LAURA BEVIONE | È già capitato che la vostra cronista teatrale vi parlasse di “repertorio” – a proposito de Il berretto a sonagli diretto e interpretato da Valter Malosti. L’occasione per ritornare sul tema è il riallestimento di due spettacoli andati in scena anni prima, Giulietta e Una specie di Alaska, entrambi nel cartellone estivo torinese Summer Plays.
Due lavori riproposti seguendo paradigmi artistici differenti e che, nondimeno, offrono l’opportunità di individuare peculiari visioni dello spettacolo dal vivo e di riflettere su di esse.
Il teatro, si sa, è arte precaria e transeunte, quasi impercettibilmente vulnerabile agli umori di interpreti e pubblico, e ciascun spettacolo, dunque, inevitabilmente registra e rispecchia cambiamenti e smottamenti dell’animo, individuale e sociale.
Ecco, allora, che rimettere in scena uno spettacolo dopo un certo intervallo di anni può significare offrire una cartina al tornasole – per quanto parzialissima e soggettiva – delle metamorfosi intervenute nel nostro mondo, ma anche testimoniare il percorso compiuto dal regista, alla ricerca di una (im)possibile coerenza.
È evidente che ciò di cui si parla non è il “teatro-monumento” – L’arlecchino servitore di due padroni di Strehler, messo in scena nel 1947 e da decenni in cartellone al Piccolo di Milano – bensì il teatro in costante e vivo dialogo con il presente, così come lo intendono Valter Malosti e Valerio Binasco, registi rispettivamente di Giulietta e di Una specie di Alaska.
Malosti mise in scena l’adattamento teatrale – realizzato da Vitaliano Trevisan – del racconto scritto da Federico Fellini nel lontano 2004, dirigendo Michela Cescon e regista e interprete si aggiudicarono allora prestigiosi riconoscimenti. Perché, allora, tornare a Giulietta? Il centenario felliniano, certo, ma una ricorrenza, per quanto significativa e potenzialmente favorevole dal punto di vista promozionale, non è sufficiente a giustificare quello che è un vero e proprio rimodellamento dello spettacolo, calibrato anche sulla personalità della nuova interprete, Roberta Caronia.
Malosti riprende la scenografia – la pista di un circo, al centro della quale è bloccata Giulietta, circondata da scarne e inquietanti marionette di varie dimensioni – e il copione originari, ma pare approfondire e forse complicare la drammaturgia musicale, che in maniera più decisa e matura s’incrocia e s’interconnette con il monologo della protagonista.
Il regista spinge con più forza il pedale conturbante del testo, marcandone i tratti psicanalitici, entrando quale una sonda nell’intricata psiche di Giulietta, che oscilla fra passato e presente, ricordi e sogni, verità e illusione di realtà, fanciullesca ingenuità e adulta consapevolezza.
Un cangiante spettro di sentimenti e attitudini che Roberta Caronia personifica con passionale carnalità, amplificando così quel contrasto fra mente e corpo, sogno e realtà, spiriti benevoli e incubi concretissimi che informa il racconto felliniano. L’attrice aderisce con generosa e duttile totalità al proprio personaggio, restituendone la sofferenza e la pur speranzosa desolazione. Un’interpretazione che rinuncia a quei repentini tratti di ironia che contraddistinguevano la prova della Cescon e che sottolinea la disperata volontà di credere della protagonista.
Questo Giulietta dunque è ancora lo spettacolo di sedici anni fa – il copione, l’impianto scenografico, il costume, le marionette – e allo stesso tempo è altro, non soltanto poiché la nuova interprete imprime, pur restando fedele alla drammaturgia e alla regia originali, la propria personalissima incarnazione della protagonista felliniana, ma anche perché l’esperienza artistica ed esistenziale accumulata da Malosti ne modifica la misura intellettuale ed emozionale.
Lo stesso si può dire a proposito della regia di Valerio Binasco che, in questo caso anche con gli stessi interpreti – Sara Bertelà, Orietta Notari, Nicola Pannelli -, riprende Una specie di Alaska di Harold Pinter, messo in scena la prima volta nel 2014. Il regista, da una parte non può che fare riferimento alla contingenza, dall’altra, in modo assai più significativo, accentua il carattere potremmo dire quasi metafisico del dramma pinteriano.
