RENZO FRANCABANDERA | Una rassegna teatrale nata nel 1948 sotto l’egida spirituale di William Shakespeare qualcosa deve pur aver significato, in questi oltre settant’anni, per la comunità a cui si rivolge. La settantaduesima edizione dell’Estate Teatrale Veronese presenta per l’edizione 2020, dal 18 luglio al 21 settembre, un ricco programma di teatro, danza e musica che conferma e per certi versi rilancia Verona come punto di riferimento nel panorama culturale nazionale.
Frequentata da cittadini, turisti, ospiti della città, Estate Teatrale Veronese, – realizzata dal Comune di Verona – Assessorato alla Cultura con il sostegno del Ministero dei Beni e delle Attività Culturali e della Regione Veneto con la collaborazione di Arteven – si prospetta come appuntamento importante nel panorama culturale nazionale in questa strana estate. Al Teatro Romano, sede storica del festival che accoglierà nove prime nazionali e cinque coproduzioni, si aggiungono quest’anno il Chiostro di Santa Eufemia e Forte Gisella, due suggestive location che ospiteranno progetti legati ai giovani e agli spettatori più piccoli.
Prendiamo spunto dall’evento, per un incontro aperto e molto esteso con il direttore artistico Carlo Mangolini, uno dei manager culturali più significativi della sua generazione, per il Veneto e non solo.
Carlo, ti trovi a svolgere il tuo ruolo di direttore artistico in un tempo davvero strano, ma non vorrei parlare di virus e distanze, ché non se ne può più. Dicci invece la cosa più bella che ti è capitata da quando ti hanno comunicato che avresti ricoperto questo ruolo e come hai trovato Verona.
Partirei da Verona e da come l’ho trovata. Sono arrivato dopo una direzione che durava da oltre quarant’anni, quella di Gianpaolo Savorelli, a cui va la mia più sincera stima per l’impegno e la dedizione con cui ha svolto questo ruolo. D’altro canto una gestione così lunga finisce per creare inevitabilmente un sistema di equilibri e di rapporti consolidati difficili da scardinare, o quanto meno da ripensare. Da sempre sono un fautore del ricambio ciclico ai vertici di una realtà culturale, qualunque essa sia. L’esperienza mi insegna che stare troppo tempo nello stesso posto finisce con il creare un processo di identificazione che non fa bene né alla struttura né a chi la dirige. Per questo ho cercato, durante il mio percorso professionale, di trovare sempre nuove sfide e di confrontarmi con differenti enti e differenti modi di lavorare.
Come ho fatto ogni volta che ho iniziato un’avventura professionale ho passato i miei primi mesi veronesi – ho avuto l’incarico lo scorso settembre – a leggere la città, per capirla, per ascoltare i diversi artisti e operatori del territorio. Verona è una città di una bellezza abbagliante ma, come per buona parte del Veneto, è un posto ricco di contraddizioni. Solo a titolo di esempio si può leggere questa dicotomia: da un lato è una delle città dove il teatro amatoriale è maggiormente presente, e direi anche influente, dall’altro è uno degli avamposti veneti che ha generato alcune delle esperienza artistiche di ricerca più interessanti a livello nazionale, penso a Babilonia Teatri, o per la danza a Chiara Frigo, Camilla Monga o Sonia Brunelli. Artisti che però hanno trovato spazio e ascolto fuori dalle mura della città. Eppure un certo William Shakespeare qualche secolo orsono scriveva: «Non esiste mondo fuori dalle mura di Verona, ma solo purgatorio, tormento, inferno. Chi è bandito da qui è bandito dal mondo, e l’esilio dal mondo è la morte».
Citazioni a parte, se devo parlarti di una cosa bella che mi è capitata da quando sono diventato direttore artistico dell’Estate Teatrale finisco, mio malgrado, con il citare il famigerato “lockdown”. È stato proprio in quel momento, nella forzata distanza fisica, che ho avvertito la vicinanza dell’intero sistema teatrale cittadino, ho sentito di essere parte di una comunità che aveva voglia di voltare pagina, di mettersi in gioco e di ricominciare. Per questo devo ringraziare più di chiunque altro l’assessore alla cultura del Comune di Verona Francesca Briani, che è stata la vera chiave di accesso a un sistema per troppo tempo chiuso e ripiegato su se stesso. Da lì ho sentito la spinta che ha reso possibile una ripartenza all’apparenza irrealizzabile, almeno per il percepito di quei giorni. Il programma artistico che ne è nato è espressione della volontà di un’intera città di non arrendersi, di voler ricominciare proprio dallo spettacolo e dalla cultura.
Ma tu da bambino in realtà cosa volevi fare? Davvero volevi lavorare per il teatro?
