ANDREA ZANGARI | A distanza di poche ore mi sono mosso da Santarcangelo a Sansepolcro. Due festival senza soluzione temporale di continuità, a un centinaio di km l’un dall’altro, eppure lontanissimi per vocazione, intenzioni, disegno curatoriale. Nel movimento, mi accompagna l’idea di misurare le distanze, cercando la distanza (quella giusta, quella necessaria, quella fattuale?). Ho con me un metro invisibile per gli incontri, che si distende in quel metro convenzionale, ex lege, puntualmente in defibrillazione ad ogni incontro. Come quello con la collega Francesca Saturnino, che ha già offerto qui il suo sguardo sul festival. Metto le mie parole sotto le sue.
Il conflitto fra il teatro e la cronaca, fra il teatro e i nuovi media, fra il teatro e la letteratura, fra il teatro e la società. Il conflitto fra il teatro e il teatro, i suoi passati, il suo presente. Tre giorni alla diciottesima edizione di Kilowatt Festival, al passo frenetico di un cartellone debordante fra metà pomeriggio e le ore piccole, sono una semina generosa di conflitti e paradossi nel cuore degli spettatori. D’altro canto “Il teatro non deve far star bene: io detesto questo tipo di arte controllata” chiosa Antonio Rezza in uno dei più vivaci e geniali interventi della due giorni di convegno su Roberto Latini, in dialogo con lo stesso e Flavia Mastrella. Con buona pace di chi interpreta l’audience engagement come inseguimento del pubblico, cercando di immetterlo ad una comfort zone, e spingendo di conseguenza l’arte verso le forme blande e a-problematiche dell’intrattenimento. A Sansepolcro, al termine della notte di spettacoli, l’intrico dei pensieri non si scioglie, e non c’è neppure il conforto di un festoso, spensierato assembrarsi a trasfigurare in eros tanto thanatos. Viaggio al termine della notte è d’altro canto il claim di questa edizione, alla cui eloquenza non è necessario aggiungere commenti. «Incontrerete molte visioni oscure sui palchi di questa edizione», ci mettono in guardia Lucia Franchi e Luca Ricci in una misurata lettera di benvenuto.
Primo paradosso: l’insopprimibile necessità a tuffarsi in questo annottare di cui non conosciamo i margini, anche attraverso gli strumenti della rappresentazione VS il bisogno di squarciare il velo di una realtà amplificata dall’onnipresenza mediatica, offertaci in forma d’ossessione, h 24, a misura di schermo. Sono tensioni opposte, quella di affondare lo sguardo, e quella di riservarsi il diritto alla distanza. È sempre Antonio Rezza, durante il convegno, a rivolgere un appello «all’arte, al teatro, cinema, musica» perché non si occupino di quello che è successo negli ultimi mesi, perché «noi non siamo giornalisti», facendo in qualche modo eco all’aspra invettiva che, nell’infuriare della pandemia, lanciava Lucia Calamaro. Gli anatemi possono suonare fascinosi, persino fare da egida durante la burrasca, o se non altro richiamare la temperie polemica di una ricerca artistica d’indiscutibile valore come quella di Rezza\Mastrella. E, sia chiaro, il ragionamento estetico-politico cui alludiamo è stato d’entusiasmante interesse. Tuttavia, gli osservatori lo sanno, i linguaggi della ricerca teatrale sono molteplici: ciascuno produce un suo scarto, una distanza appunto, rispetto alla realtà che osserva – che sia la realtà della cronaca, di un testo, di una città durante una pandemia… La realtà, a sua volta, (ri)guarda quel teatro da una certa distanza. Di seguito tentiamo il gioco personalissimo di misurare questo iato, procedendo dalla lontananza.
