GIORGIO FRANCHI | «Con tutto il cuore mando un abbraccio ai nostri amici libici. Lo abbiamo già detto e lo ripeto anche io, l’Italia c’è ed è pronta a dare tutto l’aiuto possibile. Coraggio».
Questo il tweet con cui Manlio Di Stefano, sottosegretario M5S agli Affari Esteri, ha espresso la propria solidarietà verso i cittadini di Beirut (Libano) dopo l’esplosione dello scorso 4 agosto. L’errore geografico non passa inosservato e scatena una valanga di polemiche, tanto più che a distanza di poche ore un altro esponente pentastellato, la senatrice Elisa Pirro, cade nella stessa trappola linguistica, esprimendo su Twitter «la sua vicinanza al popolo libico». La doppia gaffe invalida inoltre il dubbio che si tratti di un errore del correttore automatico.
È ormai passato un mese dallo strafalcione sul Libano ma, come ben sa ogni amante della satir,a il rapporto dei politici con la geografia è un sempreverde, tanto che le gaffe sovrabbondano al punto di cancellarsi l’un l’altra dalla memoria collettiva. Da Giorgia Meloni che colloca Dublino nel Regno Unito a Lucia Bergonzoni che si candida in un’Emilia-Romagna a suo dire confinante con Trentino e Umbria, fino a uno strepitoso Donald Trump che esprime il suo cordoglio per gli attentati di Bruxelles del 2016 con la frase: Belgium is a beautiful city.
Sorge così un dubbio: errori così non sono perdonabili, ma se a ogni lapsus si dovessero pretendere le dimissioni di un politico i parlamenti si svuoterebbero alla velocità della luce. Appurato dunque che questi errori sono tutt’altro che rari, si può stabilire una scala di gravità che eviti l’applicazione indiscriminata della ghigliottina? Politicamente è quasi impossibile, specie di fronte a eventi così gravi, ma forse si può fare dal punto di vista dell’ortodossia grammaticale.
Libia/Libano, per esempio, non è perdonabile. L’etimologia di Libia viene infatti da un’iscrizione in geroglifico che suona come rbw e indica i popoli della Cirenaica, mentre quella di Libano, ancora oscura, si ipotizza provenga dalla radice fenicia lbn, “bianco”, che indicherebbe la neve del Monte Libano che dà il nome alla nazione dell’Asia occidentale.
Via libera, invece, alla confusione tra Slovenia e Slovacchia. Entrambe le nazioni prendono il nome dall’etnia slava, con la prima che comprende gli slavi del sud e la seconda quelli del nord dopo la dissoluzione della Iugoslavia e la separazione di Bratislava dalla Repubblica Ceca. La grammatica non ve ne farà dunque un torto, purché siate almeno vicesindaci, mentre il vostro amico slovacco probabilmente vi tirerà uno scarpone quando gli chiederete come si trova a Lubiana.
L’errore più grave sarà tra Austria e Australia, che non solo distano migliaia di chilometri fra loro ma provengono da due radici di significato quasi opposto. Austria viene dal germanico öster, “est”, mentre Australia dal latino australis, che significa “meridionale”: c’è tutto un quadrante di bussola a separare i due Paesi, che basterà all’allontanamento dalle cariche pubbliche. Persino Renzo Bossi non ha mai osato tanto, limitandosi a confondere gli abitanti di Canberra con i canadesi una decina di anni fa, quando era consigliere regionale.
Passando all’africa: Mali viene dal mandinka (per alcuni da mali, “dove vive il re”, per altri dal popolo manda), Malawi dal chewa e significherebbe “fiamme”, che avrebbe dato il nome anche all’antecedente regno di Maravi. Confondersi non è accettabile: si consiglia di twittare con cautela, mentre ci si potrà rilassare nello scrivere del vicino Niger, che come la Nigeria prende il nome dall’omonimo fiume, a sua volta figlio di una denominazione condivisa fra varie lingue tuareg. Casi di etimologia condivisa si verificano anche tra le micronazioni di Grenada e Saint Vincent e Grenadine, isole dei Caraibi indipendenti dal ’79 dal Regno Unito, il cui nome viene dalla città spagnola di Granada.
E fra tutti gli -stan dell’Asia centrale? Stan è una radice indoeuropea che indica uno Stato, mentre i vari prefissi si riferiscono alle etnie che in gran parte del ‘900 sono state sotto l’URSS (Kazakistan = Stato dei Kazaki, Kirghizistan = Stato dei Kirghisi…). La Crusca prometterà di avallare eventuali errori (anche se l’asino è sempre a rischio scarpone, forse doppio in casi di relazioni instabili come quella uzbeko-tagika), fuorché per la pecora nera dell’etimologia: il Pakistan. La terra di Karachi e Islamabad non è stata così battezzata per una fantomatica etnia paki, ma per l’acronimo delle cinque regioni dell’India Britannica Punjab, Afghania, Kashmir, Sindh e Beluchistan (la “i” viene aggiunta per eufonia) nel manifesto con cui l’attivista Choudhry Rahmat Ali rivendicava nel 1933 una terra per i 30 milioni di musulmani che abitavano quelle zone.
Insomma, l’etimologia parla chiaro: certi errori sono più errori degli altri, parafrasando il povero George Orwell, che per rimanere in argomento è stato già citato in politica da Simone Pillon (correttamente) e da Ignazio La Russa (molto meno correttamente). Rimane invece ancora da capire a cosa ci porterà una politica dove un veloce augurio sui social, tanto superficiale da non valere una rilettura prima della pubblicazione anche di fronte a una tragedia, è quanto ci si aspetta da chi ci rappresenta, ormai costretto a esprimersi poco e su tutto per non affondare.