FRANCESCA SATURNINO | Sull’enorme schermo sistemato nel cortile di Palazzo Reale di Napoli compaiono, in sequenza, l’interno di un’antica dimora, Goethe ormai al termine della sua vita che dischiude il sigillo della sua opera. Poi gli occhi, le mani e i volti di donne e uomini e anziani in case di cura; immagini favolose del Museo di Olympia; un flusso folle di simboli e pratiche religiose; lo strazio indicibile degli allevamenti intensivi; macchine che violentano animali e la terra; la grande bellezza del cono del Vesuvio, visto dall’alto. Nel frattempo, della musica elettronica cresce, s’insinua, creando inserti e corto circuiti che ci trasportano in una dimensione altra: quello che ci viene mostrato nel raffinato montaggio, è ciò su cui evitiamo accuratamente di posare lo sguardo, ogni giorno.
Mephistopheles, presentato in prima nazionale nei primi giorni del Napoli Teatro Festival, come tutti lavori degli Anagoor è un’opera complessa e, mai come in questi tempi, rivelatrice: un’istallazione video-sonora che condensa e racchiude tutti i segni e i semi che la compagnia di Castelfranco Veneto, in circa vent’anni di attività, ha gettato nel terreno non sempre fertilissimo del teatro contemporaneo nostrano. Quest’anno la compagnia compie vent’anni di vita: un percorso sui generis, da sempre basato su sperimentazione, pedagogia, ricerca e riscoperta del nostro patrimonio letterario e culturale, in direzione ostinata e contraria al pensiero dominante, che sfida il pubblico, alzando l’asticella sempre più in là. Ci eravamo lasciati a Napoli nel 2017, in occasione di una serata memorabile all’Asilo Filangieri con un teatro stracolmo di giovani per l’incontro pubblico seguito al loro Rivelazione. Tornare a Napoli, dove nel 2015 il Festival aveva dedicato loro un mini focus, era più che una promessa.
Il giorno dopo il debutto di Mephistopheles incontro Simone Derai, Marco Menegoni e Michele Mele per una chiacchierata.
Come state?
Simone Derai: oggi è una giornata particolare, dopo il debutto. Sono attraversato da umori strani, non è facile gestire il lavoro che si sedimenta e s’intensifica verso la fine, qualsiasi sia la sua natura. In più, abbiamo vissuto un tempo molto particolare, non lo dobbiamo neanche descrivere.
Marco Menegoni: Anche per me c’è sempre un’emozione altissima ogni volta che c’è un debutto e ho la conferma, ancora una volta che, anche se non sono in scena, per me non cambia assolutamente nulla. Io poi vengo da una situazione molto particolare. Ho vissuto la quarantena in Conigliera, isolato. Ho fatto praticamente il guardiano di Anagoor. (ride) Non era attesa questa condizione: io vivo con mia madre che è anziana. Quando ci sono state le prime restrizioni eravamo appena tornati dalla tournè di Socrate. Ho deciso di non esporla a rischi. Una volta che mi sono trovato in conigliera è scattato il lock down totale: ho passato quaranta giorni nel mezzo della campagna veneta, non ho incontrato anima viva; è stata una dimensione molto particolare, mai esperita in tutta la mia vita. In quarantatrè anni non mi era capitato mai. Si esce modificati.
La pandemia ha influenzato questo debutto? In che modo?
Simone Derai: Questo lavoro ha una genesi precedente. La pandemia non ha influito in termini formali e di contenuto, ma in termini temporali. Abbiamo smesso di lavorarci nei mesi di sospensione. C’era in progetto di scendere in Campania ad aprile e fare delle riprese a Paestum e sul Vesuvio. Le riprese di Paestum non sono state possibili, la seconda sequenza della “tensione memoriale” avrebbe potuto arricchirsi mentre c’è solo il museo di Olympia. Non volevamo assolutamente rinunciare al volo sul cratere: quella è stata l’unica cosa che abbiamo fatto a giugno. Tutto il montaggio è slittato dopo. I computer erano in Conigliera, io ero a Castelfranco, siamo rimasti separati e non sapevamo se il debutto al Festival sarebbe stata cosa concreta. Attesa, attesa. Poi c’è stata una corsa. Dal punto di vista dei contenuti e temi, dal momento che parliamo del mondo, non è profetico, la pandemia è solo una delle possibili conseguenze.
Mephistopheles in parte ripercorre e racchiude i venti annidella compagnia, anche dal punto di vista dei materiali video, sempre presenti nei vostri lavori.
