RENZO FRANCABANDERA | Uno dei cartelli più originali vedeva i protagonisti del film “Ritorno al futuro” che spiegano di voler tornare al 1978, per «dire alle donne di conservare gli striscioni per le lotte sulla 194, per il 2020». Era infatti oltre 40 anni fa che in Italia veniva sancito il diritto della donna a poter interrompere la gravidanza, ma da alcuni giorni in Umbria questo si può fare solo ricoverandosi in ospedale per almeno 3 giorni, come ha decretato il nuovo governo a guida leghista, impedendo di fatto una possibilità di scelta operata nella tutela della privacy. La precedente giunta aveva invece permesso l’assunzione del farmaco in day hospital potendo tornare a casa. In Italia solo il 17,8% nel 2017 (il 20,8% nell’anno succesivo) degli aborti avviene con metodo farmacologico contro il 97% della Finlandia, il 75% della Svizzera e il 66% della Francia.
Ma questo non può sorprenderci in una nazione in cui è ancora in discussione se una violenza sessuale perpetrata ai danni di una bambina dodicenne in Africa sia diversa da una in Italia, o dove uno psichiatra di ampie frequentazioni mass mediali come Raffaele Morelli ritiene che le bambine debbano giocare con le bambole per conservare la loro «radice femminile» e che «Se una donna esce di casa e gli uomini non le mettono gli occhi addosso, deve preoccuparsi». Se poi una donna (nella fattispecie la conduttrice Michela Murgia) incalza lo psichiatra, facile che possa essere apostrofata con un «Zitta e ascolta», passando dal lei al tu nel giro di un “giramento” maschile. Perchè come disse Bette Davis «Quando un uomo dà la sua opinione, è un uomo. Quando una donna dà la sua opinione, è una stronza».
Nel giro di una settimana alcuni casi eclatanti hanno scosso la comunità social, sul tema del riconoscimento dell’identità e dei diritti. Si è passati dall’abolizione in Umbria del diritto all’aborto senza ospedalizzazione al «…Ho pensato alla mia donna delle pulizie che si chiama Emilia. No, non è vero, non si chiama Emilia. Lei è moldava e io ho preteso in onore della mia terra di chiamarla Emilia. Non so qual è il nome ma ognuno dovrebbe chiamare le persone come meglio crede, soprattutto le persone che entrano in casa tua. Sono pagate e quindi possono far cambiare il loro nome». In questa simpatica performance di scoppiettante ironia si è prodotto Cesare Cremonini, ospite di E poi c’è Cattelan, il programma condotto da Alessandro Cattelan. Che rideva…
W Emilia! 😂 @alecattelan @EPCCattelan pic.twitter.com/sqTxPMeDkn
— Cesare Cremonini (@CremoniniCesare) June 23, 2020
Su twitter l’hashtag #Cremonini resta primo fra i trend in Italia, la maggior parte dei tweet auspica un giro di punture di vespe special sul cantante bolognese.
In uno spazio di equivoci sui diritti su cui è fondata la Repubblica e sulla parità di genere, di lotte per i diritti, non possiamo non concludere la rassegna sulle circostanze inquietanti della settimana con il «La conosci la storia di Hitler? La gente come te deve andare nei forni crematori», pronunciata a telefono dal «consulente» ad Antonia Monopoli, attivista trans di Milano, da anni impegnata nel movimento lgbt, che aveva contattato una scuola per riprendere gli studi interrotti in gioventù. «Dopo un primo contatto la segreteria della scuola mi ha detto che mi avrebbe fatta richiamare da un consulente che poteva darmi tutte le informazioni di cui avevo bisogno.»
Di lì in poi telefonate e minacce telefoniche da parte del consulente stalker, che avendo appreso di essere a telefono con una persona transgender, era stato poi ossessionato dalla scelta di genere della Monopoli fino a chiamarla ripetutamente con offese e minacce.
Se la cultura femminista pare essere andata nel tempo in crisi di forma, il linguaggio stesso, nelle sue dinamiche di vulgata e nelle sue tentacolari forme social, rivela una crisi di sostanza sul piano dei diritti (sia effettivi che percepiti). Il serpeggiare di una cultura drammaticamente conservatrice, riflesso nella banalizzazione della lingua parlata, spinge verso una percezione dei diritti storici della donna nelle società occidentali molto preoccupanti.
Raccogliamo, ad una generazione precisa di distanza, il distillato di una proiezione iconica massmediale con modelli scolpiti nelle trasmissioni televisive degli anni 80, sommato ad una sessuofobia di derivazione religiosa molto ampia e trasversale alle aree conservatrici delle diverse religioni. La reclusione domestica degli ultimi mesi ha marcato ancora di più la differenza fra diritti e possibilità, schiacciando le donne su un ruolo familistico-patriarcale che lascia molto da pensare. In Germania le donne hanno chiesto forme di indennizzo per il lavoro domestico cui sono state costrette e che non era stato riconosciuto nelle forme di sostegno durante la reclusione fra le mura di casa.
Quali aggregazioni per il riconoscimento di quali diritti sono allora possibili alle donne oggi per non dover abdicare alla propria identità, per non dover accettare di esser chiamate “Emilia” dal padrone ricco, bianco, etero che tira fuori i soldi?
E soprattutto, perchè il riconoscimento dei diritti pare una noiosa lotta di parte? Quali equilibri profondi va a modificare una presa di coscienza globale su questi temi sensibili? Spesso si usa la rete e l’aggregazione social per battaglie ridicole. Ma se le lotte di piazza paiono troppo demodè, perchè non si ricorre ora ad efficaci campagne di boicottaggio nonviolento per reclamare i diritti? Forse anche su questi temi è il caso di tornare a respirare!