ANTONIO CRETELLA | L’evoluzione di una lingua viva è intrinsecamente legata al cambiamento delle società nel tempo. Se la lingua è lo strumento attraverso il quale esprimiamo e comunichiamo il mondo che viviamo, tale strumento ha bisogno di una continua taratura, di riaggiustamenti che diano conto delle mutate condizioni materiali e culturali della comunità parlante. Il mutamento della condizione femminile, ad esempio, con l’accesso delle donne a cariche pubbliche per lungo tempo monopolio esclusivo degli uomini, ha posto il problema di una maggiore inclusività del linguaggio che scardini la visione monolaterale veicolata dal latente sessismo linguistico. La lingua, infatti, come ogni prodotto culturale, risente dell’impostazione del ceto dominante: la mancanza di forme femminili per certe professioni è indice della lunga esclusione delle donne da quelle stesse professioni considerate cose da uomini. Un tentativo di risposta all’esigenza di una revisione del linguaggio più attenta alla rappresentazione di categorie a vario titolo escluse o mal rappresentate è stato il politically correct, rivelatosi tuttavia con il tempo una grottesca fucina di barocchi eufemismi alla ricerca di diciture neutre, sterilizzate, tecnicamente ineccepibili, ma vuote, comiche o addirittura paradossalmente ancora più offensive. Pensiamo alle locuzioni persona omosessuale o persona con tendenze omosessuali all’apparenza neutre, ma divenute sottilmente denigratorie nell’uso che ne viene fatto da alcuni ambienti omofobi ultraconservatori. Il grande limite del politicamente corretto è proprio questo: riforma le parole, ma non l’atteggiamento culturale dietro le parole. Alla nozione di politicamente corretto si sostituisce negli ultimi anni l’idea di igiene verbale o igiene linguistica, che si contrappone all’idea di cosmesi del linguaggio proprietà dal politically correct con una più profonda riflessione sull’uso delle parole in relazione al contesto, al fine, all’interlocutore, al tema e alle istanze di autorappresentazione di chi nel linguaggio pubblico veniva cancellato o denigrato dalle scelte linguistiche del ceto dominante. È dunque un lavoro di consapevolezza linguistica che non può calarsi dall’alto, ma deve confrontarsi con il quotidiano sforzo collaborativo di creare un linguaggio non discriminatorio di pari passo a una sensibilità inclusiva che non sia una macchietta stereotipata o un bell’eufemismo che tacita la coscienza, ma che non incide sulla realtà e sulla discriminazione materiale.
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