Da bambino il teatro non abitava minimamente i miei pensieri, in realtà l’innamoramento per il palcoscenico e tutto ciò che lo riguarda è arrivato in età adulta, intorno ai 25 anni. Da bambino giocavo molto con i Lego e quindi da grande volevo costruire case. Pensandoci bene in fondo qualche traccia di quel desiderio infantile è comunque sopravvissuto. La parte del mio lavoro che amo di più è proprio quella della costruzione di un progetto artistico. La fase dell’ideazione mi galvanizza, quando arrivano proposte che si sposano alle altre o quando offri agli artisti uno stimolo che poi prende forma, sono tutti momenti che riescono ancora ad emozionarmi tantissimo. Non penso mai ai singoli spettacoli come a qualcosa a sé stante, devono fare parte di un racconto unico, capace di creare rimandi continui, collegamenti espliciti o sottotracce che il pubblico è chiamato a riconoscere e decodificare.
Hai un rapporto molto intenso con il Veneto e l’arte. Ricordo il nostro primo incontro, ormai oltre un decennio fa, a Bassano, quando nacque durante una storica edizione di Bmotion anche il collettivo C.Re.S.Co.
Ma poi sei stato in tantissime strutture, con ruoli di prestigio. Cosa hai fatto in questi dieci anni? Raccontaci qualche gioia e qualche dolore.
Bassano e Bmotion sono e rimarranno sempre nel mio cuore, come pure l’edizione a cui ti riferisci che per me è stata un vero punto di svolta. Era il 2010 e dopo dieci anni passati al festival sentivo che la nascita di CRESCO rappresentava il raggiungimento di un obiettivo importante e che in qualche modo sintetizzava perfettamente tutto il lavoro fatto fino ad allora. Era arrivato per me il momento di cambiare qualcosa e così ho mantenuto una presenza sul festival sempre più defilata occupandomi, dal 2011 al 2016, di dirigere il Teatro Comunale di Lonigo, un bellissimo teatro storico in una cittadina del vicentino che mi ha dato modo di confrontarmi con il pubblico della provincia abituato alla tradizione più pura provando a portarlo da un’altra parte. Ricordo che il visual della mia prima stagione era curato da Anagoor, un gruppo a cui mi lega un rapporto quasi familiare. È stato uno dei tanti regali che mi hanno fatto, assieme a una mostra fotografica dei loro lavori che proponeva a quel pubblico un modo alternativo di fare teatro.
Ma il vero punto di svolta per me è stato l’inizio della collaborazione con il Teatro Stabile del Veneto iniziata nel 2014, quando Massimo Ongaro è diventato direttore. Entrare in una struttura complessa come quella di un teatro stabile, abituato com’ero all’estrema flessibilità di Operaestate, è stato un vero choc, almeno all’inizio. La cosa però che ho amato di più, e che amo ancora, di quella esperienza è stato proprio il lavoro di squadra, di riorganizzazione e ripensamento dei vari settori, realizzato assieme all’intero staff con cui ho creato un rapporto bellissimo, ma soprattutto la costruzione di un dialogo fertile con il territorio, che fino a quel momento era stato del tutto assente. Più difficile è stato riuscire a dare un’impronta artistica precisa, nonostante l’apertura verso il contemporaneo che abbiamo saputo dare sin da subito. All’inizio pensavo che avremmo potuto rivoluzionare tutto nel giro di qualche mese. In realtà ho capito che il cambiamento richiede tempo e pazienza e arriva quando le condizioni sono giunte al necessario punto di maturazione. Di questo devo ringraziare Massimo Ongaro che è stato ed è tutt’ora un collega, amico e compagno di viaggio ideale. L’ultima grande soddisfazione che mi ha dato l’esperienza del Teatro Stabile è l’aver ripensato completamente il dipartimento formativo di cui sono diventato responsabile nel 2017. Lavorare con i giovani attori, vederli crescere, maturare, scoprire la propria personalità e farla emergere in scena, è un lavoro impagabile che prima o poi spero di poter tornare a fare a tempo pieno.
Come hai costruito il programma dell’Estate Teatrale Veronese? È un pubblico che ha avuto per anni una proposta un po’ “tradizionale” riguardo al linguaggio dello spettacolo dal vivo. La tua è una proposta di cambiamento? Di equilibrio? Quale idea hai del tuo progetto rispetto al passato ma anche al futuro possibile di questo evento?
Ripensare un festival fortemente legato alla tradizione senza perdere il pubblico che negli anni ha conquistato a fatica, provare a tradirlo pur rispettandolo, non è certo cosa facile. Aver lavorato negli ultimi dieci anni in contesti così diversi e con pubblici altrettanto diversi mi ha fatto capire che non esiste un pubblico intellettualmente superiore a un altro, semmai esistono diversi sguardi su diversi oggetti scenici che vanno rispettati in egual misura. Pensare di replicare a Verona l’esperienza di Bassano sarebbe una follia, perché da una parte mi porterebbe a rifare qualcosa che ho già fatto e dall’altra tradirei gli spettatori che sono per me il terminale ultimo a cui si rivolge il mio lavoro. Questo non vuol dire abdicare a un’idea o a un progetto artistico per accontentarli a tutti i costi, vuol dire semmai mettersi in ascolto e provare a fare sintesi tra quello che loro si aspettano da me e quello che io mi aspetto da loro.
