MATTEO BRIGHENTI | L’umanità vera, quella che resiste alla propria disperazione, Gli Omini ce l’hanno scritta nel nome. Ora che il Coronavirus ha fatto saltare il banco delle nostre contraddizioni e dei nostri limiti, la premiata compagnia toscana si è riscoperta più solida che mai. «È stato bello rivederci, ci si mancava, anche se ci siamo costantemente aggiornati l’uno con l’altro – dicono Francesco Rotelli, Luca Zacchini, Giulia Zacchini – dopo che si è scozzato il mazzo delle priorità nella vita, le nostre personali e come gruppo, ci siamo riscoperti compatti di fronte alle scelte da prendere per affrontare questo periodo instabile».
La più importante di tutte: adattarsi alle linee guida sulla riapertura dei teatri restando loro stessi, senza stravolgere ciò che sanno e possono fare. Ovvero, usare l’ironia per stanare l’assurdo che viviamo ogni giorno. «Ci siamo resi conto che le nuove regole da rispettare avrebbero snaturato la maggior parte dei nostri spettacoli – spiegano in esclusiva a Pac – e alcuni sarebbero stati proprio impossibili da replicare».
La risposta alla crisi, allora, non potevano che trovarla nella loro storia. Quasi dieci anni fa con L’asta del Santo. Un mercante in fiera sulle vite dei Santi, divenuto nel frattempo un vero cult, avevano dimostrato che i momenti che prendono direzioni inaspettate (all’epoca si trattava di affrontare l’uscita di Riccardo Goretti) sono proprio quelli in cui si può trovare un nuovo modo di camminare uniti. Così, l’Asta rinasce ora come la Coppa del Santo. L’agonismo al tempo del distanziamento sociale, un campionato in cui a sfidarsi saranno Martiri e Vergini, Santi di Strada e Santi d’Aria, Crocifissi e Madonne, per una vittoria finale tutta del pubblico. Il debutto nazionale il 1° e 2 luglio in Lombardia, a Olgiate Molgora, per Il giardino delle Esperidi Festival, poi in Toscana, il 30 luglio a Piombino, il 1° agosto a Massa e il 6 agosto a Prato, il 7 agosto in Emilia-Romagna, a Bologna, il 3 e 4 settembre in Puglia, ad Andria.
Ma l’estate degli Omini non finisce qui. Oltre a salire sul palcoscenico, scenderanno in strada per stanare il quotidiano come piccoli esploratori folli, continuando a fare del presente memoria esilarante attraverso conversazioni con la gente comune. Sono le loro celebri “indagini etnografiche” che, una volta riportate sulla scena, restituiscono un campionario di esistenze assurdamente reali. Il 13 luglio in Toscana, a Buti, con Butade. Indagine lampo sui butesi in memoria del tempo presente, e il 25 luglio in Veneto, a Colceresa, con Posto di sblocco. Teatro d’indagine al tempo del distanziamento sociale per Operaestate Festival.
«Non sappiamo se è un nuovo inizio – riflettono – è un ritrovarci, questo sì». Intanto, nella loro casa dal 2018, da dove ci parlano in viva voce. È La Segheria, la sala teatrale in miniatura ricavata negli uffici dismessi della falegnameria Fagioli, nella zona industriale di Pistoia. «Stiamo cercando di ripristinare questioni di ufficio in ufficio – sospirano – le abbiamo abbandonate per un paio di mesi abbondanti. È tutto coperto di polvere, nella migliore delle ipotesi. Comunque va bene, ci siamo».
Cominciamo con una domanda che mi porto dietro dall’inizio della “Fase 1” e che, secondo me, continuerò a fare finché non sarà trovato il vaccino. In tanti hanno definito questo tempo come “sospeso”. Che cosa significa per voi?