Abbiamo recuperato materiale inedito dai progetti precedenti, tutti gli altri sono comparsi qui e lì in Orestea, Faust, Socrate il sopravvissuto, Virgilio brucia. Di fatto abbiamo ri spalancato i progetti: c’era molto girato mai utilizzato. In parte è come se avessimo sempre saputo che la forma era coerente e che saremmo approdati a una forma unificante rispetto a quelle finestre. Nei lavori precedenti i video avevano una funzione di fenditura drammaturgica: qui assumono uno statuto autonomo. Credo che in parte questo loro procedere quasi fisico, monolitico, confermi quell’essere spaccatura di ciascuno di loro.
Marco Menegoni: Adesso hanno la loro autonomia e si parlano.
Da dove viene fuori Mephistopheles?
Simone Derai: Su Goethe c’è una premessa, alcuni segmenti facevano parte del progetto del Faust di Gounod per i teatri di Modena, Piacenza, Reggio Emilia. La prima parte in cui si vede Goethe che apre il Faust, la casa di riposo, le religioni, la monta dei tori che corrispondeva alla Notte di Valpurga. Quest’ultima non l’hanno molto gradita. (sorride) Ci hanno chiesto di cassare la scena. Abbiamo riscritto il montaggio lasciando di fatto che il corpo animale venisse ingoiato da un taglio visivo, così da esporre la cesura che ci avevano chiesto. È chiaro che ci ha ferito. Per noi non è sconvolgente né l’eros né gli animali, ma non volevamo rafforzare la polemica e sapevamo che invece avremmo potuto prendere il materiale e trovare lo spazio adatto e più definitivo. Questo Mephistopheles è una sorta di costola reattiva rispetto al precedente Faust. Quando ci hanno invitato a lavorare sul Faust di Gounod, ci siamo confrontati con entrambi gli autori. Gounod è francese, parigino, di tutt’altra tempra rispetto a Goethe e c’è tutta una polemica rispetto al fatto che è l’unico compositore che è riuscito a portare il Faust a teatro e l’ha ridotto ad altro, rispetto alla dimensione cosmica e tragica che gli dà originariamente Goethe. In questo caso Goethe dava a noi il “la” per la nostra versione dei fatti e rispetto alla corsa di Faust. È chiaro che è un pretesto. C’è anche un sigillo iniziale questo spaccare e aprire l’opera, un’immagine come quelle medievali con una potenza totemica.
Sia Faust che Mephistopheles diventano un codice.
Di solito voi usate la parola per ridare parola, mentre in Mephistopheles la parola è completamente scomparsa…
Simone Derai: Giungiamo dal lavoro su Eschilo che ha una predominanza assoluta di parola e quello per noi è stato un approdo fondamentale e importante. Non si tratta né di una contraddizione, né un passo indietro: è una co esistenza.
Noi ci siamo incontrati e confrontati in diversi momenti del vostro percorso e quindi anche in diversi momenti del vostro rapporto con Napoli che, con tutti i suoi segni e influenze – anche a partire dalla vostra collaborazione con Michele Mele – ritorna sempre nelle vostre opere. Cinque anni fa eravamo qui al Festival con un vostro focus dedicato e tornare è sempre stata una sorta di promessa. Parliamo di questo rapporto.
Simone Derai: Napoli in questo senso è un rapporto in costruzione. Quello che Michele ci ha aiutato a fare nel tempo, non solo a Napoli, è stato curare un rapporto con il pubblico che è fondamentale. Abbiamo trovato nel paese e in alcune città dei collaboratori che hanno capito l’importanza per un gruppo, un artista della possibilità di confrontarsi a più riprese con una stessa piazza, tornare, mostrare più lavori. Non perché le opere siano più comprensibili e non abbiano una loro autonomia, ma perché intessi una relazione. Sappiamo che il teatro è un’arte effimera e dura il tempo dell’evento. Per noi che stiamo scrivendo un discorso che è fatto anche di arco tra un’opera e l’altra è davvero importante questa continuità. Napoli è una delle città ha risposto a questa possibilità. Per di più ora c’è anche un rapporto con la casa editrice Cronopio: a fine agosto pubblicherà il testo di Orestea con delle riflessioni per ogni episodio della trilogia e un saggio sulla questione della traduzione. Poi c’è stato il riconoscimento in Biennale da un artista napoletano che conosciamo bene. È come una costellazione di eventi.
Marco Menegoni: E poi a Napoli c’è la tomba di Virgilio! Non è una cosa indifferente. Tra l’altro lui (rivolgendosi a Simone Derai) ieri, non contento, per la terza volta, prima del debutto, è andato a visitarla di nuovo, come un pellegrinaggio.