Su una panchina, sotto un albero appeso al cielo, contro l’atmosfera luminosa di un circo spopolato, Simone Perinelli, sotto spessa maschera di biacca, attende che il pubblico prenda posto. Un cappello ribaltato fra noi e lui, in attesa di essere riempito dalla generosità di passanti invisibili. Poi è una pioggia d’oro a innescare la tragedia (ci vuole un miracolo per andare in scena!). Con BACCANTI / Βάκχαι, Leviedelfool riprende il filo interrotto con Yorick, filo proteso in una notte di fantasmi archetipici, materializzati nella lingua, nelle maschere, nelle sonorità estranianti di questi spettacoli. Perinelli è autore e interprete di una scrittura sconvolta, elettrica, eccessiva, che mescola la voce dei personaggi della versione euripidea a quella di un saltimbanco dall’accento ispanico o zigano. Quella figura picaresca è mediatrice della visione dionisiaca, fra il mito e il presente dell’ascolto: un traghettatore per quella distanza che ci separa dal classico e dall’inconoscibile modalità di fruizione ai tempi delle polis.
Eppure, questo arco elettrificato ad altissimo voltaggio scenografico non si chiude a bruciarci lo sguardo: un muro di energia poco oltre il proscenio sembra ricacciare indietro l’immane sforzo attoriale e autoriale. Impossibile dimenticare le circostanze: un lavoro in anteprima la cui massa ribollente di segni doveva trovare lo scoglio di un ascolto per diventare più affilata, andato in prova con tutte le limitazioni che conosciamo. Ma azzardiamo che Baccanti soffra una condizione che sussiste anche al di qua della scena, come se l’attenzione dello spettatore, per qualche motivo, non sia stata realmente attivata in quel contesto.
Una condizione al contorno simile a quella che riscontriamo in Eracle, l’invisibile, del Teatro dei Borgia. Nel cortile del Palazzo delle Laudi, Christian di Domenico prepara il pane in un forno elettrico, mentre una radiolina blu trasmette musica pop. L’aspetto dimesso, trascina i piedi in calzature infermieristiche consunte, apostrofando direttamente l’uditorio con voce amichevole ma lenta, come a dissimulare la fatica del passo. Giampiero Borgia, con la drammaturgia di Fabrizio Sinisi, mette il mito di Eracle in trasparenza sulla vicenda di un personaggio a cavallo fra biografia e invenzione, ideato fra le mense delle Caritas, nell’incontro con persone in situazioni di disagio. Le fatiche mitologiche si riproducono nella parabola di un padre di famiglia privato del ruolo genitoriale, attraverso un divorzio e la perdita del lavoro (quello, non a caso pedagogico, dell’insegnate). Un calvario condiviso coi gli accenti agrodolci della rassegnazione, che commuove anche l’olfatto con l’odore conciliante del pane in cottura. Anche in questo caso, tuttavia, colpisce il debito energetico della presenza, più che della prova, attorica. Durante lo spettacolo, un’inquilina del palazzo entra dall’ingresso posteriore: Di Domenico perde il filo del racconto, ma il registro interpretativo consente di fare dell’incidente un’occasione di empatia. Colpiscono le parole, ironiche, trovate dall’attore: “questa ingerenza della realtà mi turba”. Risate. Il pensiero prende corpo: oltre la soglia di questi teatri, la realtà continua a bussare, e una parte di noi continua a correre alla porta, a chiedersi che forma abbia quell’ospite inquietante. Se, come Eracle, possa uccidere i suoi stessi figli.
In questo diagramma di prossimità, a latitudine intermedia è Un chant d’amour. Come mettere in scena l’odio? Pregevoli intuizione e audacia drammaturgica di Teatro Rebis, che qui mette in dialogo I Negri di Jean Genet con i fatti di Macerata del 2018 (l’omicidio di Pamela Mastropietro e il delirante attentato neofascista ad opera di Luca Traini), sdoppiando anche l’espressione scenica nella compresenza di attori e di burattini. Ne risulta un palco insolitamente affollato di questi tempi, coi burattinai che orchestrano il testo di Genet in una sorta di ekphrasis dei fatti di cronaca. L’intreccio dei piani narrativi e dei codici produce un’intrigante tensione fra la figura umana e i fantocci, ibridandone infine i ruoli in un rituale che sposa il corpo inerte a quello vivo, svelandone la sorte comune di corpi agiti. Anche in tal caso, tuttavia, si evidenza la necessità di alleggerire la composizione per tenere viva l’attenzione.