Sicuramente la sensazione di essere andati in pausa ce l’abbiamo avuta, per ovvi motivi. In generale, nei momenti in cui non ci potevamo vedere la percezione era che fossimo sotto lo stesso flusso, che attraversassimo fasi simili: la speranza oppure la rabbia, a ondate, prendevano tutti. La cosa buffa è che sembrava che l’umanità intera fosse più unita allora che adesso. La questione di chiedersi “come va?”, del dimostrare vicinanza, era esponenzialmente aumentata nel momento in cui eravamo distanti. Da parte nostra, abbiamo cercato di non crogiolarci nella sospensione e di continuare a progettare, a mantenere vivo il nostro lavoro.
In pieno confinamento, avete condiviso un breve video da Circolo Popolare Artico, il vostro ultimo progetto pre-crisi. È una sorta di “tutorial” su come lavarsi accuratamente le mani. Siete stati dei preveggenti, come i veri artisti: avete anticipato il futuro.
Quando siamo entrati in lockdown è come se avessimo vissuto un flashback rispetto ai tre episodi di Circolo Popolare Artico e ai nostri studi di un anno e mezzo sui racconti di Jørn Riel, antropologo, viaggiatore e narratore danese nel Nord Est della Groenlandia. Si parlava della predominanza della natura e del fatto che gli uomini devono sottostare a un sacco di regole che sono molto più forti di loro: ci eravamo fiondati lì dentro perché qualcosa di vero ce lo ritrovavamo e ora ancora più di prima. Riel scrive una serie di skrøner, aneddoti, cronache buffe, racconti di minuta leggendarietà quotidiana, storielle popolate da cacciatori solitari e isolati. Quelli sì che vivono un tempo perennemente “sospeso”. E nella solitudine, rimangono sempre uniti in una specie di spontaneo mutuo soccorso. Molte scene dello spettacolo le abbiamo poi rivissute nel reale. Pensa che il terzo episodio lo iniziavamo panificando. Ci pareva di fare una cosa fuori dal mondo, il pubblico ci guardava con occhi stupiti. Poi c’è stato l’assalto al lievito nei supermercati. Pensavamo di aver trovato qualcosa di molto vicino in qualcosa che proveniva da molto lontano. Questa distanza è uscita dalla metafora ed è diventata realtà.
Volevate «contagiare con il virus delle terre vergini» e poi è arrivato il Coronavirus.
Ce l’abbiamo fatta per un pelo a debuttare al Teatro Manzoni di Pistoia con il terzo episodio, abbiamo finito il 29 febbraio scorso. In scena con noi c’era Paola Tintinelli che da casa sua, a Milano, riceveva notizie di chiusure, mentre noi portavamo in scena un manipolo di omaccioni soli nelle loro baracche ai margini del mondo. Avevamo portato il pubblico con noi sul palco per offrirgli una visione sulla sala del teatro completamente vuota. Dovevamo debuttare questa estate con la fine di tutto il ciclo e, invece, abbiamo scelto di fermarlo. Ci dispiace molto, ma non ci interessa farlo adattandolo alle condizioni di questo momento. Abbiamo cercato di capire cosa aveva senso fare in questa fase, senza svilire, né cambiare i connotati ai nostri spettacoli.
Non vi è rimasto che votarvi ai Santi?
Durante la quarantena, in maniera molto spontanea, siamo ritornati ad affrontare la questione dei Santi. Era un momento dove avere un Santo a cui aggrapparsi, perlomeno nel modo in cui lo facciamo noi, ci sembrava una cosa molto sincera, molto sentita. Siamo ripartiti da lì, da una ricerca agiografica e dal disegnare nuove icone (ne avevamo in precedenza 52, ma ci eravamo accorti da tempo che non bastavano più). Con questo nuovo mazzo di Santi poi, ci siamo rimessi a giocare. Siamo rimasti convinti, infatti, nonostante alcuni tentativi di farci intendere il contrario, che il teatro continui ad avere un senso e a essere utile anche in questo periodo di regole che sfiorano l’assurdo. Così abbiamo affrontato i limiti, abbiamo raccolto la sfida e ne lanceremo un’altra.
