GIAMBATTISTA MARCHETTO | «Da un punto di vista emotivo, la musica è forse la più surreale e onirica fra le arti perché, pur essendo un fenomeno fisico, è invisibile all’occhio umano, il che la rende una sorta di magia». Ecco svelato il segreto di una fascinazione e anche il senso di quell’esperienza live che tocca tutte le arti performative, rendendo lo streaming o il virtuale un surrogato limitante e limitato.
Parte dall’esperienza meccanica della vibrazione sonora, dell’onda d’urto la riflessione che Dario Bracaloni e Guglielmo Torelli – i componenti del duo pop fiorentino Aquarama – appoggiano sul contemporaneo. Il loro ultimo album Teleskop, uscito a gennaio di quest’anno, si proponeva di «compiere un viaggio a distanza tra ossessioni, paure e speranze del mondo di oggi», ma anche di ricercare nel passato «ricordi grandiosi da catturare e riportare alla luce per affrontare le sfide del presente». In questo presente, turbato dal lockdown e dal senso di precaria solitudine, aprire un dialogo sulle frequenze della musica può suggerire spunti intriganti.
A partire da quelle inquietudini così attuali nei testi di The house is burning, che tradotte suonano così: «Fratello. Sembra che ovunque ci sia qualcuno a cui credere. Dormendo, la ragione lasciò il posto ai nostri equivoci. Allora dimmi perché altri pensano che vada bene. (…) Incantati sugli schermi, la casa brucia. Sai dove andare? Non credere agli eroi, il futuro è oscuro, su dimmi fratello: Stai con me!».
Dario e Guglielmo, come avete trascorso il tempo in questo periodo di chiusura/reclusione?
Studiando: non capita spesso di avere tutto questo tempo libero senza impegni e lo studio ha bisogno proprio di questo. Ci siamo dedicati a imparare a suonare nuovi strumenti e a perfezionare quelli già conosciuti, abbiamo ripassato teoria musicale e armonia, oltre a esplorare nuovi metodi di produzione musicale. Ma abbiamo anche guardato decine di film, dormito e cucinato, che sono tutte attività necessarie alla creatività.
Come avete reagito all’avvento del virus?
Inizialmente con scetticismo: eravamo in tour tra la Francia e il Nord Italia e stavamo ancora suonando, mentre pian piano il panico si diffondeva. Poi, appena è arrivato il lockdown, abbiamo subito capito che tutto il nostro settore si sarebbe fermato a lungo. Lo shock dovuto all’improvvisa clausura è stato forte e c’è voluto un po’ prima di abituarcisi – se mai ci siamo veramente riusciti –, ma forte sono state anche la delusione e l’amarezza nel veder saltare tanti concerti, frutto di un lungo lavoro di preparazione iniziato più di un anno fa. Per non fermarci abbiamo provato a trovare nuovi modi di suonare insieme, come riarrangiare nostri brani o suonare cover di altri artisti su strumenti nuovi, grazie anche all’elettronica e alle tecnologie di condivisione.
Qual è il rapporto tra virtualizzazione della relazione con il suono e corporeità dell’interazione musicale dal vivo?
Frustrante. Ahimè, lo stato attuale della tecnologia non permette ancora di suonare a distanza senza latenza. In realtà meglio così, la musica è vibrazione che attraversa meccanicamente il corpo generando reazioni emotive molto potenti e ha bisogno dello stare insieme per rendere al suo massimo: tutti i musicisti devono sentire la stessa pulsazione appoggiandosi l’uno all’altro. Le tecnologie della comunicazione via web sono perlopiù asincrone e questo, unito alla finitezza della velocità della luce che modula un segnale acustico e alla latenza dei convertitori analogico digitali, non permette sulle grandi distanze di suonare in istanti sincronici, mettendo così in crisi grande parte della musica di insieme possibile oggi.
Perché il live non è sostituibile con il virtuale?
