ILENA AMBROSIO | «L’arte è quando mettiamo vicine cose tra loro inimmaginabilmente avvicinabili, e queste due presenze generano qualcosa di utile».
Henri Poincaré, in due righe, spiega con lucidità ed efficacia il meccanismo di associazione dal quale l’arte scaturisce ma che, ancora prima, sta alla base di quel particolare gioco infantile nel quale una cosa diventa un’altra, gli oggetti prendono vita e si può parlare con le bambole; quello che Piaget ha definito gioco di finzione.
Arte e gioco di finzione. Che poi, a ben vedere, sono la stessa cosa.
Lo sono di certo nell’universo del teatro infantile di Chiara Guidi, del quale il cartellone del Napoli Teatro Festival ha accolto un astro: Edipo. Una fiaba di magia (realizzato nell’ormai consolidato dialogo con Vito Matera).
Teatro infantile: una definizione – nonché il titolo del libro scritto dalla Guidi insieme a Lucia Amara (Luca Sossella Editore, 2019) – che inquadra una poetica per la quale il teatro, luogo dello sguardo alimentato dall’ascolto, si offre a un pubblico di infanti, coloro che vivono prima del linguaggio. Fruitori non definiti dal dato anagrafico ma dalla capacità di attuare proprio quel gioco di finzione, di rinominare le cose dando loro una vita nuova e diversa; di porsi di fronte a delle immagini, sospendendo il giudizio critico, in ascolto delle domande che da esse provengono.
«Io chi sono?». Proprio una domanda dà l’abbrivio a Edipo. «Io chi sono?» chiede un giovane – nei panni di un reduce di guerra, zoppo, appoggiato a una stampella – al grande velo di raso bianco che, a mo’ di sipario, copre la scena. Un alito di vento gonfia il tessuto, un nuovo lucore ne evidenzia la lucentezza e Sfinge – voce dal colore antico, dal tono profetico e un tantino beffardo – parla.
Da qui la vicenda di questo giovane Edipo in cerca della propria identità, si fa paradigma dell’aspirazione al vero, in un avvicendamento di tableaux che riprende, come suggestione ma con sapienza, il mito platonico della caverna.
Il contorno semicircolare di una caverna delimita il velino di tulle che, scoperto l’enigma e caduto il velo della Sfinge – primo passo verso la luce del vero –, filtra la vista della scena. Edipo ne resta al di qua e si addormenta; non è ancora pronta la sua coscienza ad affrontare la ricerca. Al di là si anima a poco a poco un mondo sotterraneo, il grembo di una «terra desolata» in attesa che arrivi il «fuoco della verità» per rinascere. Un paesaggio arido, di sabbia e rocce, nebbioso nella immaginifica scena pensata da Vito Matera, accoglie personaggi che sono insieme simboli e allegorie, che rievocano mito e folklore, tragedia e filosofia, fiaba e favola. Interpreti, celati dietro maschere maestose, e oggetti personificati sono infusi di vita dal soffio di voci – di Eva Castellucci, Anna Laura Penna, Gianni Plazzi, Sergio Scarlatella, Pier Paolo Zimmermann – come provenienti da un altrove, modulate in sonorità, timbri, ripetizioni onomatopeiche che, a mo’ di pennellate, dipingono la fisionomia dei personaggi, inanellandosi nella catena di sperimentazioni sulla voce e il suono di Chiara Guidi e della Societas senza, per questo, ridursi mai a sterile esercizio.
Il teatro come luogo dello sguardo alimentato dall’ascolto. Tutto lo sguardo e tutto l’ascolto sono catturati da queste “figure parlanti”, ora accompagnate ora interrotte dalla fiammeggiante materia sonora del violoncello di Francesco Guerri (musiche tratte dall’album Su Mimmi non si spara!) e dalle evoluzioni elettroacustiche di Scott Gibbons con il quale, oramai da anni, procede la sperimentazione di una «musica che sia portatrice di un significato che si manifesta» (così affermava Chiara Guidi riferendosi alla performance del 2011 Augustinian Melody) .