Per questo L’asta del Santo è diventata la Coppa del Santo, per via della competizione anti Covid-19? Oppure volete prendere il posto degli Europei di calcio?
La competizione c’è venuta nei confronti dei preti. Hanno iniziato prima di noi a fare spettacolo, a ricreare il loro rito, a incontrare il loro pubblico, confessando i fedeli ai finestrini delle macchine, officiando le messe nei drive-in, benedicendo le case dalle Apecar. Eravamo profondamente invidiosi della loro prontezza di riflessi e non volevamo arrivare ultimi in questa gara. Perciò, abbiamo deciso di metterci nei loro panni. Abbiamo dovuto sospendere L’asta del Santo perchè, nonostante fosse il nostro spettacolo più da battaglia, era anche il più “batterico”. L’Asta dove la mettevi stava, l’abbiamo fatta in spiaggia come in bocciofila, ma il dispositivo che la costituisce è una forte “arma batteriologica”. È stato proprio concepito come un grande momento di contagio, dal momento che distribuivamo soldi finti, accettavamo le offerte degli spettatori, davamo loro in cambio una carta che si tenevano stretta tra le mani sudate, Francesco passava spesso tra una fila di poltrone strusciandosi al pubblico in mutande, insomma tutte azioni che in questo momento di igenizzazione di ogni cosa non si possono fare. Con la Coppa del Santo non sarà più il singolo a scegliere il suo Santo, ma cercheremo di stabilire il Santo Patrono di quel pubblico, di quel luogo, di quella serata, di noi.
L’agonismo al tempo del distanziamento sociale, ricordato nel sottotitolo, significa essere più forti delle nostre insicurezze e paure, anche verso l’altro? È una riaffermazione di vitalità?
Sì, l’agonismo in questo caso è per unire, più che per divedere. Già tornare a essere parte di un pubblico sarà una vittoria per il singolo che uscirà di casa e verrà a teatro: sarà già una gara vinta quella di trovarsi lì quella sera. Andiamo a vittoria tutti, nessuno escluso.
Quali sono i Santi che avete aggiunto e che possiamo pregare oggi come oggi?
Ci siamo resi conto che nei 52 Santi precedenti non ce n’era uno pronto a proteggerci in caso di pandemia. Pensavamo fosse una problematica ormai debellata, è colpa nostra, quindi, se le cose sono andate nella maniera che conosciamo. Abbiamo cercato di porre rimedio ed ecco Sant’Erasmo da Formia da pregarsi in occasioni come la nostra. Essendo stato eviscerato da vivo, è un Santo che può essere pregato anche in caso di semplici problemi intestinali. Perciò, anche una volta che ci saremo lasciati alle spalle il Covid-19 avremo sempre modo di tornare a rivolgerci con grazia a Sant’Erasmo. Inoltre, abbiamo dedicato una carta ai medici con i Santi Cosma e Damiano, che sono anche i protettori dei lavoratori senza reddito. Non potevamo davvero lasciarci sfuggire l’opportunità di inserirli. Mentre molti eremiti ci hanno aiutato parecchio nell’isolamento.
Santi dalla cronaca non ce ne sono?
No, i nostri sono tutti Santi veri, mica ci inventiamo niente. Abbiamo fatto uno sforzo di attualizzazione, in qualche modo, con figure un pochino più controverse, Santi che non riconosciamo in tutto e per tutto come nostri protettori. C’è Padre Pio, per farti capire fino a dove ci siamo spinti. Si tratta di storie ben documentate, che non dipendono dalla nostra fantasia, né dal nostro guizzo umoristico. Noi ci atteniamo scrupolosamente alle sacre scritture, alla Bibbia, ai Vangeli. Non c’è bisogno di aggiungere molto altro.
L’interazione in scena tra Luca e Francesco come sarà?