Perché il virtuale per adesso non è un’esperienza nuova, diversa o aumentata, ma una simulazione impoverita della realtà. Mancano il sincronismo e la bidirezionalità del ciclo di interazione tra l’artista e il pubblico, ovvero l’emozione del musicista che si traduce in movimento, trasmesso sotto forma di energia meccanica che comprime l’aria in frequenze. Le frequenze raggiungono gli orecchi dell’ascoltatore, il quale si emoziona a sua volta e ritrasmette il suo stato d’animo all’artista attraverso il movimento del corpo o con un più semplice sorriso. Da un punto di vista emotivo, la musica è forse la più surreale e onirica fra le arti, perché pur essendo un fenomeno fisico è invisibile all’occhio umano, il che la rende una sorta di magia. Un concerto dal vivo è emozionante proprio perché è come assistere a una magia in tempo reale: più la magia è autentica e diretta più è potente, ma se il messaggio musicale è mediato da una riproduzione – come quella virtuale – la magia è più debole e finisce per privarsi di gran parte dei suoi significanti, si riduce a una mera rappresentazione.
Del resto, le espressioni “dal vivo” e “virtuale” sono praticamente antitetiche: ha senso un concerto – o uno spettacolo teatrale – senza le reazioni del pubblico? Hanno senso questo tipo di esperienze se mediate da uno schermo? Un concerto in DVD non è come un concerto live perché lo si osserva dall’esterno, in terza persona, al massimo si può attivare il meccanismo dei neuroni specchio, ma rimane una simulazione. Un live stream su Facebook forse è più simile a un vero live, ma 100 emoji del pubblico non valgono il sorriso e il sudore di un solo fan nel buio della sala.
#iorestoacasa ovvero sovrabbondanza di tempo… la musica può riempire il silenzio?
Per dirla con Cage, la musica è anche silenzio. Ma a noi piace pensare che la musica possa soprattutto riempirlo o, se non altro, plasmarlo in qualcosa di piacevole e significativo. Senza nulla togliere al silenzio, che è un elemento fondamentale per creare dinamica nella musica, alla base del ritmo come il vuoto sta alla base dello spazio.
Ne usciremo migliori? Ne usciremo peggiori? Non cambia nulla?
Da un punto di vista sociale forse è troppo presto per dirlo e queste ultime settimane ne sono la dimostrazione: i pensieri e le posizioni sono ancora e sempre più polarizzate, sia sui temi squisitamente medico-sanitari che su quelli politici e civili. Sicuramente questa esperienza ha dato a ciascuno di noi tanti spunti di riflessione, anche profonda, e la speranza è quella di uscirne migliori come comunità e società di persone, ma i dubbi che ciò accada sono molti. I recenti fatti sociali purtroppo non lasciano ben sperare. La forbice tra chi ha un atteggiamento positivo e chi si è incattivito sembra essersi allargata e la tensione sociale è aumentata. La tensione sociale può portare al cambiamento, ma si deve stare in allerta perché questo non avvenga in negativo.
Nello specifico, per noi musicisti e per tutti gli operatori dello spettacolo si è resa palese, in modo drammatico, la necessità di unirsi in una comunità di lavoratori strutturata e omnicomprensiva, per avere voce in capitolo ed essere più riconosciuti come professionisti. Il mondo dello spettacolo resta purtroppo una selva, dove troppo spesso ci si muove ai limiti della legalità e dove, amaramente, si rischia di abbruttirsi abituandosi a questa zona grigia. È una condizione che deve finire.
Quale peso ha avuto e sta avendo sulla cultura e sulle comunità?
Anche in questo caso forse è presto per esprimersi, soprattutto perché l’intera situazione è ancora lontana dall’essere risolta. Ora come ora, il timore di ritrovarsi in una società germofobica e agorafobica è consistente. La cultura sembra quanto mai impoverita e le comunità sembrano correre il rischio di dividersi in compartimenti stagni.