Ci approssimiamo ad un che di indefinibile, ma percepibile distintamente nella tensione fra corpo e parola del lavoro di Giselda Ranieri. T.I.N.A. è una performance del 2017, una silloge affilata degli stati ansiosi che elettrificano e disincarnano la comunicazione quotidiana. L’umano ridotto a figura, pellicola bidimensionale a misura di schermo, si affatica a riempire i vuoti fra una posa e l’altra. There is no alternative è l’acronimo coniato da Margareth Thatcher per significare l’ineludibilità del libero mercato. Nel capitalismo avanzato che quel pensiero ha generato, tuttavia, sembra offrirsi un’inesauribile offerta che esaurisce il desiderio. Incompiuta, così, è la parola che affoga in gola, incapace a guidare e dare forma all’essere disunito, che ha paura della sua stessa ombra sul fondale.
È proprio l’ultimo lavoro visto a Sansepolcro a bruciare le distanze. C’est la vie, dell’autore e regista Mohamed El Khatib, gioca a somigliare alla realtà dove il dolore l’accartoccia, offrendone lembi sanguinanti, che non vorremmo toccare. Fanny Catel e Daniel Kenigsberg ci portano la morte dei rispettivi figli, la offrono in forma di scrittura ovvero di finzione, se ne scambiano il ricordo (ovvero finzione?) con l’aiuto di videointerviste (ovvero finzione) in un televisore, unico complemento di una scena ridotta all’essenzialità della black box. Un ricco libretto d’istruzioni per lo spettatore è attivato come un iper-testo dalle indicazioni a schermo. Reca materiali vari, dalle mail scambiate col regista, all’albero genealogico dei protagonisti, al riassunto di una tragedia che Kenigsberg avrebbe dovuto recitare pochi giorni dopo il suicidio del figlio venticinquenne. L’espressione sardonica di Catel, che sorride sopra il pianto, le interruzioni per presunti problemi tecnici, la suddivisione in capitoli e un microcosmo di racconti nel racconto, attivano il basso profondo di un interrogativo: quello che abbiamo di fronte è la realtà di un lutto? Oppure ogni dettaglio rientra crudelmente nel finissimo e stratificato progetto fictionario? Fra cuore e mente dello spettatore, quale che sia la risposta (non scontata, sebbene non vogliamo ammettere che si possa trattare di finzione) a quegli interrogativi, C’est la vie scatena una paradossale convivenza di empatia e repulsione per il dispositivo drammaturgico, per gli attori, per il teatro. Poi Catel e Kenigsberg escono di scena, il portone del Chiostro di Santa Chiara si richiude pesante alle loro spalle: loro sono usciti, ma è come se fosse entrato qualcos’altro, e non sappiamo dargli un nome benché muova il pianto, e ci impedisca di assumere che lo spettacolo è finito.
Di nuovo quell’ospite inquietante? Proviamo a non lasciarne intentato il riconoscimento, procedendo con un’analogia. Chi segue le vicende calcistiche si sarà accorto che le partite a porte chiuse manifestano una bassa intensità atletica. Passaggi sbagliati, movimenti goffi, risultati imprevedibili. Il peso della realtà, visualizzabile nella cruda metafora di un pubblico assente, opprime la performatività del gioco che, con le sue regole, è anch’esso finzione. Decade così l’energia del performer-sportivo. Accettiamo di buon grado di non parlare, sulla scena, della pandemia. Ma se anche potessimo censurare per qualche ora la realtà, ecco che ci sorprenderebbe, nel nostro stesso sguardo infestato, il reale. Ricorda Jacques Lacan: “Il reale è ciò che resiste al potere dell’interpretazione. Il reale non coincide con la realtà poiché la realtà tende a essere il velo che ricopre l’asperità scabrosa – «inemendabile» – del reale”. Il reale che è, dunque, tutte le nostre ferite, tutte le pandemie ed ogni teatro, il cuore di questo diagramma.
PS Purtroppo non posso restituire la visione di Rimbambimenti, primo studio di Andrea Cosentino con le musiche e la partecipazione di Fabrizio De Rossi Re. L’acustica dell’Auditorium Santa Chiara non è nitida in certi punti. Dalle prime file si levavano, ad acuire il mio rammarico, sonore risate e una certa emozione: anche qui, un problema di distanza.