GILDA TENTORIO | Xenia Mastoraki è greca di origini, ma cittadina del mondo: ha studiato architettura a Firenze, Londra, Nicosia (Cipro) e ora vive a Stoccolma. Ha fondato LandmArch, un ufficio dinamico e creativo con sede ad Atene che si occupa di pianificazione urbana e architettura del paesaggio, con un’attenzione particolare ai concetti di economia circolare, tutela ambientale, in un’ottica ecosostenibile e accessibile per tutti. Sa coniugare arte e tecnologia, crede nell’interazione creativa fra uomo e ambiente, nel rispetto del genius loci. Una voce interessante per capire se e come cambierà il nostro rapporto con l’ambiente e in generale con lo spazio.
Il governo svedese è stato aspramente criticato in Europa per la decisione, presa durante la pandemia, di raggiungere l’immunità di gregge senza chiusure o divieti. Come hai vissuto il periodo di pandemia a Stoccolma?
Da parte del governo non ci sono stati divieti, né rigidi controlli, ma tiepide indicazioni (distanziamento sociale, evitare spostamenti non necessari, potenziamento del telelavoro). Scuole, negozi, confini: tutto aperto, con il consiglio di evitare assembramenti. L’uso della mascherina non è mai stato obbligatorio. In un Paese dove il numero dei suicidi continua a restare alto, non c’è stato quindi il panico che avete sperimentato voi. L’ho riscontrato anche nell’approccio dei media: i telegiornali svedesi ad esempio, a differenza di quelli italiani e greci, danno l’informazione in modo chiaro e diretto, senza eccessi o sentimentalismi. Anche questo forse ha aiutato nella presa di coscienza della pericolosità della situazione, senza però piombare nel panico. C’è da dire anche che gli Svedesi sono un popolo che rispetta le istituzioni e non si è forse sentito il bisogno di misure obbligatorie o punitive, e per sua natura non è particolarmente estroverso e socievole, cosa che ha aiutato nell’evitare il generale lockdown. Penso però che in una situazione di emergenza come quella attuale non basta la responsabilità personale. Forse una via mediana sarebbe stata più efficace per limitare i contagi e i decessi, che si sono concentrati a Stoccolma, una delle città europee più densamente popolate d’Europa (4800 abitanti per Kmq). Circa la metà delle vittime sono anziani nelle case di riposo e su questo fronte il governo è stato fortemente criticato. Durante questo periodo ho cercato di restare a casa il più possibile, evitando i mezzi di trasporto e i contatti con gli amici. Come per tutti, il telelavoro è diventato parte fondamentale della quotidianità. È stato anche un modo per conoscere la bellezza della natura svedese: ho fatto molte passeggiate nel bosco vicino casa e bagni nella laguna di Mälaren.
Anche la vita culturale è proseguita regolarmente o sono state prese misure a riguardo?
Cinema e teatri hanno continuato a funzionare regolarmente (restrizione sul numero degli spettatori, distanze di sicurezza) e per altri eventi c’era il divieto di assembramenti superiori a 50 persone in spazi chiusi. Una tranche di aiuti economici (500 milioni di corone) è stata prevista per cultura e sport.
Cosa abbiamo imparato dalla tragedia del Covid?
Abbiamo dovuto venire a patti con i nostri limiti personali e i nostri valori morali, riscoprendo il valore della solidarietà e dell’amicizia (anche se a distanza). Non possiamo più ignorare che globalizzazione, sfruttamento selvaggio dell’ambiente e sovrappopolazione, sono un problema etico che riguarda tutti. Infatti durante la quarantena il pianeta ha respirato di nuovo. Però si dimentica in fretta e la vita torna ai soliti ritmi frenetici di prima. Dovremmo imparare invece a fare maggiore esercizio di memoria…
Nelle tue parole sembra di sentire un’eco del personaggio svedese più noto in Italia: Greta Thunberg. Cosa pensano di lei gli svedesi?
Gli svedesi sono molto fieri di lei e hanno seguito in moltissimi un programma alla radio in cui ha raccontato la sua storia: come è iniziato tutto, la popolarità inattesa, i VIP della politica mondiale incontrati… Le è stato assegnato il prestigioso Gulbenkian Prize for Humanity, un premio del valore di un milione di euro che ha deciso di devolvere a organizzazioni impegnate nella difesa ambientale; è del 30 luglio la sua dichiarazione che donerà 100mila euro ai profughi climatici. Ha appena ripreso la sua attività e ha criticato la decisione da parte dell’Europa di stanziare per l’ambiente solo il 30% dei 750 miliardi di euro del Recovery Fund. Insomma, una ragazzina in gamba!
Durante la pandemia in Italia i dibattiti si sono concentrati sul ruolo del digitale. Nel tuo ambito di lavoro, l’architettura, quanto è importante la realtà digitale?