Tutto questo spaventa, dato che avrebbe imprevedibili ripercussioni sulle arti performative e sui luoghi in cui esse normalmente si tengono. La recente semi-riapertura ha però dimostrato che, oltre ogni paranoia, abbiamo tanta voglia di uscire e di stare insieme e questo è un fatto positivo. Importantissimo sarà vedere con quale sensibilità le istituzioni decideranno di gestire le successive fasi di riapertura. I primi segnali non sono incoraggianti, ma ci auguriamo sia ancora presto per giudicare…
Molto del vostro/nostro mondo di relazioni è basato sulla condivisione di “finzioni” riconosciute. Come impatta tutto questo sulla produzione culturale?
La produzione artistica si basa su codici tramite i quali l’artista decide di esprimersi e grazie ai quali il pubblico può riconoscere un lavoro e rapportarcisi, esercitando quindi il proprio gusto. Un artista può prendere uno di questi codici e romperlo, sovvertirlo, creandone uno nuovo, oppure può portarlo alle sue estreme conseguenze o ancora cercare di esprimerlo nel modo più raffinato e accurato possibile. Più la fruizione dell’arte si massifica e si virtualizza sminuendo il proprio valore esperienziale – con speciale riferimento alla musica – più la produzione ricorrerà a codici seriali, già assodati, sfruttandoli al massimo, come in una logica di produzione industriale.
Il virus è pop? È rock? È ethnic?
Dal punto di vista della diffusione il virus è naturalmente pop, ma dal punto di vista dei risvolti sociali è senz’altro trap.
Con Teleskop avete compiuto un viaggio tra ossessioni, paure e speranze del mondo pre-Covid. Quanto sono cambiate?
In parte si sono acuite. La quarantena ci ha legati ancora più saldamente a una tecnologia da cui già dipendevamo e questo decennio si apre nel segno della pandemia, lasciandosi alle spalle quello precedente, iniziato con la crisi economica.
Nel frattempo le libertà personali sono state pesantemente limitate e in diversi Paesi la paura per la diffusione del virus è stata utilizzata come scusa per accentrare e rafforzare il potere politico. Anche le notizie che arrivano in queste ore dall’America ci mostrano con cruda violenza una società in piena crisi di nervi, con un capo di Stato che si preoccupa di garantirsi la possibilità di continuare a fare propaganda sui social. Molto di quello che abbiamo tradotto in musica purtroppo sembra trovare una viva conferma.
Quali codici si ripropongono rispetto alle crisi del passato? Cosa è cambiato definitivamente?
Fortunatamente, per l’età che abbiamo, questa è la prima grande crisi globale cui ci tocca assistere. Rispetto a ciò che abbiamo studiato sui libri di storia, è preoccupante constatare che il potere si comporta più o meno nello stesso modo, affrontando la paura e la paranoia della società civile con il controllo. Da un punto di vista sociale invece, in tempi difficili il male e la stupidità sembrano rafforzarsi come sempre. Ciò che cambia sono i media: diversi e più complessi.
Ricostruire una comunità. È questo uno dei percorsi per la produzione culturale del futuro?
Comunità e produzione culturale sono strettamente connesse: l’arte deve avere un ruolo primario nella ricostruzione di una comunità, ma anche la comunità deve avere il desiderio di ricostituire se stessa attorno all’arte. Ci piacerebbe che la cultura fosse il collante in grado di tenerci tutti uniti di fronte all’individualismo e al capitalismo scellerato, ma anche al razzismo serpeggiante, alla stupidità fondamentalista dei complottisti e ai tecnodeliri di sorveglianza. Dobbiamo affrontare a viso aperto una crisi ancora peggiore della presente, che ci inghiottirà tutti quanti, con cambiamenti climatici che esaspereranno condizioni di vita rese già difficili da un’economia danneggiata. L’unica speranza è essere uniti: un corpo unico, complesso e pensante.
@gbmarchetto
(foto Andrea Cocco)