RENZO FRANCABANDERA | È una scelta difficile, dire basta. Come se si possa dire basta quando sposi la causa dell’arte.
«Quello che siamo lo rivendichiamo con forza. Anche quello che abbiamo fatto finora, e il Festival per quello che ci ha dato. Ma pensiamo che si possano realizzare molte altre cose, senza che il Festival sia l’unico momento visibile e percepito come unico, centrale, per una attività che invece, per quello che siamo diventati, è solo una parte del nostro fare qui a Centrale Fies» dice Dino Sommadossi, a cui mi sono avvicinato un po’ incredulo dopo l’annuncio.
Lui è sempre elegantissimo, in impeccabile completo grigio e gilet e una mascherina verde dai colori un po’ afro caraibici. Ha appena comunicato, prima dell’inizio della replica di Bermudas di MK – in programma en plein air nel primo weekend del programma – che questa, la quarantesima, sarà l’ultima edizione di Drodesera, lo storico festival trentino ideato quarant’anni fa insieme a Barbara Boninsegna, compagna di vita e di avventure nel mondo dell’arte.
«Non è una scelta dettata dal Covid, anche se questa situazione ha reso alcune cose più chiare. Erano già alcuni anni che ci pensavamo. Anzi, forse ero io quello che resisteva un po’ di più a separarsi dall’idea del Festival. Ma penso che sia il momento giusto. Giusto per iniziare a sviluppare con ancora più determinazione e lungo tutto l’anno momenti, anche eventi pubblici, ma soprattutto forme di curatela e supporto all’arte.»
Insomma, per dirla con tono, se Drodesera finisce, è solo per rilanciare con ancora più vigore anche di brand e di concetto il lavoro che Centrale Fies, con Fies Factory e le altre numerose iniziative di produzione e sostegno, è riuscita negli ultimi anni a sviluppare con una capacità di lungimiranza e sguardo innovativo che ha trasformato questo luogo, soprattutto negli ultimi quindici anni, in uno dei luoghi centrali del nuovo per i linguaggi delle arti sceniche e performative in Italia.
E anche questa edizione 40 del Festival racconta un linguaggio ibridato, quasi più teatro. Prendono spazio (in un Festival comunque già pensato come evento diffuso su un orizzonte temporale che arriva fino a primavera 2021) installazioni, performance, spettacoli offerti al pubblico all’aperto in formato unplugged, come Bermudas, coreografia di Michele di Stefano prodotta da MK, e portata qui in scena su una pedana con tappeto danza nel giardino, senza luci, fuori dalla gabbia scenica e con un fumogeno ad un certo punto a ricordare quello che manca attorno, più che a richiamare il segno scenico di per sè, che infatti si perde nell’aria aperta di Centrale in pochi secondi, lasciandoci immaginare cosa doveva essere e non ha potuto essere.
La crezione è una sorta di finto polittico, in cui ciascun quadro è aperto da un prologo di parole e gesti sintentici, offerti dalla evocativa presenza ieratica di Philippe Barbut. I suoi gesti vengono poi rielaborati in una turbinante azione plurale, affidata a un set variabile di interpreti, che sviluppano compiutamente l’esercizio di pensiero costruito intorno alla trasposizione scenica delle dinamiche caotiche. Lo spettacolo si è anche avvalso della consulenza matematica di Damiano Folli. L’azione danzata, in cui quasi come stormi di uccelli gli artisti si muovono con grande linertà nello spazio ma pronti a ricomporre formazioni e azioni specifiche, richiama le teorie sui sistemi caotici, che pur governati da leggi deterministiche, sono in grado di esibire una forte casualità nell’evolvere delle variabili di movimento. Esistono le meccaniche celesti iscritte dentro l’apparente caos dell’universo? Dentro l’apparente caos, nell’improvvisazione del muoversi sulla scena, i principi assoluti che governano il vivere si riverberano e alla lunga restano nella memoria come gesti ancestrali e necessari. Ancor più stridente il contrasto fra libertà di movimento sul palcoscenico, davanti a un pubblico costretto a distanze di sicurezza e presidi sanitari.
