che si debba disgregare la società. Se dico distanziamento personale oppure interpersonale, sto usando un termine più realistico per seguire un calco sull’inglese social distancing. Non è così visibile, perché una volta tanto l’ordine dei componenti è quello italiano, cioè non diciamo sociale distanziamento, ma distanziamento sociale. Ecco, se lei chiede a Google – Google, uno strumento non italiano – come si traduce social distancing la risposta è riduzione dei contatti. È il colmo. Google è addirittura più “cruscante” degli italiani, perché riesce a trovare una traduzione molto più densa di significato di questo stupido distanziamento sociale, che è stato irrefrenabile. Non è che adesso si pensa di correggerlo. È una prova di cosa succede quando si è appiccicati ai modelli. Lo stesso discorso vale per lockdown.
Qual è la sua origine?
Non è un vocabolo inglese, l’Oxford English Dictionary lo dà per americano. Nasce negli anni Ottanta, nel linguaggio carcerario. È riferito alle conseguenze delle rivolte in carcere, quando i detenuti vengono chiusi nelle celle e non possono più circolare nei corridoi o avere l’ora d’aria. Si diffonde in America nei casi di emergenza nelle università e nelle scuole, quando ci sono le sparatorie, quindi sempre nell’ambito giudiziario-carcerario. È ancora affare di avvocati. Poi, nel 2012, quando scoppia la Sars, i giornali americani lo utilizzano per parlare degli ospedali in Oriente. Quando è venuta questa pandemia ce lo siamo trovati servito su un piatto d’argento. La cosa curiosa è che i francesi e gli spagnoli non ne hanno avuto bisogno, senza l’intervento esterno di qualcuno che glielo vietasse. Noi abbiamo abbracciato lockdown e delockdown o peggio ancora post lockdown, loro sono andati dritti su dei termini nazionali e hanno usato confinement e déconfinement, confinamiento e deconfinamiento. Infatti, se lei va a leggere i giornali francesi e spagnoli, le occorrenze statistiche di lockdown sono scarsissime. Da noi, invece, sono la totalità; per le alternative, come confinamento, chiusura, serrata, tra l’altro, c’è stata anche una concorrenza che le ha ulteriormente indebolite. Qui non è questione di effetti negativi su un piano sociale, si tratta semplicemente dell’ennesima dimostrazione che gli italiani sono più disponibili al forestierismo rispetto agli altri popoli.
La nostra esterofilia, contrapposta all’autarchia linguistica dei francesi e degli spagnoli, serve a ottenere un maggiore riconoscimento internazionale?
L’esterofilia nell’aspirazione di alcuni sarà così, io, dal punto di vista dell’Accademia della Crusca, la vedo come una minore fiducia nella propria lingua nazionale. C’è un’infinità di casi in cui si è confermata la disponibilità degli italiani al forestierismo. Si può anche intenderla come una superiorità culturale, ma i francesi, per dire, non la pensano in questo modo, e tutto sommato il loro prestigio nella politica europea è maggiore del nostro. Il confinement non è frutto di una politica autarchica, l’Académie française non ha detto ai francesi quale parola dovevano usare. È stata una reazione naturale per loro, che hanno una normale fiducia nella propria lingua, mentre da noi c’è stata una valanga di termini stranieri, come droplet, Covid hospital oppure smart working, inventato tra l’altro da un italiano (è noto che nei paesi anglosassoni non lo chiamano così).
Oltre alla sfiducia nella lingua italiana, c’è sfiducia anche nei confronti dei cittadini che la parlano? Termini come lockdown vengono usati per non far capire fino in fondo ciò che sta avvenendo? Per “indorare” le scelte politiche?
Nel caso del ricorso a data breach da parte dell’INPS al posto di ‘violazione dei dati personali’, contro cui si è pronunciata la Crusca, si può invocare l’oscurità. Il pubblico che frequenta quel sito è vasto, variegato e non necessariamente a conoscenza di simili tecnicismi. Il significato di lockdown l’abbiamo capito in fretta e, per giunta, a nostre spese. È il classico caso in cui, se si può, si deve lasciare da parte la nostra lingua.
Lo facciamo per pigrizia lessicale? Per superficialità?
