RITA CIRRINCIONE | La chiusura delle scuole causata della pandemia e la sospensione delle attività didattiche “in presenza” che ha tenuto in casa l’intera popolazione infanto-giovanile, ha rappresentato un enorme esperimento sociale – impensabile fino a poco tempo fa – con conseguenze la cui portata dovrà ancora essere analizzata e valutata nei mesi a venire. Il fenomeno non ha riguardato solo i bambini e i ragazzi in età scolare, i docenti e il personale scolastico con le loro famiglie ma, andando a coinvolgere tutto l’indotto del “comparto scuola”, ad alterare ritmi e cicli determinati dalla vita scolastica, riti e liturgie ad essa legati, ha finito con l’interessare l’intera comunità.
L’anno scolastico che si appena concluso, così come tradizionalmente lo conosciamo, in realtà è finito il 5 marzo scorso: a partire da quella data, è proseguito (non per tutti, come vedremo) sotto forma di una pratica scolastica disincarnata e semisconosciuta chiamata “Didattica a Distanza”, una sorta di ossimoro che accosta due termini che non dovrebbero convivere e che esclude il “corpo reale”, la relazione pedagogica e la socialità.
Terminato il lockdown, mentre gradualmente riapriva quasi tutto (compresi i tabacchi e le sale-gioco) in Italia – unico paese in Europa – non è stata ipotizzata alcuna forma di riapertura delle scuole e, in previsione del nuovo anno scolastico, al momento gran parte del dibattito sembra incentrarsi su misure di sicurezza e riduzione dell’ora scolastica a 40 minuti.
Di Didattica a distanza e diritto allo studio, delle disuguaglianze e delle contraddizioni che la Dad ha fatto emergere e degli annosi problemi della scuola italiana parliamo con Valentina Chinnici.
Un cognome importante, un percorso professionale coerente e appassionato all’insegna dell’impegno civile e della partecipazione attiva nel campo della scuola, della cultura e delle politiche giovanili, Valentina Chinnici è docente di Lettere, componente della segreteria nazionale del C.I.D.I. – Centro di Iniziativa Democratica degli Insegnanti e Presidente della sezione di Palermo, Consigliera comunale del Comune di Palermo e madre di due bambine di 8 e 11 anni.
Chi meglio di lei per fare il punto sulla scuola in tempi di pandemia in una città come Palermo paradigmatica di un Sud segnato dalla dispersione scolastica e da endemici problemi strutturali?
Dopo aver conseguito un Dottorato di Ricerca in Filologia greco-latina presso l’Università di Palermo, con una tesi sull’invidia nel mondo romano e pubblicato diversi articoli di filologia, antropologia classica e didattica, Valentina Chinnici dal 2001 si dedica all’insegnamento di Lettere alle scuola secondaria di I grado. Dal 2014 presiede il CIDI di Palermo – storica associazione professionale impegnata nella formazione in servizio dei docenti che si ispira ai principi di democraticità e di laicità e che ha come faro l’articolo 3 comma 2 della Costituzione italiana, ossia la costruzione di una scuola che “rimuova gli ostacoli di ordine economico e sociale che impediscono il pieno sviluppo della persona umana”.
Con il CIDI di Palermo, in collaborazione con l’Associazione “Genitori e Figli”, ha organizzato varie edizioni di “Educare oggi”, cicli di conferenze e seminari di formazione rivolti a docenti e genitori. Gli incontri con Massimo Recalcati, Domenico De Masi, Marc Augé, Gad Lerner, Umberto Galimberti, per citarne solo alcuni, hanno riempito fino all’inverosimile il Teatro Biondo di Palermo.
Ha fondato insieme ad alcuni amici psicologi Jonas Palermo, sede territoriale di Jonas Italia, la Onlus creata da Massimo Recalcati nel 2003, che “nasce dal desiderio di realizzare un’istituzione di psicoanalisi applicata al sociale e alla clinica dei Nuovi Sintomi del disagio contemporaneo: anoressie-bulimie, obesità, depressioni, attacchi di panico, dipendenze patologiche, disagio familiare, infantile e adolescenziale”.
Come esperto di formazione, è membro del comitato di redazione della collana di Jonas “Aperture” presso Mimesis Edizioni.
Valentina, come hai vissuto la chiusura delle scuole come docente ma anche come mamma di due bimbe in età scolare con un padre matematico mago della didattica creativa?