Per l’architettura la tecnologia è un elemento imprescindibile. In questo periodo nel mio settore si è riflettuto sulla teorizzazione di una nuova e rivoluzionaria architettura dell’emergenza, che ha per scopo la flessibilità dell’uomo come individuo nel suo spazio personale e come parte di una comunità più ampia nel tessuto urbano. Sono stati pubblicati molti nuovi studi che mirano a progettare un nuovo spazio urbano pensato per una migliore convivenza sociale in periodi di pandemia o sulla casa del futuro in caso di lockdown forzato. Usiamo molto software GIS (mappature digitali) per la riformulazione degli spazi urbani, che potranno dare un importante contributo ad affrontare quello che è uno dei grandi problemi del futuro, cioè l’eccessiva densità abitativa.
Nell’epoca del dopo-Covid dovremo ripensare il concetto di spazio. Qualcosa già sta cambiando nei volti delle nostre città: bar e ristoranti con i tavolini fuori, spettacoli teatrali in parchi e spazi pubblici. Per ora si tratta di improvvisazioni. Pensi che la landscape architecture potrà aiutarci a pensare e a vivere meglio le nostre città?
Per decenni l’architettura è stata monopolizzata dall’idea della costruzione del tessuto urbano. Negli ultimi decenni l’architettura del paesaggio e della progettazione urbana si sta risvegliando. Ed era inevitabile. Siamo arrivati a una situazione invivibile: oggi il 55% della popolazione mondiale vive in città e gli studi dicono che entro il 2050 si arriverà al 68%, con tutta la scia di problemi e costi economici (condizioni igieniche precarie, aumento della criminalità, depressione, focolai per la diffusione di malattie…). A tutto questo si aggiunge il fatto che per anni sono mancati veri piani regolatori e progettazione del verde urbano: è ormai risaputo che i “polmoni” verdi di una città, oltre che costituire oasi di biodiversità, contribuiscono alla diminuzione del surriscaldamento urbano, dell’effetto-serra, è possibile sfruttare le acque piovane, con ricadute positive anche sulla falda acquifera…
Una spinta positiva potrebbe derivare proprio dall’attuale situazione. Ad esempio in passato Central Park a New York è nato da un’idea di Frederick Law Olmsted per affrontare un’epidemia di colera, così pure è stato per i grandi parchi di Londra e Parigi. Allora come oggi urbanisti e architetti del paesaggio studiano come risolvere il problema della densità abitativa e della mobilità urbana. Ecco alcune linee: tutela dell’ecosistema per evitare migrazioni di specie animali e dunque la comparsa di nuovi virus; sviluppare la “permacultura” (agricoltura ecosostenibile); nelle città: aumentare le piste ciclabili, i pocket parks; curare il sistema idrico e fognario nelle aree degradate; creare città friendly verso i pedoni. Durante il lockdown in molte zone è stato vietato l’uso di automobili. Ciò ha favorito lo spostamento a piedi: molti per la prima volta hanno esplorato la città camminando. E mentre apprezzavano l’ampiezza delle piazze o la posizione del parco, hanno capito il ruolo degli architetti del paesaggio, che progettano e lavorano per il benessere del vivere cittadino. Mi auguro che tutto questo porti a un clima favorevole per il dialogo e nuovi progetti.
Sul rapporto fra architettura e cultura, mi ha colpito questa frase di Renzo Piano: “Come architetto, alle 10 del mattino devi essere un poeta, di sicuro. Ma alle 11 devi diventare un umanista, altrimenti perdi la tua direzione. E a mezzogiorno, devi assolutamente essere un costruttore. Devi essere in grado di costruire un edificio, perché l’architettura, alla fine, è l’arte di costruire edifici. L’architettura è l’arte di creare un rifugio per gli esseri umani. Punto. E questo non è affatto facile. È fantastico”. Che cosa ne pensi?
Renzo Piano è un architetto geniale, di particolare sensibilità. Ha conservato la sua umiltà proprio perché pensa: nelle sue opere filtra il pensiero, la cultura, il rigore ingegneristico e la responsabilità morale di creare un prodotto che aiuti l’uomo ad affrancarsi dai vincoli. A mio parere la forza dell’architettura è proprio questa: creare condizioni che porteranno a risultati – meravigliosi o catastrofici, dipende da noi – nella nostra vita quotidiana, ma anche nel comportamento sociale, nella salute mentale e nel rapporto con l’ambiente e il suo ecosistema, promuovendo una comunità più democratica dal punto di vista sociale ed economico.
Negli ultimi anni si registra il fenomeno degli archi-star, che progettano edifici sempre più scintillanti e colossali. Che cosa ne pensi? La via invece che hai scelto tu nei tuoi lavori è di coniugare la tradizione con il contemporaneo. Perché?
Gli architetti fin dall’antichità sono stati gli ispiratori e i creatori di opere che avrebbero influenzato anche visibilmente la formazione della cultura e dell’identità sociale. Oggi è vero, molti inseguono il mito della popolarità: più colossale è l’opera e maggiori sono le possibilità di sperimentalismo, tanto maggiore sarà la fama. E nel XXI secolo alcune opere di architettura sono diventate punto di riferimento, sono visitate come monumenti o musei, hanno trasformato il volto delle città: in gergo si parla di Bilbao-effect.