È un atteggiamento. Gli italiani non hanno la fierezza della propria lingua. Non hanno quella confidenza, quella fiducia che è di altri popoli. È significativo che la Costituzione italiana non menzioni mai la lingua nazionale. Non è obbligatorio, però alcuni lo fanno: in Europa i francesi la citano nello stesso articolo in cui si parla della bandiera. Evidentemente per loro è un simbolo importante. Anche gli spagnoli e i portoghesi la ricordano. Nel caso dei portoghesi la includono addirittura tra i compiti della nazione. Si dà poi il fatto che una Costituzione ignori la lingua nazionale perché una lingua fortissima non ha bisogno di essere menzionata. L’inglese, per esempio, non è ricordato dalle costituzioni né britannica, né americana. Il caso britannico è un po’ particolare, però, la Costituzione degli americani esiste e non parla della lingua nazionale.
Il nostro è un problema di coscienza e di identità nazionale?
Certo, è naturale.
Eppure, abbiamo inventato il latino e dato i natali a poeti come Dante Alighieri o Francesco Petrarca, il cui verso il più bel fior ne coglie è stato assunto come motto dalla Crusca. È una storia secolare quella alle nostre spalle.
È una tradizione culturale di livello altissimo, ma sempre di natura aristocratica e che ha avuto molta difficoltà a coniugarsi con il sentimento generale del popolo. Ciò è avvenuto tardi, la nazione politica è venuta tardi, la scolarizzazione è stata lenta e difficoltosa, diciamo che comincia con l’Italia unita e si accresce in maniera significativa con la Repubblica. Il quadro culturale è quello che viene disegnato dal linguista Tullio De Mauro nei suoi libri, dalla Storia linguistica dell’Italia unita alla Storia linguistica dell’Italia repubblicana. Ovviamente, De Mauro non porta il discorso sui forestierismi, perché ritiene che non sia bene assumere posizioni che possono essere definite puristiche, da un certo punto di vista.
C’è un termine, comunque, che non possiamo non usare: Covid-19.
Si tratta di un nome creato artificialmente dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) con lo scopo preciso di avere un vocabolo comprensibile, internazionale e che non creasse uno stigma, ovvero un’offesa, un marchio che colpisse qualcuno. Si è voluto evitare che il nome della malattia venisse da un etnico, come accadde per le epidemie di spagnola o di cinese, oppure che indicasse un luogo geografico di provenienza, come nel caso di malattia di Wuhan. Quindi Covid-19 si giustifica perfettamente. Statisticamente molti, però, continuano a chiamarlo Coronavirus, confondendo il virus con la malattia.
Quindi è la Covid-19, al femminile?
Gli italiani, ho notato, usano il maschile, io stesso devo frenarmi e correggermi, perché altrimenti lo userei come tutti gli altri. È un acronomico creato sull’inglese: desease lo possiamo tradurre al femminile come malattia, ma anche al maschile come morbo. Inoltre, i termini inglesi molte volte, non avendo un genere preciso, vengono interpretati come maschili. Non è un errore quindi dire il Covid-19. Anzi, se la lingua deve rispondere all’uso, l’uso prevalente è al maschile. Dal canto suo, l’Académie française si è impuntata, invece, sul genere femminile: c’è una sua raccomandazione specifica che insiste su questo. In questi giorni si è discusso anche, più o meno seriamente, su quanto dura in realtà la quarantena oppure sul termine positivo, che secondo alcuni ha acquisito un valore negativo. È una stupidaggine, perché anche prima essere positivo al virus dell’Aids aveva un valore negativo, non è una novità.
Sia Covid-19 che Coronavirus c’è chi li scrive con la maiuscola, come noi, e chi, al contrario, con la minuscola. Qual è l’uso corretto?
Il nome comune di un virus o di una malattia può essere senz’altro minuscolo, non è un nome proprio di persona. Con gli acronimi c’è anche la tendenza a renderli tutti maiuscoli, perché ricordano le sigle dell’industria, come FIAT. Probabilmente, ora usiamo pure una grafia di rispetto: in questo momento fa talmente paura, è talmente protagonista della cronaca, che tendiamo a mettere la maiuscola, soprattutto in Covid-19. Coronavirus mi pare sia spesso minuscolo, anche perché non è altrettanto codificato. L’OMS ha reso canonico il nome della malattia e, come nome del virus, Sars-Cov-2. Il Covid-19 assume dunque un carattere speciale, è il nemico, per chi non rifiuta l’equiparazione tra la lotta alla malattia e l’epopea bellica.
È una pandemia, però, non è una guerra.
Sicuramente sì, ma è anche vero che pandemia non è una parola che piace molto agli italiani. È molto oscura, quell’etimo greco non la rende popolare.
Dire che siamo in guerra è più semplice? Più immediato?
