GILDA TENTORIO | Quando la incontro, spesso sorridiamo ricordando che “galeotta fu Clitemnestra”. L’ho infatti intervistata la prima volta a proposito del suo monologo sull’eroina (Clytemnestra’s Tears, 2004) e da allora è il mio punto di riferimento, perché la sua posizione di scrittrice, drammaturga, regista e docente le consente un osservatorio privilegiato sulla vitalità culturale della Grecia contemporanea. Come tanti Greci della sua generazione, la giovane Avra Sidiropoulou ha un curriculum invidiabile: ha studiato a New York, Londra e Tokyo, tiene laboratori teatrali negli Stati Uniti, ma anche in Estonia, Lettonia, Malta. In Italia ha diretto il workshop Promised Endings (Τeatro Scientifico-Teatro Laboratorio di Verona, 2018) centrato sul confronto fra Edipo Re di Sofocle e King Lear di Shakespeare. Ha scritto due importanti volumi sulla teoria e la pratica della regia Authoring Performance: The Director in Contemporary Theatre (Palgrave Macmillan 2011) e Directions for Directing. Theatre and Method (Routledge 2018). All’attività accademica (è Professore Associato alla Open University di Cipro) unisce infatti la pratica di regista e drammaturga. Fra i lavori più recenti: Casa di Bambola di Ibsen (Cipro 2019-2020) e lo spettacolo multimediale Phaedra I (Londra, 2019).
Le ho chiesto di condividere qualche pensiero con noi di PAC.
Stai lavorando a qualche nuovo progetto o sei in vacanza?
Alterno lavoro e relax. In questo periodo sto seguendo le prove di Frozen di Bryony Lavery (andremo in scena a Cipro il prossimo 2020) e ho in preparazione un progetto sperimentale mixed-media basato sul folgorante racconto dell’americana Charlotte Perkins Gilman La carta da parati gialla (1920) che racconta a più voci la discesa nella follia. E sul versante accademico, curo un volume sul tema della crisi come tragedia contemporanea e i suoi risvolti a teatro, che uscirà a breve per l’editore inglese Routledge.
Come hai vissuto il periodo della quarantena e che cosa ti è mancato di più?
Mi è mancata la vita, il movimento, i cambiamenti, la prospettiva dell’imprevisto. Tuttavia questa pausa obbligata è stata anche un buon alibi per mettere uno stop all’ansia di produrre e di stare al passo delle aspettative (degli altri e di me stessa). Quando sei circondato da tanto dolore e non puoi sapere cosa succederà domani, smetti di preoccuparti di progetti non realizzati, viaggi annullati, scadenze non rispettate. Questa presa di distanza dai meccanismi perversi della routine in cui siamo immersi si è rivelata in un certo senso liberatoria, perché mi ha dato l’occasione di guardarmi dentro. Sono questi momenti di inerzia esteriore che aiutano a capire chi sei, dove sei arrivato, che teatro vuoi fare d’ora in poi. Penso che tutto ciò lascerà una forte impronta nel mio lavoro.
A livello artistico penso sia giunto il momento di cercare nuovi canoni. Dobbiamo svincolarci dai tanti “dopo” programmati in agenda, dietro cui ci nascondiamo per evitare un confronto vitale con l’hic et nunc.
La pandemia ci ha ricordato la necessità di esprimerci in modo più essenziale e anche di rapportarci all’Altro.
La politica e il teatro durante la quarantena: attenzione o indifferenza?
