ELENA SCOLARI | Siamo uomini d’onore e abbiamo promesso che avremmo chiamato Andrea Pennacchi con il suo nome all’anagrafe, in questo articolo, omettendo il rapace d’arte. Che gli ha dato maggior notorietà ma forse non ha reso più noti gli studi teatrali iniziati nel 1993 e perfezionati con Eimuntas Nekrosius, César Brie, Carlos Alsina e infine con Gigi Dall’Aglio; scrive anche testi per ragazzi, lavora nel cinema e collabora con l’Università degli studi di Padova, con lo IUAV di Venezia e con la Fondazione Teatro Civico di Schio e con l’Accademia Teatrale Veneta. Per dire.
Il Festival dei Tacchi organizzato da Cada die teatro in Ogliastra (il 2020 è stata la XXI edizione, tenutasi tutta a Jerzu) con la direzione artistica di Giancarlo Biffi mette spesso in cartellone artisti divenuti noti al grande pubblico grazie a trasmissioni radio o tv (Max Paiella, per esempio) ma che nel programma festivaliero vestono i loro panni artistici più veri e spesso più interessanti.
Ho mantenuto la promessa sul nome non solo per sfuggire l’accusa di mentitrice ma anche perché in Mio padre – appunti sulla guerra civile, Pennacchi è proprio Andrea Pennacchi (no Propaganda), che racconta la storia di suo padre Valerio, partigiano, classe 1926, sopravvissuto al campo di concentramento di Ebensee, nell’alta Austria.
La veneticità rimane, certo, ma la molla che ha fatto nascere questo spettacolo è “Che quando muore tuo padre ti manca un po’ la terra sotto i piedi, sei frastornato e ti rendi conto che forse non sapevi davvero chi fosse, e se è così hai bisogno di capire, di conoscere. E allora indaghi”, ci dice Pennacchi.
Quel burbero rimbrotto baritonale ricorrente del padre al figlio: “Studia!” (e Pennacchi l’ha fatto, ha pure un dottorato), punteggia le loro conversazioni, non frequenti.
L’attore mette anche sé in questo racconto, pur senza dirlo troppo. Sì perché è chiaro che si riflette anche su se stessi scoprendo cosa ha vissuto il padre, e pare che papà Valerio non fosse ciarliero in famiglia su quegli anni, e così per questa indagine storico/familiare sono venuti in aiuto un faldone trovato negli archivi militari e il lavoro di un ricercatore francese impegnato in un dossier proprio sul lager di Ebensee. Pennacchi figlio ci è andato, ma ora rimane solo un luogo verde e un po’ alla Heidi, nessun segno se non un’insegna ricorda il campo e tutte le vite che ci passarono (o che ci rimasero per sempre).
Con il confortante sfondo dei grandi cilindri d’acciaio delle Cantine Antichi Poderi in cui ribolle il mosto che diverrà Cannonau, l’attore legge supportato dalla chitarra rotonda e sonora di Giorgio Gobbo, il suo non è un accompagnamento ma una trama musicale nelle cui maglie si dipana il racconto, una lunga canzone che ingloba il testo recitato, infatti alcuni brani tornano, per frammenti, come il refrain di un componimento più grande. (Grande godimento personale per la versione francese di Le partisan di Leonard Cohen, adattamento dal canto della resistenza francese La complainte du partisan).
Diciassettenne (a quell’età Andrea dice che ancora doveva scegliere se preferire l’Aperol o il Select nello spritz) Valerio Pennacchi forma con altri tre compari una banda partigiana. Buffissima la descrizione della scelta dei nomi di battaglia, non esattamente minacciosi o da “ribelli”: Tombola, Pippo, Vladimiro, Bepi.
La banda fa la gavetta, prima è impegnata in operazioni non proprio eroiche come requisire cibo da un hangar, dove – a dimostrazione di alcune ingenuità ancora da superare – uno dei quattro ingerisce una quantità inopinata di polvere di uovo ignaro della concentrazione del preparato, ricreando il volume di qualche dozzina di uova nel suo stomaco.
Poi arrivano alcune imprese di maggior rischio che cominciano a far parlare della banda. Tra l’altro Pippo è un buon fisarmonicista e viene chiamato a suonare alle feste di paese alle quali partecipano un po’ tutti, Pippo però esibisce non solo lo strumento ma – sciocca spavalderia giovanile – anche un’arma, qualcuno segnalerà la cosa, e il ragazzo sarà preso dalla polizia tedesca. Cederà, sotto tortura, rivelando chi sono i compagni che finiranno prigionieri al campo di Ebbensee. Dove Tombola morirà, dilaniato vivo dal cane Cerberus di uno dei gerarchi.
Il pregio di questo lavoro non è solo nell’indiscutibile importanza di dare ancora e sempre voce alla memoria di guerra, al non dimenticare la follia sterminatrice nazista che – ogni volta – suona incredibile tanto è stata efferata e insensata, inconcepibile – ma è nel modo asciutto e senza sconti in cui Pennacchi descrive i fatti, mescolando episodi di ridicola goffaggine ad azioni di coraggio epico e mirabilmente “giuste”. Ancor di più: Pennacchi riesce a spolverare un velo di tenerezza giocosa sopra a un periodo storico pazzesco, dove i ragazzini erano soldati gettati nella Storia, giovanissimi che rischiavano di morire, non di essere eliminati dall’Isola dei famosi, ecco.
Pennacchi ci fa conoscere il padre e gli altri del gruppo, un po’ cristallizzati in quegli anni, verrebbe infatti curiosità di sapere come (e se) si è espresso Valerio P. sugli avvenimenti storico/politici dei decenni successivi, da ex partigiano.
Il testo è ben scritto, scorre con sicurezza ed evita completamente il campo minato della retorica mantenendo però sempre una morbidezza lucida su tutti gli elementi,
da quelli buffi a quelli tragici, da quelli familiari a quelli patrimonio degli umani tutti. È costruito anche con testimonianze dirette, è punteggiato dall’ironia, cifra tipica dell’autore anche nei pezzi brevi, ma che qui non è mai cinica, anzi: aiuta lo spettatore a sopportare descrizioni dolorose di cattiverie tanto gratuite da risultare assurde.
Per questo è particolarmente apprezzabile la scelta di non aggiungere aggettivi, di non far cadere nemmeno una goccia in più. Non ce n’è bisogno.
E la consapevolezza della forza del racconto che si ha per le mani è merce non così frequente, in teatro, spesso vittima di un horror vacui per il quale si tende ad accumulare, depotenziando il nucleo. Più anelli ci metti intorno meno il nocciolo sarà incandescente.
Pennacchi è discreto, ci confida alcuni ricordi personali del rapporto con il padre, anche i giorni della sua dipartita, e lascia a lui la chiusura dello spettacolo: la voce di una delle sue lezioni nelle scuole, a raccontare la Storia: “Io queste cose le ho viste, credetemi. E studiate!”.
MIO PADRE – APPUNTI SULLA GUERRA CIVILE
di e con Andrea Pennacchi
musiche Giorgio Gobbo chitarra
Teatro Boxer/Pantakin