Intellettuali anche prestigiosi contestano l’uso delle metafore belliche, sostengono che sono una mancanza di fantasia. Probabilmente è vero. Però, se si intende mobilitare la gente, sensibilizzarla nel modo più diretto e più rapido, perché c’è l’urgenza di lanciare un messaggio, di convincere la gente a stare in casa, a non muoversi, a fare delle rinunce, è evidente che si ricorra al linguaggio bellico. Certo, non è né profondo né sofisticato, sono pienamente d’accordo che una pandemia non è una guerra o lo è in modo molto lato, molto metaforico. D’altra parte, bisogna anche accettare tali semplificazioni del linguaggio; l’ambizione a un linguaggio sempre perfetto e controllato è un mito intellettualistico. Ecco, può riguardare alcune élite, ma non può diffondersi in maniera generalizzata. Ci vuole tolleranza nei confronti di chi usa termini diretti e più facili.
Un’altra obiezione alle metafore belliche è quella di chi sostiene che non siamo soldati, ma siamo cittadini, e che non siamo obbedienti, ma siamo consapevoli.
E ancora, c’è chi afferma che non è vero che c’è qualcuno in prima linea, perché siamo tutti in prima linea. Può darsi che sia così, però probabilmente quelli che stanno al pronto soccorso a fare il triage (non è un termine inglese, ma francese, una volta tanto), sono più esposti. Quindi, non so se siamo proprio tutti uguali: pure questo è da meditare seriamente.
Si è detto che la patria non c’entra nulla, ma che siamo solidali.
Ho sentito lo storico Alessandro Barbero paragonare lo sforzo dell’umanità a quei film di fantascienza in cui arrivano gli alieni e tutta l’umanità li combatte. Una guerra può essere indipendente dai confini nazionali, può essere un conflitto di tutto il mondo contro un ente ignoto ed esterno che arriva improvvisamente. Tra l’altro, la lotta contro il virus è una guerra sicuramente giusta. Siamo tutti dalla stessa parte noi uomini a rischio di malattia. Perciò, è ancora più semplice utilizzare il linguaggio bellico.
Altrettanto diretti sono i nomi dati ai famigerati decreti: Io resto a casa,Cura Italia, Liquidità, Rilancio. Però, se si vanno a leggere i testi, si trova una lingua che è incomprensibile ai più.
I titoli dotati di una capacità impressiva non sono una novità di questo governo. Mi vengono in mente Mario Monti con il Salva Italia e Matteo Renzi con il Jobs Act. Non sono nomi ufficiali, in Gazzetta generalmente non si chiamano davvero così, hanno un misero numero e una data che li identificano. È chiaro che il titolo è la carta di presentazione, la lettura del testo completo è riservata agli specialisti. Il governo, lo so per certo, anche per consulenze che furono chieste alla Crusca (non nel pieno dell’emergenza, ma prima), nelle intenzioni è molto attento alla trasparenza del linguaggio delle leggi. Teniamo presente che sono elaborati complicati, scritti con grande rapidità e, come accade sempre, a più mani, con interventi magari polemici delle diverse parti politiche. Un tale esercizio di scrittura conosce dei momenti di crisi, delle cadute, è inevitabile. Si capisce che le leggi dovrebbero essere ben scritte, trasparenti, ma non è sempre facile.
Nel corso della pandemia c’è stato il famoso passaggio attraverso i congiunti, una parola non difficile, di per sé, ma nel momento in cui creo la possibilità di un contenzioso tra me e un operatore della polizia che deve stabilire che cos’è un congiunto, è evidente che le cose si complicano. Tanto è vero che nelle domande più frequenti il Ministero ha poi precisato, in maniera molto dettagliata, che cosa si doveva intendere per congiunto. Nella prima stesura, quando mi si chiedevano lumi, la mia risposta era sempre: vedrete che lo chiariranno.
Perché usare un termine che poi deve essere spiegato in un secondo momento?
Probabilmente perché era una situazione di incertezza. In un primo momento si è ricorsi a un termine che sembrava chiaro, ma in realtà lasciava un margine di dubbio, che alla fine si è stati costretti a precisare. L’unica definizione di congiunto sta nel Codice penale, in un articolo relativo, peraltro, al terrorismo. Poi, hanno dovuto affidarsi a delle sentenze, a un insieme di norme giuridiche differenti: il normale cittadino però non va a sfogliarsi dei faldoni per sapere cos’è un congiunto. Il passaggio dalla lingua comune alla lingua giuridica è sempre delicato ed è uno dei motivi per cui a volte diventa oscuro e oggetto di contenzioso. Quando si litiga, si comincia ad andare a fondo delle parole e tutto diventa più complicato.
Perciò, la mediazione linguistica è il precipitato della contrattazione politica?
