ANTONIO CRETELLA | Sulle pagine del Corriere, intervenendo sulla spinosa questione dei monumenti divelti negli Stati Uniti e in Gran Bretagna durante le proteste antirazziste scatenate dalla morte di George Floyd, Beppe Severgnini ha dedicato una sorta di memoria difensiva a Indro Montanelli, il cui contestato monumento, già in passato sottoposto a una gettata di pittura rosa in nome dei diritti delle donne, si candida a essere oggetto privilegiato di un’eventuale furia iconoclasta nostrana per la nota vicenda del matrimonio con una sposa bambina negli anni del colonialismo italiano in Africa. Nel raccontare l’accaduto – sul quale lo stesso Montanelli fu alquanto crudo descrivendo con dovizia di particolari l’odore selvatico della bambina poco più che dodicenne – Severgnini dice che il giornalista «accettò di prendere come compagna un’adolescente».
Ora, parlare di eufemismo per una frase del genere è riduttivo: la scelta delle parole non solo sorvola sull’oscenità del fatto, ma sembra quasi suggerire una complice, innocente e affettuosa intimità. Siamo oltre il tentativo di perifrasi: è un vero e proprio maquillage linguistico da avvocato di serial americano che trasforma la vittima di uno stupro pedofilo in una “compagna”, quasi che la bambina condividesse un progetto di vita con il suo oppressore. Viene a tal proposito subito in mente la lezione di George Carlin che a proposito degli eufemismi disse: «Cos’altro dobbiamo aspettarci? La vittima di uno stupro diventerà un “ricettacolo involontario di sperma”?».
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