Simone Derai: Ah sì: poi ieri sera ci siamo seduti in una pizzeria e accanto a noi per tutto il tempo c’era un ragazzo che ha parlato di Virgilio, di come protegge Napoli. Strane coincidenze…
Michele Mele: Questa continuità mi fa molto piacere. Il Napoli Teatro Festival con gli Anagoor ha fatto quello che dovrebbe fare con le realtà più importanti, dandogli uno spazio, facendo capire che la gioventù era finita e che siamo diventati “grandi”, anche attraverso questi momenti cui lo stesso festival ha fatto parte. Cinque anni fa ci hanno dato lo spazio per un mini focus che è stato una sorta di sparti acque e lo è stato anche ora, con questo progetto. Cappuccio era interessato agli Anagoor dai tempi della Biennale ma per tutta una serie di motivi non siamo riusciti a concludere, per questo Orestea non è ancora approdata a Napoli. Ma c’è stata una volontà dichiarata da parte del festival, è un dialogo che va avanti da tre anni. Poi spero che il rapporto con la città prosegua: io vivo a Napoli, anche solo nel partecipare al dibattito che la città produce. Io mi riterrò soddisfatto quando riusciremo ad abitare un’area archeologica come Paestum o Pompei, sono sicuro che ci vuole il tempo per garantire una autonomia progettuale che una realtà come Anagoor non può non avere: la possibilità di avere tempi d’incubazione lunghi, lavorare in un atelier che è ne loro territorio. Questa è la sfida: da una parte portare avanti il loro processo creativo così com’è sempre stato, dall’altra dialogare con istituzioni che, anche per quello che i nostri progetti propongono, sono legate ai territori e alle specificità.
Anagoor: vent’anni di compagnia indipendente. Anni fa parlavamo della difficoltà di girare, anche nei teatri del proprio territorio. Cosa è cambiato?
Marco Menegoni: Quello non è cambiato. Noi non rientriamo nei parametri ministeriali e restiamo indipendenti ma negli ultimi anni siamo riusciti a intessere delle relazioni importanti, Orestea è stata la punta di questi percorso. Abbiamo avuto un’egida produttiva molto grande: Anagoor con Centrale Fies, Teatro Stabile del Veneto, Teatro Metastasio, TPE di Torino, pur continuando a essere una compagnia indipendente. È stato per noi il frutto di tutta una serie di collaborazioni che si sono sviluppate gradualmente negli anni. Non nascondo che c’è grande incertezza a causa del periodo post emergenziale che stiamo vivendo: si tratterà di capire come saranno i futuri sviluppi, è ancora presto per dirlo.
Simone Derai: Le grandi differenze sono state determinate anche da piccoli passi fatti ogni giorno, uno dopo l’altro. I cambiamenti sono molti evidenti. Siamo felici di essere riusciti a farlo da soli, senza protezioni politiche, mantenendo questa autonomia anche provinciale cioè di residenza di produzione e di creazione, “off”.
Michele Mele: A questo percorso in Italia si affianca una vita tedesca con il Theater an der Ruhr con cui abbiamo un rapporto co-produttivo, tra l’altro nato a Napoli. Nel 2015 hanno visto la coppia di lavori e hanno voluto Lingua Imperii al loro festival, poi hanno ospitato Socrate e co prodotto Orestea e Mephistopheles.
Simone Derai: Ci hanno chiesto di lavorare con loro per l’ensemble e alla fine abbiamo deciso di tradurre e rifare Socrate in tedesco con un altro cast. Non è una piece, si tratta anche di una composizione visiva: ci siamo imposti una sorta di gemellarità. Abbiamo preso anche degli attori che ci assomigliano, per cui quando lo vediamo sembra un sogno. (ride). A causa dell’emergenza, abbiamo perso alcune date importanti in festival tedeschi. C’è anche Kunstfest-weimar che ha co-prodotto Mephistopheles e ci sarà una micro tournè nella Westfalia. In futuro c’è anche una nuova co-produzione, Germania.
Marco Menegoni: Durante l’emergenza siamo rimasti in contatto. Hanno creato una serie di appuntamenti in streaming con alcuni teatri della Ruhr: ogni settimana una compagnia aveva la curatela di una puntata, anche noi abbiamo fatto una mezzora con loro, così com’è statao per “Radio India”.
Parlando delle opere e dei temi attraversati nell’arco di questi anni, oggi avete le idee più chiare rispetto al vostro modo di lavorare? Cosa c’è nel futuro?
Derai e Menegoni: No! (ridono)
Simone Derai: Orestea per noi rappresenta il culmine di un percorso che non è la fine, ma l’inizio. È come se avesse spalancato un orizzonte nuovo: talmente preponderante la parola, talmente nuova la dimensione del tempo che abbiamo sperimentato. Infatti Orestea è del 2018, siamo nel 2020: non è pronto ancora un nuovo spettacolo teatrale. È in fase di elaborazione lenta, perché dobbiamo rispondere a tutta una serie di nuovi quesiti ma questo rende felice lo stimolo. Mephistopheles sarà presentato al Madre Museo di Arte Contemporanea a di Napoli a settembre come video istallazione. Abbiamo alcune date sia in Italia che all’estero. Dobbiamo capire poi su Orestea cosa succederà, siamo diciassette in scena. Se il covid fosse arrivato in fase di creazione di questo lavoro, non sappiamo oggi Anagoor cosa sarebbe. Siamo stati molto fortunati. Abbiamo finito la tournè a febbraio, abbiamo perso alcune date e seminari, ma il grosso era stato fatto. Conosciamo compagnie il cui lavoro è stato completamente disintegrato dall’avvento della pandemia.