In questo caso più che di contrattazione politica si è trattato di un confronto tra la classe politica e il Comitato tecnico-scientifico, che tendeva visibilmente a frenare, laddove il politico era invece più sensibile alle esigenze della gente che aveva voglia di uscire finalmente di casa. C’è inoltre il problema proprio dello strumento Dpcm attraverso cui la libertà è stata limitata, seppure all’interno di uno stato di emergenza dichiarato con Decreto-legge (tra gli altri, su questo è intervenuto anche il giudice emerito della Corte costituzionale Sabino Cassese). La politica sapeva di avere utilizzato il Dpcm fino all’estremo limite; gli scienziati facevano la loro parte ed erano più rigidi, perché sapevano o ritenevano di sapere che la pandemia si sarebbe fermata limitando i contatti il più possibile. Il tema si pone a livello costituzionale: anch’io mi sono interrogato sul peso delle libertà personali, di movimento, di riunione, all’interno della Costituzione. Con sorpresa ho visto che la nostra Carta fondamentale pone come valore assoluto sopra tutto il resto il diritto alla salute. Questo è stato detto anche tra coloro che dibattevano il problema delle libertà nel periodo, appunto, di questa restrizione delle libertà medesime. Mi sono chiesto come mai i costituenti, che scrivevano dopo la guerra, dopo la dittatura, fossero stati così sensibili al tema del diritto alla salute. Ci si sarebbe aspettati che la loro sensibilità in quel momento fosse stata più forte per il diritto alla libertà, ponendolo al di sopra di tutto. E invece no. Ciò mi ha colpito molto e mi viene voglia, ora che ci ripenso, di andare a leggere gli atti dell’Assemblea Costituente per vedere in che modo è emerso questo valore primario del diritto alla salute. È sempre interessante andare a vedere il peso che i costituenti hanno dato alle parole nella stesura del testo costituzionale.
Prevede conseguenze di lungo periodo sull’uso della lingua?
I linguisti, come lei sa, non si occupano soltanto della lingua in quanto tale, come sistema grammaticale, ma anche di tutta quella che è l’azione che si muove attorno a essa, come la gestualità, l’altezza del tono di voce, la distanza dei parlanti, che sono diverse nei diversi popoli. I finlandesi, per esempio, usano un tono più basso e parlano stando a una distanza maggiore. Noi italiani, al contrario, abbiamo sempre avuto, come i popoli latini in genere, entusiasmo nell’atto linguistico, per cui parliamo ad alta voce. I finlandesi in Italia sentono gli italiani che parlano e credono che litighino, quando invece stanno conversando tranquillamente, perché il tono che noi usiamo nella conversazione ordinaria in Finlandia sarebbe già l’inizio di una lite.
Con il distanziamento interpersonale certi gesti non si fanno più, come dare la mano, che è un saluto antico, medievale, con un alto valore simbolico. Per quanto tempo non ci daremo la mano? Tanto da perdere l’abitudine? Sul piano della lingua probabilmente non succederà niente, mentre sul piano di questi elementi di prossemica mi chiedo se ci saranno delle conseguenze durature. Sarebbe molto spiacevole, perché perderemmo dei caratteri che sono tipici della nostra comunicazione. Tutto dipende da quanto dureranno le precauzioni che dobbiamo prendere.
Parlare con la mascherina ci avvicina ai finlandesi: il tono si abbassa.
Ma non solo. Se strillo, se parlo all’italiana, facilmente sputacchio e quindi le goccioline volano più lontane. Perciò, bisognerà parlare comunque a voce più bassa.
In definitiva, le parole vanno usate bene, perché dimostrano quello che siamo?
Sì, ma il bene può essere relativo, perché, se ritorniamo al linguaggio bellico, qualcuno può ritenerlo ingiustificato e qualcun altro lo può giustificare. Non si può erigere un muro e mettere da una parte la ragione e dall’altra parte il torto. La lingua è sempre soggetta a una variabilità che dipende dalle idee, dalle preferenze, dalle attese delle persone.
La lingua è neutrale, è l’uso che non lo è?
La lingua è, diciamo, disponibile a tutto. Poi, la posso spingere dove voglio, facendo però delle scelte. Chiaramente, non tutti la sanno usare allo stesso modo: c’è chi sceglie con competenza e chi, invece, ha poca capacità di scelta. È un problema serio. Per questo, studiosi come il già citato Tullio De Mauro oppure don Lorenzo Milani hanno insistito sulla necessità di diffondere un uso cosciente della lingua, che si accompagna a un raggiungimento di livelli culturali soddisfacenti per tutti.