Partendo da questo assunto il programma che ho costruito quest’anno, per la natura stessa di come e soprattutto di quando è nato, ha inciso in modo indelebile il marchio del lockdown, che si può rintracciare in progetti nati in quel momento o da quel momento o che riflettono sul tema della comunicazione a distanza, anche se spostata indietro nel tempo in una dimensione più epistolare che da call conference. D’altro canto il segno distintivo di ciò che mi piacerebbe realizzare per il futuro si può rintracciare in tre progetti che portano avanti il tentativo di mettere insieme nomi popolari della tradizione, del cinema o della tv e artisti provenienti dalla scena della ricerca. Aver fatto incontrare Ugo Pagliai e Paola Gassman con Babilonia Teatri per realizzare un’inedita riscrittura di Romeo e Giulietta oppure Chiara Francini con Fanny e Alexander per L’amore segreto di Ofelia di Steven Berkoff o ancora Fabrizio Arcuri con Isabella Ferrari nella Fedra di Ghiannis Ritsos, sono i primi segni tangibili di come mi immagino l’Estate Teatrale Veronese che verrà. Un festival che conservi la sua matrice shakespeariana come segno distintivo ma che allo stesso tempo provi a ripensarla, grazie al contributo di artisti italiani e internazionali in grado di dare nuova luce ai classici, riportandoli a noi e al nostro tempo.
Secondo molti la grande scuola dei direttori artistici che c’è stata in Italia negli anni Settanta Ottanta è tramontata. Eppure non sono poche le figure interessanti di curatore delle arti sceniche in attività. Siamo alle soglie del rinnovo di una delle cariche manageriali più importanti come quella del Piccolo Teatro. Che lavoro è quello del direttore artistico oggi?
Dici bene, ci sono molti curatori che non hanno niente da invidiare ai grandi maestri del passato. Colleghi che stimo e ammiro per il lavoro che fanno e per la capacità di dare un’impronta forte in senso culturale, etico e politico alle strutture che dirigono. Penso a Umberto Angelini e allo splendido lavoro che sta portando avanti in Triennale operando in una città complessa come Milano o a Massimo Mancini che ha dato una svolta importante in termini produttivi e di dialogo con il territorio a Sardegna Teatro, o ancora, per passare all’ambito festival, a Edoardo Donatini per la costanza e coerenza con cui porta avanti Contemporanea a Prato o Barbara Boninsegna che ha fatto di Centrale Fies un laboratorio permanente di sperimentazione unico in Italia. Ma di nomi ne potrei fare molti altri dal cui esempio e grazie al confronto costante ho costruito il mio modo di essere direttore artistico. Per me questo lavoro è prima di tutto un gioco di squadra che vede operare per un comune obiettivo soggetti con ruoli e compiti complementari, dagli artisti allo staff e al pubblico. Un lavoro che richiede una grande capacità di ascolto ma anche di sintesi tra esigenze, pensieri e istanze diverse. Un lavoro che non può essere monolitico e non può imporre una visione artistica unilaterale ma che deve tenere conto del territorio nel quale va a operare e che, prima di sollecitare un suo cambiamento o una svolta culturale mirata, deve imparare a conoscerlo profondamente, per non rischiare di azzerare completamente relazioni fiduciarie costruite nel corso degli anni. Un lavoro che richiede tempo e pazienza per poter realizzare obiettivi ambiziosi e sviluppare un’impronta identitaria precisa e riconoscibile.
Come ti rapporti ai colleghi delle altre strutture? Che vuol dire pensare arte per un territorio oggi, progettare, produrre? E come immagini sarà il ruolo in questo tempo complesso?
Rischio di essere ripetitivo ma per me la relazione con gli altri è un aspetto imprescindibile di questo lavoro, colleghi compresi. Mi piace confrontarmi il più possibile con tutti, con quelli che stimo di più ma anche con quelli che stimo di meno. Capire il perché di alcune scelte, entrare nel merito delle singole situazioni, conoscere le differenze in un mondo così plurale come quello del teatro può solo aiutare a prendere da tutti gli stimoli più interessanti. Bisogna essere coscienti di operare in un sistema teatrale che mette insieme soggetti diversi, ognuno con il suo ruolo specifico e la sua funzione principale. Mi piace pensare a un modello relazionale che non crei isole separate tra loro ma che sappia mettere insieme le diversità affinché ognuno possa beneficiare della specificità dell’altro. Parlo di quello che conosco meglio ovvero il Veneto, la regione dove vivo e lavoro da 23 anni e che con tutti i suoi limiti e le sue difficoltà amo profondamente. Qui convivono due soggetti forti come il Circuito Teatrale Arteven e il Teatro Stabile che stanno cercando, non senza difficoltà, di trovare un modo per collaborare, ognuno per la sua specificità.