Un’impostazione oggettivata dalla nuova scenografia – creata da Jacopo Valsania – che accentua la fredda e asettica natura ospedaliera della stanza in cui da quasi trent’anni abita la protagonista Deborah. Scompare la colorata coperta patchwork della prima versione; sedie, tavolino e comodino sono di lucido acciaio; e il fondale mantiene a tratti la scena in una penombra crepuscolare.
Il ghiaccio dell’”Alaska” in cui metaforicamente ha vissuto la protagonista – “addormentata” da un’encefalite virale, curata grazie all’iniezione di una nuova medicina – non si è ancora disciolto, sembra suggerirci Binasco e, anzi, quello stato di gelida sospensione del tempo pare avvolgere tutti, a partire dal medico/cognato e da Pauline, la sorella della protagonista.
La regia sa anche flettere credibilmente alla drammaturgia necessità contingenti: la mascherina che il medico e la sorella devono indossare quando si avvicinano a Deborah pare una misura dettata dall’esigenza di preservare una paziente con basse difese immunitarie e non tanto – o non solo – dalle norme anti-Covid…
Binasco riesce così, da un lato, a non ignorare l’attualità, il particolare momento storico che stiamo vivendo; dall’altro ad ampliare e complicare il discorso, evidenziando quanto arbitrario e relativo possa essere il concetto di “vita”: siamo sicuri che la nostra esistenza prima del lockdown fosse davvero verace e attiva, ovvero il torpore la circondava già da tempo? La protagonista del dramma di Pinter ha trascorso ventinove anni della sua vita in uno stato di letargia, ma lo stesso tempo speso da Pauline e dal marito ad attendere il suo risveglio, cos’è stato?
Binasco attenua lo humor che pur punteggia il play, e che è pure una delle sue cifre stilistiche, ma con saggia eppur incredula misura mette in scena una sorta di parabola sul sonno – dei sentimenti, della volontà, delle azioni – con la quale a tratti l’umanità sceglie di avvolgere la propria esistenza, sospendendola nell’attesa che sia scoperto finalmente un vaccino contro questa pandemia di accidiosa ovvero pavida inettitudine…
Ombre cupe circondano dunque questa rinnovata messinscena di Una specie di Alaska che, nondimeno, risplende per le consapevoli e solide prove dei tre interpreti, essi stessi “invecchiati” ma, a differenza dei propri personaggi, forti di una vita profondamente vissuta che dona umano spessore alle loro lodevoli e commuoventi prove, prima fra tutte l’adolescente/donna matura Deborah magnificamente incarnata da Sara Bertelà.
GIULIETTA
(dal racconto Giulietta – ed. Diogenes Verlag 1989 / il Melangolo, 1994)
di Federico Fellini
adattamento teatrale Vitaliano Trevisan
regia e progetto sonoro Valter Malosti
scene Paolo Baroni
luci Francesco Dell’Elba
costumi Patrizia Tirino
marionette Gianni Busso
musiche originali Giovanni D’Aquila
ricostruzione e rielaborazione del suono Fabio Cinicola
assistente alla regia Alba Manuguerra
con Roberta Caronia
produzione TPE – Teatro Piemonte Europa
ringraziamenti Istituto per i Beni Marionettistici e il Teatro Popolare
con il patrocinio di FELLINI 100 Celebrazioni per il Centenario della nascita di Federico Fellini
La prima versione dello spettacolo è stata realizzata da Teatro di Dioniso; in collaborazione con Teatro Regio di Torino / Piccolo Regio Laboratorio
UNA SPECIE DI ALASKA
di Harold Pinter
traduzione Alessandra Serra
regia Valerio Binasco
scene e luci Jacopo Valsania
costumi Sandra Cardini
con Sara Bertelà, Orietta Notari, Nicola Pannelli
produzione Teatro Stabile di Torino – Teatro Nazionale,TPE – Teatro Piemonte Europa
Teatro Carignano, Torino
23 giugno e 14 luglio 2020