Ormai nel nostro Paese il concetto di “crisi” è endemico. Durante la pandemia il governo ha sostenuto gli artisti con dei bonus d’urgenza di 800 euro e ha stanziato ulteriori aiuti per chi è stato colpito dalla chiusura nel periodo marzo-maggio. Questa emergenza ha dato l’occasione agli artisti non solo di fermarsi a riflettere su quale sarà il teatro di domani, ma anche di unirsi per rivendicare diritti irrinunciabili. Anzitutto, il riconoscimento istituzionale della professione: si è così costituito un albo nazionale dei lavoratori del teatro. In questo senso è stata importante la mobilitazione Support Art Workers nata in modo spontaneo attraverso un gruppo di Facebook agli inizi di maggio, come reazione al clima di incertezza che domina l’ambito culturale. Grazie ai social, l’onda di consensi è stata enorme, seguita da varie manifestazioni che hanno rimesso sul tappeto questioni annose. È ormai chiaro a tutti che il teatro e la cultura in genere – anche nella forma digitale imposta in questi mesi – costituiscono una fonte vitale e necessaria, soprattutto nei grandi periodi di crisi. La politica deve prenderne atto oggi più che mai.
Durante il lockdown abbiamo sperimentato l’isolamento. Il teatro può aiutarci a riconquistare la dimensione collettiva e civica di polis?
La pandemia ha obbligato il teatro a un’ulteriore ricerca del senso di collettività e del significato di partecipazione. E questo lo ha fatto sottolineando l’isolamento dello spettatore, l’esperienza della visione solitaria e la “mutilazione” dalla vita collettiva. Inoltre sono balzate in primo piano questioni relative al ruolo dell’arte come fondante strumento “terapeutico” in tempi di crisi. Innumerevoli sono stati i dibattiti online sul ruolo dell’artista e sul futuro dello spettacolo dal vivo. Oserei dire che l’isolamento che abbiamo vissuto ha portato a nuovi legami che, è vero, sono nati in ambito digitale, ma sono attraversati da uno spirito comune di inquietudine e rivendicazione.
In ogni caso, sono ottimista: questa crisi può lasciarci qualcosa di buono, una guida di sopravvivenza spirituale, un ritorno alle cose essenziali. La tragedia, dice Aristotele, ci insegna la logica della teleologia, idealizza il rapporto causa-effetto. Riconoscere questo, porta alla conoscenza e all’autocoscienza. Certo, dovremo continuare a preoccuparci di capienze teatrali, limitazioni e nuovi regolamenti, ma penso che si sono poste le basi per nuove forme di comunicazione con il pubblico. Forse alla fine abbiamo imparato a porre le grandi domande senza sensi di colpa (il perché della vita, l’essere comunità). Forse in questo modo potremo riavvicinarci alla visione ma anche alla pratica degli antichi Greci, che consideravano dovere etico e civile portare l’arte all’uomo, e ponevano il teatro al centro della vita della polis.
La Grecia ha vissuto un decennio di profonda crisi economica. Come ha reagito il teatro alla crisi di ieri e di oggi?
La crisi ha sconvolto le nostre vite con le pesanti misure di austerity, tasse, disoccupazione. Questa situazione terribile ha avuto però una conseguenza inattesa e paradossale: la crescita esponenziale della produzione teatrale. Innumerevoli spettacoli, nuove compagnie, luoghi non convenzionali, vivacità di forme e generi ibridi: una sorta di resistenza alla tragedia circostante. La crisi economica, politica e culturale è stata teatralizzata. Atene in particolare si è trasformata in “laboratorio della crisi” che ha accolto importanti eventi internazionali e grandi fondazioni culturali (Onassis, Niarchos, Kakoghiannis) hanno promosso lo svecchiamento del teatro greco verso un approccio cosmopolita. In questo ribollire di energie nuove si è quindi attivata una risposta alla crisi dall’interno, con un interessante intreccio di proposte e collaborazioni artistiche. È ancora presto per dirlo, ma mi auguro che anche la recente crisi dovuta alla pandemia porti a un’analoga fioritura del teatro.
Qualche settimana fa un interessante articolo del New York Times titolava: “Digital Theater isn’t theater. It’s a way to mourn its absence”. Anche il teatro greco si è rifugiato nel digitale? Qual è la tua opinione?