Purtroppo a distanza fisica, non sociale, perché distanziamento sociale è un’espressione veramente orribile. Ognuno toccherà le proprie cose, in tutti i sensi, ci adegueremo alle regole che ci sono state imposte, senza subirle, anzi, cercando il modo di continuare a divertirci lo stesso. Luca rimane il “maestro d’opera”, il “super prete”, diciamo, e Francesco l’“allievo prete”, per certi versi.
La distanza tra di voi va colmata dalla fede? Rappresenta un cammino di fede che anche il pubblico deve fare?
Ti ringraziamo davvero per questa domanda, non avremmo saputo dirlo meglio. Riacquistare fiducia è una questione fondante, crediamo che rincontrarsi, riparlarsi, riavvicinarsi, sia fondamentale. Il nostro lavoro non esiste se non nella compresenza, nell’esserci. Per questo motivo ci siamo tirati ben indietro da tutto ciò che è stato lo streaming e simili. Non lo consideriamo teatro. Se mai ci dedicheremo a qualche cosa in quella direzione, saranno delle creazioni fatte non con un linguaggio teatrale, ne adotteremo altri. Su questo ci prendiamo ancora del tempo, sperando tuttavia di poter continuare a incontrare il pubblico.
Il vostro teatro vive sul palcoscenico, ma anche nelle vie, nelle piazze, nei bar, nei circoli. Come vi state preparando a questo altro vostro ritorno?
Siamo mossi da una curiosità rinnovata rispetto a quello che può succedere in giro per strada. Le indagini ci serviranno per comprendere qualcosa in più su di noi e sui tempi che stiamo vivendo. L’approccio sicuramente cambierà, perché sarà difficile “fare comunella” e incuriosire le persone avvicinandole per un caffè o un bicchiere di vino. Chissà se la distanza da mantenere comporterà freddezza, distacco nel racconto, nella confessione, nello sfogo. Stiamo valutando se preparare qualche domanda sull’emergenza odierna e in che modo, al tempo stesso, affrontare questioni che non siano soltanto quelle legate al Coronavirus.
L’ironia è uno strumento ancora utilizzabile?
È abbastanza istintivo per noi affrontare la realtà con ironia, utilizzata più come arma per fare breccia che come scudo per difendersi. I nostri schemi, i nostri canovacci, non si preoccupano mai di essere, in sé e per sé, comici o ironici. Siamo convinti che nel montaggio delle riflessioni raccolte, delle testimonianze prese, il nostro sguardo andrà in quella direzione. Ciò che ci interessa è cercare di trovare la frattura, lo spiraglio che inviti e coinvolga le persone a poter ridere insieme, di se stessi o del proprio vicino di sedia. Quindi, andremo avanti con il bagaglio che ci siamo costruiti fino a qui. E troveremo sempre del materiale su cui lavorare, perché la nostra ironia deriva dallo stanare e far convivere le contraddizioni: quelle non finiranno mai.
Infine, come vedete il futuro della vostra Segheria culturale?
Stava andando molto bene, era bello il meccanismo che si era innescato per il nostro spazio periferico per 40 persone, un «buco spazio culturale», come lo chiamiamo, che in due anni si era riempito di pubblico e di artisti, in continuo scambio tra loro. Un luogo aperto alla città, un ambiente altro dove incontrarsi. Primo vanto del posto: l’annullamento delle distanze. Veramente anacronistico. Ora, se le condizioni per far entrare il pubblico rimangono invariate, noi questo inverno ci scordiamo di farci qualsiasi cosa. Già da prima le normative erano faticose da rispettare, ora sono veramente paradossali. L’idea è quella di vedere se a settembre riusciremo a fare qualcosa all’esterno, magari un evento o semplicemente una serata conviviale. Per tenere in vita la Segheria. L’importante è che in questo momento ci trovi qui. Siamo tornati a vederci da vicino, vis à vis, a ragionare degli spettacoli e di quello che ci accade. Questo è il nostro luogo, l’abbiamo scelto, ce lo siamo sudati. Speriamo di riuscire a renderlo vivo, come lo è stato, il prima possibile.