ILENA AMBROSIO | To be, or not to be, that is the question: il dilemma teatrale per eccellenza può assumere sfaccettature di senso inaspettatamente ficcanti e contingenti se quell’essere lo si legge come esserci ancora, esistere, fare; essere dentro e per una comunità, essere cittadini e artisti; essere e quindi vivere il tempo, progettare, non cedere alla “sospensione” cui siamo stati costretti negli ultimi mesi. Essere che si fa artistico, civico, politico è il to be del Piano BE, stagione – è il caso di dire – extraordinaria che Roberta, Gabriele e Daniele Russo proporranno al Teatro Bellini da ottobre a dicembre 2020.
Dal giovedì alla domenica una scena totalmente rivoluzionata vedrà alternarsi diverse compagnie in più orari; spettacolo horror a mezzanotte nel weekend; focus sulla drammaturgia contemporanea al Piccolo Bellini gestito, per l’occasione, da Mario Gelardi (Nuovo Teatro Sanità) e Napoleone Zavatto (Teatro Civico14); ancora, sezione danza realizzata da Manuela Barbato ed Emma Cianchi e rassegna di teatro ragazzi curata da Il Teatro nel Baule; per concludere il progetto Adiacente possibile di Agostino Riitano e l'”esperimento” di etudes condivisi con il pubblico con Be Jennifer.
Quali sono le ragioni, profonde e non puramente artistiche, dalle quali è scaturito, proprio ora, un progetto così articolato e inconsueto? Ne abbiamo parlato con Gabriele Russo.
Negli ultimi mesi abbiamo tutti fatto uso – e abuso – dell’espressione “tempo sospeso”. Io vorrei invece chiederti come stai vivendo, personalmente e come codirettore artistico del Bellini, questo tempo che pare ritornare con i piedi per terra.
Di certo regnano ancora grandi interrogativi, è un tempo da interrogare e dal quale aspettiamo delle risposte che non sappiamo quando arriveranno.
Per me è difficile scindere la posizione personale da quella professionale, le figure coincidono. Se abbiamo fatto una scelta l’abbiamo fatto anche e prima da cittadini, intercettando la sensazione di incertezza che regna non solo nel mondo teatrale ma nelle nostre vite. Questo è quello che ci ha spinto a presentare la stagione più di ogni altra cosa.
Ci siamo chiesti a lungo se fosse il momento di presentarla, interrogandoci sulla situazione sanitaria, in primis, e poi sulle specificità del nostro ruolo nel settore. Le domande sono state tante ma poi ci siamo decisi a rischiare proprio per cercare di dare al pubblico e ai cittadini un orizzonte temporale, il senso che si stia riprogettando, in un momento in cui sembra complesso anche progettare un weekend.
Penso che il Bellini sia diventato un punto di riferimento per la comunità, quindi pensare a un orizzonte di tempo, dare degli appuntamenti è un segno importante.
Non dobbiamo accorciarci la vita come prima, ma questo vivere totalmente alla giornata non ti permette di avere una progettualità e quindi di pensare al futuro.
Forse il mantra del “vivere alla giornata” – con il congiunto “apprezzare le piccole cose” – è sopravvalutato; la cronicità del vivere alla giornata annienta le prospettive, il tempo scorre fine a sé stesso e, in definitiva, smette di essere. E mi viene in mente allora il nome che avete scelto per la stagione: Piano BE come “essere” in opposizione al not to be.
Sì, abbiamo deciso di puntare sulla parte affermativa della domanda amletica che è alla base del senso del teatro proprio per i motivi che dici.
Penso che le cose stiano nell’equilibrio. Di certo prima vivevamo una vita iper stressante, accelerata, competitiva. Ma ora abbiamo scoperto il risvolto della medaglia e vivere alla giornata può essere molto pericoloso, può generare apatia, tutto può svuotarsi di senso. Bisognerebbe trovare un equilibrio: considerare ogni giorno come un tassello per costruire un orizzonte futuro, anche ampio.
D’altronde, a bene vedere, con lo stile di vita precedente non è che avessimo costruito un granché.
C’è bisogno di un ripensamento che è un termine ritornato spesso e con molta forza durante la conferenza di presentazione del progetto. Come si concretizzerà questo ripensamento nel Piano BE?
Se ti è arrivato questo aspetto dipende dal fatto che noi ci crediamo davvero. Le scelte fatte sono state pensate, articolate, lasciate sedimentare; riviste rispetto alla nostra funzione di cittadini e di operatori del settore, rispetto alle restrizioni sanitarie, rispetto alla qualità dell’offerta artistica che non doveva essere assolutamente abbassata.
Abbiamo, innanzi tutto, ripensato e concretizzato idee che facevano già parte del nostro modo di vedere il teatro; per esempio l’utilizzo dello spazio scenico. Una delle cose più interessanti sarà proprio l’incontro tra gli artisti che condivideranno, a turno nelle stesse giornate, lo stesso palco. Si tratta di un aspetto non scontato perché gli artisti tengono molto al loro spazio e al loro tempo. Alcuni sono rimasti perplessi di fronte a questa proposta ma sono certo – ne ho avuto prova con Global Shakespeare – che sarà per loro un’esperienza importate.