Il mio approccio all’architettura è diverso: ho sempre pensato infatti che un’opera di qualità non sia per le élites, ma per la comunità. Si tratta di impostare un dialogo-scambio con le persone, che verranno a contatto con il “bello”, come fonte di ispirazione e di formazione. Fra i miei lavori, sono particolarmente fiera di Rebranding Nemea, un mix di architettura contemporanea e tradizionale per creare e promuovere l’immagine turistica della città di Nemea (Peloponneso) come meta di turismo enologico. Il mio team ha proposto l’uso di materiali locali, manovalanza del posto, la flora, la paletta cromatica locale, insieme a rivoluzionarie tecnologie di calcestruzzo poroso per sfruttare le piogge, suolo antisdrucciolo per un’accessibilità sicura in periodi di gelate, LED e fotovoltaico, rain gardens con biofiltri per purificare le acque piovane prima di riportarle nella falda e metodi tecnici per sviluppare il sistema di radici capace di evitare la decomposizione del terreno in punti in pendio. Il nostro studio è stato premiato in Grecia e ha partecipato a convegni internazionali: fra l’altro lo abbiamo portato anche in Italia all’Expo di Milano 2015 (“Agritecture & Landscape Awards”). Sono molto legata anche alla riconversione in alloggio turistico di “Zen Minimal Luxury Housing” a Tyrò in Arcadia, premiato come opera di turismo consapevole (Big See Tourism Awards 2019), nell’ottica di un equilibrio fra architettura, natura, mente e spirito.
La Svezia è il tuo osservatorio privilegiato. Lo sguardo degli architetti svedesi è particolare?
L’anima del popolo svedese, per quello che vedo, è caratterizzata da una triplice forma di rispetto: per il prossimo, le istituzioni e l’ambiente. Gli architetti seguono due strade: il rispetto di tutte le regole di igiene, sicurezza e accessibilità; la seconda via, forse conseguenza di questa “ossessione” per l’osservanza delle regole alla lettera, significa: ripetizione di forme e poco spirito audace per la sperimentazione, al contrario della vicina Danimarca. Osservo un fondo di conservatorismo che, unito alla sensibilità culturale dello svedese, porta a risultati architettonici dignitosi e utili per la vita della comunità, all’insegna del “lagom”, cioè tutto con misura.
Sei greca e hai deciso di lasciare il tuo Paese, anche se molte tue opere sono in Grecia. Che cosa ti manca/non ti manca della Grecia e dove vedi il tuo futuro?
È vero, sono greca ma sento di non appartenere solo alla Grecia. Fin da quando ero molto giovane, ho deciso di esplorare nuove “patrie”, prima fra tutte l’Italia e la mia amata Firenze. Per inciso, uso la parola “patria” nel senso di legame sentimentale per il luogo, la cultura e gli abitanti. Da questi miei soggiorni ho imparato che dal punto di vista culturale e sentimentale, non ha senso parlare di “confini” geografici.
Ho deciso di lasciare il mio Paese per la curiosità di scoprire cose che un solo Paese non potrebbe offrirmi. Ma il mio legame con la Grecia resta forte, torno spesso nella mia “Itaca” e questo legame si accresce di anno in anno. Rispetto agli svedesi, noi greci non abbiamo rispetto per le istituzioni e il sistema, che d’altra parte non fornisce le condizioni adatte per sviluppare questo attaccamento. Siamo estroversi ma anche diffidenti. E questo si riscontra anche nel panorama dell’architettura: forte monopolio, scarsa collaborazione, purtroppo funziona ancora il metodo delle raccomandazioni e la corruzione. Però negli ultimi anni sono emersi architetti di talento, riconosciuti a livello internazionale: quindi forse c’è la speranza che l’architettura greca torni a valorizzare la tradizione alla luce delle nuove tecnologie.
Che cosa mi manca della Grecia? I miei cari, i sapori, la luce, le cicale, il cielo blu e l’estate. Del mio Paese non mi piace l’arroganza e l’individualismo, lo sfruttamento, i giochi di potere, la convinzione che le scappatoie nell’illegalità siano una “sana abitudine” che resta impunita. Ciò che mi piace è invece la nostra capacità inventiva e la disponibilità a superare il nostro ego in situazioni di emergenza. Abbiamo superato il decennio della crisi economica e sembra visibile una prima risalita, ma non siamo riusciti ancora a sviluppare una coscienza responsabile, la consapevolezza di essere cittadini della polis. Forse a causa della fuga all’estero di moltissimi giovani, fra cui anch’io: spero che potremo anche da lontano offrire nuove possibilità alle nuove generazioni, in Grecia e all’estero. Il mio futuro lo vedo ovunque possa trovare le occasioni per esprimermi e migliorare.
[Intervista originale in greco. Traduzione di Gilda Tentorio]