L’aver vissuto questi mesi di chiusura delle scuole con due figlie di 8 e 11 anni e un marito “animatore digitale” in servizio in due licei di Palermo mi ha dato la possibilità di avere diversi punti di vista “privilegiati” su questo mondo, a cui ho potuto aggiungere lo sguardo del Cidi. L’animatore digitale nonché padre sempre presente e attento all’educazione delle figlie, è stato il primo a entrare in simbiosi con la protesi tecnologica: lo abbiamo visto occultarsi decine di ore nel suo studio, impegnato nella missione disperata di salvare il salvabile dell’anno scolastico. Da lui ho imparato che – laddove si è capito in tempo che la scuola non avrebbe più riaperto (e al MIUR ce l’hanno messa tutta per farcelo capire male e tardi) e laddove la scuola si è organizzata in maniera ferrea, con indicazioni chiare e scritte per tutte le componenti della comunità scolastica, genitori compresi – la relazione educativa ha retto limitando tensioni, stress e mantenendo una parvenza di efficacia.
Nelle prime settimane quasi tutte le scuole italiane, prese alla sprovvista, hanno cominciato ad arrangiarsi con quello che avevano e sapevano. Sono proliferate piattaforme e social media arrivando a far coesistere anche tre o quattro modalità diverse in una stessa classe (WeSchool, Zoom, Argo). Ogni consiglio di classe (a volte ogni singolo docente) ha proceduto come meglio poteva e voleva: in poche parole spesso il caos ha regnato sovrano, lasciando soprattutto noi madri a destreggiarci per intercettare lezioni, comunicazioni e compiti nei modi più disparati.
Com’è andata invece la tua attività “a distanza” in Consiglio Comunale?
Diversa e ben più positiva è stata la mia esperienza di consigliera comunale in modalità “agile”. Venuto meno il palcoscenico dell’aula consiliare, infatti, hanno parlato di più le carte, ossia le delibere, gli ordini del giorno, le mozioni. I documenti condivisi via schermo da approvare o emendare hanno sostituito il chiacchiericcio e la retorica, mettendo in difficoltà soprattutto i consiglieri comunali di lunga data, poco avvezzi al digitale e abituati a teatralizzare con i loro stessi corpi lunghi monologhi “in presenza”. Le loro voci, rese spesso metalliche dai problemi di collegamento internet, o zittite da microfoni silenziati a vicenda da noi stessi consiglieri per evitare che si sentissero rumori casalinghi, hanno smorzato intensità e durata, con giovamento dello snellimento delle procedure. Per quanto paradossale possa essere, insomma, in tre anni il Consiglio comunale non è mai stato così produttivo nell’approvare atti come in questi tre mesi di “distanza”. Per dirla con una battuta il CAD ha funzionato molto meglio della DAD!
La Dad ha evitato il vuoto formativo ma ha molto acuito le differenze sociali: se ha funzionato laddove poteva contare su contesti culturali “attrezzati”, ha leso gravemente il diritto allo studio delle fasce sociali più deboli. Com’è andata in una città come Palermo?
La Dad è stata un enorme esperimento antropologico, in cui – giova ricordarlo – la Scuola è stata chiusa: di didattica si è visto molto poco, soprattutto perché un milione e mezzo di alunni e alunne è rimasto fuori da questo esperimento. I dispositivi digitali sono arrivati a maggio inoltrato nelle scuole e nella maggior parte dei casi, i giga per le connessioni sono stati insufficienti per reggere le lunghe ore di video-lezioni frontali a cui tanti docenti hanno fatto ricorso. Nemmeno in una casa di due insegnanti come la mia, in cui ognuno dei quattro componenti era dotato di computer e/o tablet, connessione potente e stampante perfettamente funzionante sono mancati disagi, dimenticanze, abulia da parte soprattutto della figlia in terza elementare, che ha avvertito profondamente l’assurdità di questo surrogato scolastico, nonostante i suoi insegnanti siano stati attenti, vicini e presenti per quanto possibile.
È evidente che la chiusura delle scuole e il divario digitale hanno accentuato la povertà educativa nonostante tanti docenti, anche con l’aiuto di ottimi operatori del terzo settore, siano riusciti a inseguire, a contattare e a tenere aperto il dialogo educativo con gli alunni e le alunne più in difficoltà. Del resto le famiglie in condizioni socioeconomiche svantaggiate hanno dovuto fronteggiare innanzitutto la fame. Durante le prime settimane mi sono arrivate innumerevoli richieste d’aiuto provenienti da varie parti della città nelle more che si innescasse il complesso sistema di aiuti istituzionali. Bambini e bambine rimasti senza latte e biscotti, costretti a mangiare pane e patate per giorni, persone rimaste senza possibilità di acquistare medicinali, etc. Con quale serenità in queste case si poteva studiare? Con quali dispositivi, anche se dalle indagini compiute dalle scuole risultava che in casa esisteva almeno un cellulare? Se a Palermo nessuno ha patito la fame nel primo mese di lockdown si deve soprattutto all’immenso sforzo delle associazioni di terzo settore, alla catena di solidarietà spontanea e capillare che si è attivata in pochissime ore, al tessuto sociale che ha retto con prove di grande generosità di cui sono stata testimone e di cui conservo memorie commoventi.