Un bulbo e un tubero impazienti di sbocciare: due ammassi di gomitoli di tessuto che si spostano a quattro zampe; un gruppo di aste sormontate da maschere stilizzate: un coro – propriamente il coro tragico – di rami secchi dalla secca voce che ripete «Frusch! Frusch! Frusch! Frusch!»; l’uccello Creonte, movimenti e tono regali in una tunica blu cobalto; la talpa Tiresia dalla gigantesca testa e dalle enormi zampe, che si muove lenta e incerta nel suo abito di taffetà bordeaux; un simpatico ragnetto dalla voce piacevolmente nasale che, di tanto in tanto, cala dall’alto, per «trovare il bandolo della matassa» e «tessere la tela» della vicenda. E poi la Terra, colei che «è madre e sposa di tutti» – in una panica unione del tutto è riassorbita l’indecenza dell’incesto –, voce accogliente che pare emessa direttamente dalla fioca luce diretta che illumina la roccia dalle morbide linee femminili che è il suo cuore.
Nel loro racconto la storia tragica di Edipo si declina in favola esopica e insieme fiaba – è una Fata Bianca, evidentemente imparentata con la Malefica di La bella addormentata, a segnare con un incantesimo il destino di Edipo fin dalla sua nascita – ma è anche percorso di formazione lungo il quale Edipo potrà ricordare il passato e dare risposta alla domanda che lo insegue.
Il ragazzo si sveglia, nuovo passo verso la conoscenza: è tutto vero o è solo immaginazione ciò che vede? Su un fascio di luce orizzontale che taglia il velino, esili ombre vagamente antropomorfe – il muro, le ombre, Platone –, danno forma alle parole della madre Terra che narrano la storia di un bambino maledetto, abbandonato, e poi inconsapevolmente parricida. Il colpevole è lui, lui la causa dell’aridità della terra, meglio, la sua ignoranza della verità. «L’uomo deve combattere contro le brutte pieghe del suo destino – gli sussurra la madre Terra – Vieni!… Solleva questo velo… entra! Vieni vicino a me!». È il passo decisivo verso la consapevolezza e la crescita: Edipo oltrepassa il velo (di Maya) ed entra nella sua storia, per riconoscerla, accettarla e perdonarla.
«La vera magia è quella del perdono» sentenzia la madre Terra. Da quel perdono, ricevuto dalla comunità e concesso a sé stesso, Edipo potrà ripartire per diventare uomo, così come la terra, vivificata dal fuoco della verità, potrà tornare a produrre frutto.
Eppure non è una lezione di morale per bambini questo Edipo. La storia prende letteralmente corpo nella e sulla scena offrendo prima di tutto allo sguardo e all’ascolto il proprio senso. L’artigianato e la tecnica, la cura estetica, la sperimentazione vocale e sonora precedono la pedagogia e, lungi dall’essere pura forma, si fanno veicolo primario della narrazione. Una narrazione non semplificata per essere a “misura di bambino” ma che si colloca essa stessa in quel luogo antecedente il linguaggio in cui vivono gli infanti: «i bambini non hanno bisogno di arte ma di una relazione d’arte». Allo stesso tempo, però, il racconto si fa matrioska da smontare per scoprire – con l’intelletto e insieme l’immaginazione – uno dopo l’altro, i livelli semantici che lo costituiscono.
Un’operazione raffinata ma il cui risultato raggiunge e accoglie con semplicità e un’estrema immediatezza.
Davvero una magia che si offre piena e disarmante a chi sa accoglierla da infante.
EDIPO. UNA FIABA DI MAGIA
ideazione Chiara Guidi in dialogo con Vito Matera
con Francesco Dell’Accio, Francesca Di Serio, Chiara Guidi, Vito Matera, Filippo Zimmermann
e con le voci di Eva Castellucci, Anna Laura Penna, Gianni Plazzi, Sergio Scarlatella, Pier Paolo Zimmermann
musica Francesco Guerri, Scott Gibbons
scena, luci, costumi Vito Matera
prosthesis Istvan Zimmermann e Giovanna Amoroso – Plastikart studio
realizzazione scene Laboratorio Scenografia Pesaro – Trecento Lidia
fonica Andrea Scardovi
tecnica Francesca Di Serio, Asia Pirini, Eugenio Resta
responsabile di produzione Benedetta Briglia
assistente alla produzione Caterina Soranzo
cura Elena de Pascale
amministrazione Michela Medri, Elisa Bruno, Simona Barducci
consulenza amministrativa Massimiliano Coli
produzione Societas
coproduzione Emilia Romagna Teatro Fondazione
Un particolare ringraziamento a Roberta Ioli e Sabrina Raggini