Ultima domanda un po’ più politica. L’ultima volta abbiamo parlato in pubblico all’Asilo Filangieri in occasione di Rivelazione, un lavoro / manifesto in cui è forte la questione di come il vostro territorio negli anni sia stato devastato fisicamente, moralmente, emotivamente dall’avvento della Lega. Volevo sapere quanto questo elemento è ancora forte in quello che fate, seppure le vostre creazioni hanno allargato l’orizzonte, anche se poi i temi ritornano.. E poi una domanda sulla questione “pedagogica”. Voi siete una compagnia che nasce a scuola, se non fosse stato per quell’insegnante di latino e greco che vi ha spinto e educato al teatro, oggi forse non sareste qui. Oggi facciamo tutto, però a scuola e a teatro non si va. Come vedete questa situazione?
Simone Derai: Rispetto alla prima domanda, io credo che il discorso si sia fatto più esplicito, pur non esplicitando: non sono orazioni evidenti e palesi però è come se fossimo quasi fuori usciti da un discorso diagonale. Gli stasimi dell’Agamennone, pur scritti da Eschilo, sono quanto di più esplicito abbiamo mai espresso in scena, attaccando frontalmente la corsa al profitto e l’accumulo.
Marco Menegoni: Ti racconto un aneddoto significativo: quando abbiamo portato l’Orestea al Teatro Verdi di Padova, era la prima volta che ci confrontavamo con il pubblico degli abbonati della nostra regione, dopo vent’anni di vita della compagnia. Una signora, durante l’intervallo, subito dopo i tre stasimi, si è avvicinata alla regia ed era nervosa, aveva una borsa che teneva nervosamente tra le mani. Ha voluto sapere da dove venissimo. Noi abbiamo risposto che siamo di Castelfranco Veneto. Lei è rimasta stupefatta e dopo un po’ ha detto: ma…questa cosa che ho visto è il Veneto. (fa e facciamo una lunga pausa).
Sulla scuola, io credo che questa emergenza sanitaria abbia ancora di più una volta messo a nudo le carenze del nostro sistema teatrale che per decenni non si è occupato realmente di un rinnovamento del pubblico. Temo che questo possa avere esiti tragici nel breve periodo, ora che si cercherà di riaprire le stagioni. L’età media degli spettatori è estremamente avanzata; è come se per una o meglio due generazioni non si sia fatto il lavoro che era necessario fare. Questo lavoro coinvolge e deve coinvolgere, doveva coinvolgere la scuola. E non l’ha fatto. Siamo di fronte a questa sfida che si fa ancora più necessaria e urgente. Come mai in Italia non s’insegna più Storia dell’Arte ma le materie tecnico- scientifiche a discapito di quelle umanistiche?
Simone Derai: Quando abbiamo presentato l’Orestea a Parigi, c’erano gruppi di ragazzi diciamo terza media, primo liceo, non accompagnati, a vedere quattro ore di spettacolo per poi tornare a casa con la metro. Questo succede solo se c’è educazione all’ascolto. Non l’amore incondizionato rispetto a quello che vedi, ma rispetto all’apertura e alla pratica. Puro allenamento. Come la lettura. Qualsiasi cosa diventa faticosa, se non lo pratichi. Siamo un paese che non allena. Che ha paura di offrire percorsi di allenamento. Questo riguarda la scuola, quindi rapporto tra Stato, famiglia, scuola e quindi poi teatro, musica. E, viceversa, le istituzioni teatrali dovrebbero entrare in contatto con stato, famiglia, scuola. Mentre l’accademia in senso ampio dovrebbe aprirsi…
Solita domanda che faccio in chiusura: cosa state leggendo in questo momento?
Marco Menegoni: ho appena finito di leggere In ogni cosa c’è stata bellezza, Vilas. Parla di come la propria memoria personale subisca delle modifiche e ci sia, nell’età adulta, un’importante dovere di confrontarsi con la propria memoria dell’infanzia per rielaborarla e far si che non si perdano dei passaggi con i propri genitori, quando diventano anziani.
Simone Derai: Adesso sembro il solito nerd. Sto leggendo Tacito, gli Annales. Ma anche io ho letto prima il libro di Marco.
Michele Mele: Ho appena iniziato La ladra di frutta, Peter Handke.