Per fronteggiare un futuro incerto dal punto di vista economico e lavorativo, molti teatri hanno scelto di mettere a disposizione online alcuni vecchi spettacoli, talvolta con la richiesta di un biglietto simbolico. Molti artisti hanno creato forme di “desktop theatre”, che funzionano nell’ambito di una “estetica da poltrona”. Alcune di queste sperimentazioni sono interessanti, soprattutto quelle in cui la tecnologia costituisce un aspetto indissolubile della drammaturgia, cioè quando ciò che inizia come limitazione della forma, si trasforma in componente della stessa ontologia teatrale.
Ciò che chiamiamo “online theatre” o “teatro da casa”, “teatro on demand” è stata un’occasione utile per restare in contatto con l’esperienza teatrale e per vedere spettacoli internazionali del passato. Certo è un’esperienza diversa e per certi versi inquietante e sgradevole: ti senti manipolato dall’occhio della camera, che ti impone dove guardare, quale personaggio e quali momenti seguire. Cioè oltre alla perdita dell’attenzione soggettiva focalizzata e alla perdita dell’idea di comunità, questa percezione mediata ha condizionato le mie scelte. Nulla insomma può sostituire l’esperienza collettiva e la sensazione della fragile vitalità che viviamo a teatro, dal vivo.
Nei tuoi lavori hai usato spesso le maschere. Come è cambiata la semiologia della maschera in questo periodo in cui tutti siamo obbligati a indossarla?
La maschera esprime l’intreccio di identità personale e collettiva. La mascherina dei nostri giorni invece è una sorta di protesi di responsabilità civile, ma è diventata anche il bersaglio di polemiche: da un lato abbiamo superato il tabù della maschera, perché quelle che indossiamo ci danno protezione, ma dall’altro lato per alcuni ciò ha comportato anche la limitazione delle libertà personali. Personalmente penso che la mascherina sia una prova di solidarietà verso gli altri. Certo, è anche diventata un simbolo della condizione difficile che viviamo da molti mesi. E in quanto tale, potrebbe rappresentare una nuova espressione della maschera della tragedia.
L’estate in Grecia è il periodo per eccellenza del teatro all’aperto, soprattutto nei siti archeologici. Che cosa cambierà quest’anno?
Dagli inizi di luglio i teatri all’aperto funzionano ormai a pieno ritmo in Grecia. L’annuale Festival Atene-Epidauro realizzerà soltanto spettacoli all’aperto (Epidauro e Odeon di Erode Attico), mentre tutti gli spettacoli al chiuso sono stati rimandati al 2021. La capienza non può superare il 45% e non ci sarà intervallo. Quest’anno saranno valorizzati nuovi siti archeologici. È stata lanciata l’iniziativa Tutta la Grecia – Una cultura: fra luglio e settembre saranno presentati ben 55 spettacoli di grandi istituzioni (Teatro Nazionale, Teatro Nazionale Grecia del Nord, Teatro d’Arte, Scena Lirica Nazionale, Fondazione Kakoghiannis) nelle diverse aree archeologiche e in musei (Delfi, Corinto, Pylo, Vergina, Olimpia, Samotracia, fortezza di Corfù…).
Nel linguaggio quotidiano del dopo-pandemia usiamo la formula “nuova normalità”, per indicare le misure da applicare nella vita personale e sociale. Ciò riguarda naturalmente anche l’insegnamento, le prove e il modo di rivolgerci agli spettatori. Il risultato saranno nuove forme teatrali? Quello che ci interessa è tornare al significato delle cose e riflettere sulla responsabilità di noi artisti nel rimarginare i traumi che ha lasciato la pandemia. Questa ambizione può portarci a scelte migliori. Il teatro non potrà restare indenne dalla “fame” di raccontare le storie che abbiamo scritto o pensato quando eravamo costretti chiusi in casa e abbiamo visto le immagini di un mondo che crolla. Abbiamo vissuto il gusto tragico del secolo. Sono convinta che i nostri spettacoli d’ora in poi saranno più politici e partecipativi, in modo che si possa esteriorizzare la nostra necessità di comprendere la tragedia, l’umano e il sovrumano di questa crisi, forse anche per creare le condizioni di una società più giusta e solidale.
[intervista in greco – traduzione di Gilda Tentorio]