“Passarsi” la scena ti fa davvero vivere una comunità e stempera il consueto egocentrismo di noi artisti: sapere che dopo di te ci sarà un altro, che fa teatro diversamente da te ma come te, attiva un processo bellissimo che va al di là della messa in scena. Quella macchina costruisce inevitabilmente altro perché stabilisce relazioni, confronto; chi fa il suo spettacolo può trovarsi in sala mezz’ora dopo a vedere un collega che magari non aveva mai visto.
Il ripensamento ha significato anche abbandonare la stagione che avevate preparato prima del Covid. Non c’è nulla di quello che avevate programmato?
No, con una grande amarezza abbiamo messo da parte una stagione che, a mio parere, era molto bella ed equilibrata. Però, dopo il fermo, abbiamo sentito davvero la necessità di rivedere le nostre scelte; non potevamo riprendere da dove avevamo interrotto. Gli stessi nostri meccanismi organizzativi, quelli che erano diventati abitudinari, sono cambiati. Programmare questa cosa è stato molto diverso da quello che programmiamo in genere, le nostre riunioni sono differenti; il modo di comunicare con il pubblico non può essere lo stesso di prima. È necessario trovare chiavi nuove. Non è facile ma è stimolate; si è aperta una prospettiva inedita.
Ripensamenti da cui scaturiscono scelte inedite. Durante la conferenza avete affermato che «ripartire non potrà mai essere uno slogan spendibile finché non potranno farlo tutti». A questa affermazione è collegata la scelta di affidare la programmazione del Piccolo Bellini ai direttori di due teatri che non hanno potuto riaprire, il Nuovo Teatro Sanità e il Civico 14. Cosa vi ha spinto a farlo?
Avevo sentito un intervento di Mario Gelardi che dichiarava l’impossibilità per il Nuovo Teatro Sanità di riaprire a causa del numero limitato di posti; questa difficoltà dei teatri più piccoli – in termini numerici – è stato un altro argomento di interrogazione per noi.
Al netto della retorica sono convinto che la chiusura degli spazi più piccoli rechi un danno a tutto il sistema teatrale. Quanti attori si formano nei piccoli spazi? Quanti spettatori vengono formati da quei teatri? Sul breve periodo si può essere cinici e ciechi e pensare che non faccia differenza. Ma se queste realtà dovessero sparire il resto crollerebbe a catena. È tutta una rete.
Pensandola così è stato naturale decidere di destinare il Piccolo a chi non avrebbe aperto.
Dici rete, hai detto comunità e non si può fare a meno di pensare a polis. Quanto di politico c’è in questa scelta?
Credo molto. Forse nello scardinare e ripensare i processi ciò di cui siamo diventati più consapevoli è proprio la funzione politica del lavoro che facciamo. Prima la sentivamo lo stesso ma era come un dato di fatto, come se fosse scontata nel nostro lavoro. La situazione che viviamo ce l’ha fatta mettere concretamente al primo posto: la funzione verso i cittadini, verso i colleghi, l’apertura del teatro a una diversa fruizione. Perché al di là della bellezza del confronto tra artisti che si susseguono sullo stesso palco e del teatro aperto dal mattino, c’è un altro obiettivo in questa proposta: la formalizzazione dell’accesso al teatro. Molti vivono il teatro come un appuntamento che è solo la parentesi di una sera della settimana; la nostra proposta offre un modo di vivere davvero il teatro, lungo tutto il giorno, proprio come comunità.
Ma se si dice politica poi si pensa anche a istituzioni. Come risponde il Piano BE alla (non) posizione delle istituzioni nei confronti del comparto dello spettacolo dal vivo?
Devo essere sincero, provo un certo risentimento per molte aspettative deluse.
Noi questo ripensamento lo stiamo mettendo in atto, ci siamo rimboccati le maniche e stiamo rischiando davvero molto, su tutti i fronti. Ma lo stesso ripensamento dovrebbe venire dalla politica, perché non possono essere i singoli cittadini a creare un vero cambio di rotta. Lo Stato è il primo che si deve ripensare in tutti i suoi processi altrimenti il nostro resterà un esempio isolato.
Ovviamente sentiamo molto il tema della crisi lavoratori dello spettacolo. Noi di certo siamo un po’ meno fragili ma sempre tra i fragili e non possiamo fare da welfare. Eppure in questo momento abbiamo deciso, per quanto possibile, di ricoprire questo ruolo, coinvolgendo più artisti e compagnie possibile, incrementando anche il numero di addetti ai lavori necessario per far muovere la macchina scenica.
Ma ciò che ci si augura è che questo sia un momento per rivedere davvero la legge sul teatro e per avviare un ragionamento che includa e coinvolga i lavoratori dello spettacolo all’interno legge.
Certo, c’è anche da dire che nello stesso settore teatrale ci sono fratture che non agevolano il processo. L’ente pubblico schiaccia l’iniziativa dei privati, i teatri finanziati sono visti come il nemico… questo danneggia anche nel confronto con lo Stato.