Temo tuttavia che gli effetti di questa crisi saranno ancora durissimi nei prossimi mesi. Anche i cosiddetti centri estivi che riapriranno a breve lo faranno con un clima di sorveglianza e con difficoltà economiche tali da costringere tanti operatori del settore, nonché genitori, a rinunciare a questa “opportunità”.
Come ti spieghi il fatto che in Italia si sia arrivati alla fine dell’anno scolastico senza tentare una qualche forma di riapertura con attività didattiche “in presenza”?
Constato con grande amarezza che la scuola, ancora una volta, sembra costituire un problema più che una risorsa per questo paese. Non consola affatto ricordare che insieme alle scuole sono rimasti chiusi i tribunali, le Università e tante altre Istituzioni: abbiamo contratto un debito enorme verso bambine/i e adolescenti del nostro Paese e mi fa ridere amaramente che qualche collega insegnante in questi giorni si stia affannando per trovare gli spiragli (ahimè lasciati colpevolmente ampi dal MIUR a dispetto dei proclami iniziali) per bocciare le alunne e alunni “latitanti” in periodo di Dad. Come se la dignità dei docenti e la “serietà” della scuola passasse dai voti e dalla valutazione vista come punizione. Un incoraggiante passo in avanti è stata l’eliminazione dei voti numerici nella scuola primaria, reintrodotti proditoriamente dall’allora ministra Gelmini. Speriamo che sia un primo passo per ripensare il valore formativo della valutazione, che dovrebbe sganciarsi una buona volta da mortificanti medie aritmetiche, in ogni ordine e grado di scuola.
La riapertura del nuovo anno scolastico, con le misure per il distanziamento da adottare, poteva rappresentare una buona occasione per ridurre il numero di alunni per classe e per attuare quelle riforme strutturali necessarie da tempo. Invece? Si parla di pareti divisorie in plexiglas o di riduzione del tempo-scuola Continua la logica dell’impoverimento del sistema scuola italiano?
Piuttosto che decurtare il tempo scolastico, già da marzo scorso, quando era molto probabile che la scuola non sarebbe stata più riaperta, occorreva pensare a massicce immissioni in ruolo che potessero garantire lo sdoppiamento delle classi o comunque una didattica modulare per gruppi ristretti di alunni, nonché un ripensamento dell’edilizia scolastica, con la messa in sicurezza del patrimonio edilizio, comprese palestre e cortili o campetti esterni che i Comuni e le città metropolitane non riescono in molti casi a rendere fruibili. Invece si è scelta la via più breve, troppo breve: ingenti investimenti nel digitale e riduzione del tempo scuola, laddove si dovrebbe invece aumentarlo dando tempo pieno e prolungato, soprattutto da Roma in giù, dove sono cronicamente carenti.
È anche vero che oltre che alla quantità bisognerebbe prestare attenzione alla qualità del tempo scuola: col digitale, come si è visto, spesso la lezione era ridotta a un monologo dell’insegnante che magari, intento a impratichirsi di piattaforme e social media, ha poco tempo, o forse voglia, di prendersi cura del proprio sé professionale. Passata l’emergenza, bisognerebbe ritornare a riflettere e studiare su COSA vale la pena insegnare e COME riuscire a far apprendere agli studenti quei saperi scelti e dotati di senso, che costituiranno il bagaglio di competenze culturali di cittadinanza che potranno rendere “sovrano” e libero il cittadino di domani, come ci ha insegnato Don Lorenzo Milani.
Il mio timore è che ci si lanci in una ingordigia formativa digitale, magari con la regia esperta dei grandi marchi internazionali che sono già entrati a scuola dalla porta principale stringendo alleanze educative con il MIUR stesso, oltre che con la Fondazione Agnelli e tante università italiane. Il Ministero dovrebbe provvedere in fretta a dotarsi di piattaforme libere e statali, come hanno già fatto altri paesi europei nonché atenei italiani illuminati come l’Università Federico II di Napoli, che ha creato il proprio “Centro per l’innovazione, la sperimentazione e la diffusione della didattica multimediale”, chiamato, con meritoria attenzione anche alla differenza di genere, “Federica”.