Completamente ripensate la fruizione, gli spazi, l’organizzazione dello spettacolo dal vivo oggi: la pandemia virale più che alla disinfezione pare quasi aver portato alla disinfestazione dello spettatore rispetto all’atto artistico. Quindi tutto quello che arriva è sicuramente atto amorevole di cura, di ripensamento.
Siamo pochi, seduti larghi, il più possibile all’aperto. Non ci sono punti ristoro nel meraviglioso giardino di Centrale. Ha una sua struggente poesia anche questa pochezza di numeri, di spazi larghi, ma certo il balletto delle mascherine, le vicinanze negate, i protocolli di sicurezza marcano una distanza che questa popolazione non conosceva. Qui a Fies sono molto sensibili al tema sicurezza e c’è una grandissima attenzione al rispetto delle regole condivise.
Eravamo in pochi anche nel piccolo magazzino dietro il cortile per l’open studio di Live Works vol 8 che ha avuto come protagonista il progetto di Göksu Kunak (TR/DE): una performance basata su un testo che, dentro uno schema narrativo da spettacolo televisivo, racconta le contraddizioni della Turchia fra sviluppo e conservazione, fra violenze e rispetto delle identità.
L’atto scenico ha alcuni momenti di particolare pregio icastico, che si concentrano sul corpo e l’azione performativa dell’artista, il quale conclude lo spettacolo con una intensa proposta canora realizzata però con un dilatatore orale, tanto da rendere quella dolcissima melodia incomprensibile, mentre il tenero viso dell’artista, con la bocca segnata da un rossetto malmesso, si consuma in una pioggia di gocce di saliva che colano sulla maglietta bianca.
Riadattata in modalità installativa anche 19 luglio 1985 di OHT, allestita per l’occasione nelle due sale Turbina unificate. Il pubblico entra fisicamente nell’opera, avvicinandosi agli elementi fisici e naturali che compongono lo spettacolo, legato alla tragedia che il 19 luglio 1985 colpì la Val di Stava. Dettagli che vengono man mano in luce, ora artificiali ora naturali. Rami d’albero spezzati al centro dello spazio, fruibile in modo immersivo. Foto della geografia del luogo sulle pareti laterali illuminate progressivamente con l’andare della narrazione. Il testo che scorre e racconta. Il tempo passa e si vuol sapere cosa succede. Ben pensata, con qualche piccolo elemento calibrabile in durata, ma nel complesso, sicuramente una installazione concettualmente efficace.
Da ultimo arriviamo al lavoro di Anagoor, che aveva debuttato a inizio luglio al NTFI: Mephistopheles è una videoproiezione concepita e diretta da Simone Derai in collaborazione con Giulio Favotto e Marco Menegoni, con un live set elettronico di Mauro Martinuz a fare da commento sonoro in diretta. Ispirandosi al Faust di Goethe, cui l’inizio del film è aulicamente dedicato, utilizzando una tecnica di ripresa ormai consolidata, di nitore pittorico, di piccoli gesti, di pose e abiti d’epoca, la Compagnia torna su un topos letterario attorno al quale riflette dal 2017-18, quando ne hanno sviluppato una regia operistica, sulla musica di Gounod.
Concettuamente il tema del demoniaco inteso come male, sofferenza nel tempo del vivere, del rapporto di dominanza crudele dell’uomo sulla natura, trovava già i suoi primi segnali molto specifici in Lingua imperii del 2012, la prima riflessione strutturata sul rapporto fra violenza, dominanza e rapporto uomo-natura, pur partendo da un tema chiaramente linguistico: l’attenzione si spostava allora su, come attraverso la comunicazione, il sopruso non sia solo dell’uomo sull’uomo ma anche dell’uomo sulle altre specie viventi.
Chi non può parlare o comunicare, è di per sè condannato.
Il richiamo a quelle riflessioni di quasi un decennio fa, torna molto limpido nella parte centrale e anche emotivamente più impattante di Mephistopheles, il cui cuore sta proprio nell’abissale rapporto feroce degli uomini sulle altre specie viventi.
Su questo il filmato, pur mantenendo epifanie e rimandi letterari e pittorici, finanche ricordando alcune tele di Bacon, decide di non edulcorare, di non distogliere la vista dalla crudeltà. Lo spettatore è “costretto” ad osservare dettagli dolorosissimi di questi atti di cattiveria.