Per quanto riguarda il ruolo di un festival come l’Estate teatrale Veronese, il lavoro che immagino per il prossimo futuro corre lungo quattro linee di indirizzo che cercherò di portare avanti pur con i limiti che il post covid potrà determinare:
La coerenza progettuale
Il festival non può limitarsi a sviluppare una funzione produttiva o di ospitalità dei migliori artisti nazionali ed internazionali. Per dare un’anima alla vocazione culturale di un territorio è indispensabile che questo sappia comunicare la sua identità in modo coerente e coordinato. Elemento essenziale di tutto questo è sviluppare un “racconto del festival” in senso unitario, dove la centralità del progetto diventa uno spunto reale per mettere in comunicazione tra loro artisti di diversa estrazione, connettendoli con il tessuto urbano e sociale nel quale andranno poi ad operare.
La dimensione multidisciplinare
Il concetto di multidisciplinarietà non può e non deve limitarsi semplicemente a giustapporre un programma di prosa, uno di danza e uno di musica. L’ispirazione shakespeariana come matrice di partenza vuole anche essere il giusto pretesto per riuscire a far dialogare attori, danzatori e musicisti in progetti produttivi articolati. Proposte artistiche in grado di mescolare i linguaggi, sempre nel rispetto della tradizione ma con aperture verso nuove contaminazioni e autentici tradimenti.
La città al centro
Verona è una città che respira arte e cultura e trasferisce questa sua vocazione a chiunque entri in contatto con il tessuto urbano. Per renderla davvero protagonista attraverso lo spettacolo dal vivo, vorrei sviluppare progetti artistici che, partendo dalle prestigiose sedi già individuate, prima tra tutte il Teatro Romano, possano aprirsi poi all’intera città, andando ad abitare piazze, musei e monumenti. Un modo per offrire speciali ambientazioni, che faranno incontrare paesaggi e storie, grazie a percorsi studiati appositamente a partire delle mille suggestioni offerte dalla città.
L’arte partecipata
Rendere protagonista la città dunque, ma assieme a lei anche i suoi cittadini. È questa un’altra linea di indirizzo sulla quale vorrei lavorare per creare progetti partecipati in cui speciali categorie sociali o generazionali (per esempio adolescenti e anziani) diventino parte attiva di un racconto che li riguarda e li coinvolge in prima persona. L’apertura a simili modelli di lavoro nasce dalla convinzione che l’arte possa essere un dispositivo in grado di produrre dei cambiamenti. Da questo discende anche la volontà di creare connessioni con gli spazi dell’associazionismo culturale locale, per una comunità che sia davvero protagonista.
Cosa diventi quando stacchi dal lavoro, se stacchi: cucini, leggi, viaggi? Dove ti rifugi quando sei stanco?
Quando stacco divento stupido… Non scherzo ma per compensare l’impegno, il pensiero, la concentrazione che metto in tutto quello che faccio quando svolgo il mio lavoro, che poi fortunatamente è anche la mia più grande passione, mi dedico a cose che preferisco non raccontare per evitare di rovinarmi la reputazione, semmai ne avessi una. Scherzi a parte di sicuro non cucino perché non sono capace, per fortuna c’è qualcuno che cucina per me, amo moltissimo viaggiare e, in questo, passo dall’essere il turista più fai da te al più organizzato, dipende dal grado di stanchezza. Amo molto andare al cinema e leggere, per lo più testi teatrali, una vera ossessione, ascolto molta musica, soprattutto italiana, e mentre l’ascolto spesso canto, anche se male. Ultima cosa che ti rivelo è che con un passato da assiduo frequentatore di discoteche, parliamo dell’ultimo decennio del secolo scorso, mi piace tantissimo ballare, ma non rivelarlo alla mia amica Gribaudi sennò mi recluta per qualcuno dei suoi progetti con gli anziani.
Se pensi agli spettatori di oggi, ai primi che ospiterai quando partirà la rassegna, vorresti dire loro che…?
Più che dire vorrei augurare loro di provare le stesse emozioni di quando ho visto la mia prima regia di Peter Brook: Giorni felici di Samuel Beckett con la compianta Natasha Parry, attrice dal talento straordinario. Un’emozione così forte, al limite dello stordimento. Era uno dei miei primi lavori da spettatore consapevole, un’autentica rivelazione. Ecco, se anche solo uno di loro riuscirà a provare un’emozione simile vorrà dire che avrò fatto bene il mio lavoro.