Ripeto, tutto è una rete interconnessa, e come tale dovrebbe agire per aderire davvero al reale.
Procedo per associazioni: dici reale e penso a una sezione della stagione che tutto ha a che fare con la realtà e il contingente: il progetto Adiacente possibile di Agostino Riitano che prevede l’utilizzo di riprese live di vita reale da mostrare alla fine degli spettacoli. L’obiettivo è di – cito – «ripristinare il teatro come spazio catartico in cui digerire e medicare le tragedie del quotidiano».
Pensi che questa iperrealtà utilizzata nuda e cruda, senza sedimentazione o sublimazione artistica, possa essere efficace per innescare la catarsi e realizzare l’incontro, ora necessario, tra la realtà e il teatro?
Mi ricollego alla necessità che avvertiamo di avere un ruolo diverso in questo momento. Ragionando su questo ruolo abbiamo messo a fuoco un equivoco molto comune tra gli spettatori, ossia che quando si viene a teatro si vede qualcosa che è staccato da noi, che non ci riguarda davvero. Così ci siamo messi alla ricerca di qualcosa che potesse esplicitare in modo più diretto il rapporto tra la realtà e il teatro. Agostino ha visto la scena con il pvc posteriore e questo gli ha dato l’idea di una finestra sul fuori; così abbiamo pensato di aprirla concretamente quella finestra. Non ci siamo interrogati sulla possibilità di restituire qualcosa di artistico ma soprattutto di modificare la fruizione dello spettacolo nel momento in cui a esso vengono accostati frammenti di realtà nuda.
In pratica ci saranno nove settimane, ciascuna con un tema legato agli spettacoli in scena. A seconda del tema, dopo lo spettacolo, avremo delle dirette dall’esterno che “raccontano” quel tema. È un meccanismo che si sta formando in questi giorni, non ancora definito neppure per noi. E proprio oggi abbiamo aggiunto la possibilità di aprire una call per spettatori che diventino in qualche modo redazione di questa iniziativa. Ciò che vogliamo è rendere questo progetto il più possibile coautoriale.
Sembra anche un modo per rimediare a quella dinamica di cui parlavi per la quale spesso lo spettatore, chiuso il sipario, chiude la parentesi di teatro della sua giornata.
Sì, quando arriveremo a formulare tutto anche i processi simbolicamente consolidati – arrivo in teatro, mi siedo, aspetto che cali la luce, assisto allo spettacolo ecc… – saranno un po’ diversi; vorremo che ci fossero piccole cose, azioni simboliche inconsuete, che invitino a una partecipazione più attiva. Ad esempio tra il pubblico ci sarà qualcuno che guiderà la diretta dei video live di Adiacente possibile… Mi rendo conto di essere poco preciso ma è davvero un meccanismo in fieri.
Il fulcro però è evidente: un’apertura sul reale, un vero e proprio squarcio che sarà alla base anche dello “smontaggio” del vostro Le cinque rose di Jennifer. Come si è inserito questo ulteriore tassello?
Avevamo programmato Jennifer per tutti i martedì ma qualcosa non mi quadrava: perché rifare Jennifer? Stonava con il progetto che stava prendendo forma. Abbiamo iniziato a ragionare; la scintilla è stata l’idea di sezionarlo – sette martedì, lo spettacolo dura un’ora e mezza, sei quarti d’ora, l’ultimo martedì per la messa in scena… ci ha aiutato anche la matematica. Ho chiamo Igor Esposito e, dopo vari tentativi, alla fine sono riuscito a farmi capire invitando anche lui a ripensarsi, a non avere paura del vuoto di fronte al quale lo stavo mettendo, a cambiare linguaggio, ad andare più verso la vita. Vediamo cosa farà succedere la vita in questo processo, gli ho detto.
Faremo vedere un quarto d’ora di spettacolo e poi lo analizzeremo con lo spettatore, chiedendoci cosa possono diventare oggi Jennifer e Anna. Igor sarà presente a prendere appunti per poi stendere la restituzione finale che andrà in scena l’ultimo martedì. Con questi esperimenti di analogie e connessioni a volte succedono cose meravigliose, altre volte nulla; per cui è un’operazione molto pericolosa ma che ci entusiasma.
Di certo dovremo metterci in discussione, “disintellettualizzarci” senza avere nemmeno paura di incursioni pop.
I grandi autori hanno sublimato la realtà, non hanno avuto paura di farlo, per questo erano contemporanei; invece noi – lo dico anche a me come regista – a volte viviamo l’ombra del teatro in quanto teatro e invece dovremmo immaginare la vita che diventa teatro e non il teatro che diventa vita.
Cosa ti aspetti, in definitiva, da questo Piano BE?
Non so cosa aspettarmi, devo essere sincero, ottobre sembra molto più lontano di quanto non lo fosse a luglio dell’anno scorso.
Ma, volendo tralasciare i dubbi e i timori, con lo spirito da spettatore ti dico che non vedo l’ora che tutto inizi!