Il concerto con immagini filmiche cui assistiamo abbina la levità poetica di riprese perfette, di pulizia chirurgica, al contrappunto della carne da macello. Al macello vero e proprio. Tanto più limpida è l’immagine, definita l’inquadratura, tanto più la ripresa ferisce, addolora, arriva allo stomaco veramente. La compagnia su questo evidentemente ha scelto di non adottare mezze misure, portando l’occhio dove non si vuole vedere, tutto quello che nelle comode confezioni incellofanate da supermercato non percepiamo. E d’altronde, se tutte le teogonie, proiezioni dell’umano nello spazio dell’assoluto, fin dai primi capitoli prevedono ammazzamenti, omicidi et similia, forse questo elemento ha a che fare con la natura profonda, mefistofelica, di una parte sempre viva e pulsante dell’essere umano. Che venga quindi esibita, è qualcosa che porta necessariamente al raccapriccio per questo Grand Tour nella natura demoniaca dell’animo umano.
Cap VI – Hyperlocal 17 luglio – 8 agosto 2020
a cura di Barbara Boninsegna e Filippo Andreatta
BERMUDAS
ideazione e coreografia Michele Di Stefano
cast variabile con Philippe Barbut, Biagio Caravano, Marta Ciappina, Andrea Dionisi, Sebastiano Geronimo, Luciano Ariel Lanza, Giovanni Leone, Flora Orciari, Annalì Rainoldi, Laura Scarpini, Loredana Tarnovschi, Alice Cheophe Turati, Francesca Ugolini
musica Kaytlin Aurelia Smith, Juan Atkins/Moritz Von Oswald, Underworld
luci Giulia Broggi in collaborazione con Cosimo Maggini
set Antonio Rinaldi
consulenza matematica Damiano Folli
organizzazione Carlotta Garlanda
produzione mk/KLM 2017/18
in collaborazione con AMAT, Residance/Dance Haus Milano, Dialoghi – residenze delle arti performative a Villa Manin Udine, Una diversa geografia/Villa Pravernara Valenza, AngeloMai Roma
con il contributo MIBACT – Regione Lazio – Assessorato alla Cultura e Politiche Giovanili
durata 45′
19 LUGLIO 1985
una tragedia alpina
spettacolo di OHT | Office for a Human Theatre
regia, scena e testo Filippo Andreatta
drammaturgia Marco Bernardi
corifeo, musiche e suono Davide Tomat
scenografia e costruzione Alberto Favretto
luci William Trentini
Lux Aeterna di György Sándor Ligeti
Again – after ecclesiastes di David Lang
ndormenzete popin canto di montagna
coro Ensemble Vocale Continuum
maestro del coro Luigi Azzolini
produzione OHT
co-produzione Romaeuropa Festival, Centro Santa Chiara Trento
residenza artistica Centrale Fies art work space
con il contributo di Fondazione Caritro, Provincia Autonoma di Trento
con il patrocinio della Fondazione Stava 1985
MEPHISTOPHELES eine Grand Tour
Concepito, scritto e diretto da Simone Derai
Musica e sound design composti da Mauro Martinuz
Direzione della fotografia Giulio Favotto
Collaborazione alla regia Marco Menegoni
Riprese Giulio Favotto, Marco Menegoni, Simone Derai
Montaggio Simone Derai e Giulio Favotto
Coordinamento Organizzativo Annalisa Grisi
Management e promozione Michele Mele
Produzione esecutiva Centrale Fies / Stefania Santoni, Laura Rizzo
Produzione Anagoor 2020
Coproduzione Kunstfest Weimar*, Theater an der Ruhr**, Fondazione Donnaregina per le arti contemporanee / Museo Madre***, Centrale Fies, Operaestate Festival Veneto. In collaborazione con Fondazione Campania dei Festival – Napoli Teatro Festival Italia, Orto botanico e Villa Parco Bolasco – Università di Padova. *supportato dal Ministero dell’Ambiente, Energia e Protezione della Natura della Turingia; **supportato dal Ministero della Cultura e della Scienza della Renania Settentrionale – Vestfalia; *** finanziata da POC Regione Campania 2014-2020.