RENZO FRANCABANDERA | È un inizio di rassegna che ci lascia con non pochi interrogativi su quello che stiamo vivendo. L’edizione numero 40 di Oriente Occidente, storica rassegna di arte coreutica affidata alla illuminata e mai banale direzione artistica di Lanfranco Cis, direttore anche del CID-Centro Internazionale della Danza, la cui attività spazia dal perfezionamento di giovani danzatori, alla residenza delle Compagnie, allo sviluppo anche in senso teorico delle conoscenze in ambito coreutico, prende avvio con una serie di spettacoli che, anche in contrapposizione fra le loro dinamiche creative, esplodono nella loro manifestazione di senso anche proprio nel giustapporsi.
Parliamo del Festival di danza più longevo d’Italia. Una mostra fotografica sui primi vent’anni del festival, ospitata a Rovereto con gli scatti del fotografo Paolo Aldi, riporta chiaramente indietro l’orologio semantico quasi ad un’altro linguaggio, quando la passione per le culture del mondo portava qui compagnie d’estremo Oriente insieme ai maestri del teatro povero e performativo degli anni Settanta.
Dalle foto fanno capolino i sorrisi, tra gli altri, di Grotowski, Vescovi, Barba, a cena con i grandi della danza. Quest’anno per ricordarli tutti e dare un senso al distanziamento sociale, al teatro Zandonai di Rovereto, invece che squallidi fogli bianchi con su scritto “Non sedersi qui” c’erano le sagome di cartone di Pina Bausch, Carolyn Calson, Merce Cunningham e tutti i grandi della danza. Che sembrava quasi veramente di esserci seduti vicini.
Quanta differenza fra quel loro fare teatro, antropologico verrebbe da dire, centrato sul pensiero dell’umano, del rituale, dell’ancestrale, e l’apertura di questa edizione, affidata volutamente e in certo modo anche provocatoriamente a Pontus Lidberg, sperimentatore dei linguaggi e ibridatore della creazione coreutica, che da sempre gioca si muove al confine tra realismo e astrazione, specie nel rapporto modificativo della tecnologia nel suo impatto con la società. La ricerca parte da simboli dell’antichità mitologica, per poi sprofondare nella sua decostruzione contemporanea: due anni fa era stato il turno di Siren sempre qui al Festival, mentre quest’anno è la figura biforme partecipe della natura dell’uomo e del cavallo, ovvero Centaur (Centauro), a ispirare il coreografo. Ma il nuovo secolo non è dell’uomo cavallo, ma dell’uomo macchina. L’ibridazione è prossima. L’ibridazione la abbiamo già in tasca. È bluetooth. È nella facilità con cui filtrando con gli algoritmi i nostri profili social diventiamo istantaneamente leggibili, trasparenti, scontati. Abbiamo un punteggio per ogni caratteristica caratteriale.
Il direttore del Danish Dance Theatre, affiancato dall’artista esperta di Intelligenza Artificiale Cecilie Waagner-Falkenstrøm e dal compositore elettronico giapponese Ryoji Ikeda, usa per la prima volta dal vivo l’Intelligenza Artificiale, ribattezzata David, come ‘partner’ dei suoi danzatori. All’algoritmo e alla programmazione è affidata la creazione stessa dell’opera d’arte, la struttura drammaturgica, la coreografia e la selezione della musica. I danzatori, fondamentalmente eseguono. Sono le paradossali macchine, il soggetto agìto. Se nel centauro la parte razionale e direttiva era l’uomo e la parte cavallo era quella esecutiva e mobile, qui l’uomo esegue, e la macchina pensa. Addirittura ad un certo punto la macchina registra che alcuni movimenti sono fuori dal programmato, che il danzatore, in uno strenuo assolo, sta andando per i fatti suoi, disubbidisce. Un espediente drammaturgico studiato?
David si è nutrito per mettere in piedi la costruzione, di informazioni sulle tragedie greche esistenti, sulla composizione musicale di Schubert, sui movimenti planetari e sugli stormi di uccelli, oltre ai dati raccolti in nove mesi di prova dei ballerini. Poi un cocktail digitale, una girata di iterazioni stocastiche stile Matrix, ed ecco che questa voce off, maschile/femminile, quindi senza specifici e aprioristici attributi di genere, decide che direzione dare alla creazione.
È tutto seduttivo e terribile, fa impressione, paurissima!
Siamo indirizzati, governati, studiati, letti, analizzati al nono decimale di approssimazione sulle nostre emozioni. Siamo finanche banali.
I dardi che, dopo essersi ubriacati, i centauri raffigurati nelle metope della parete sud del Partenone scagliano contro i Lapiti sono gli stessi che questi danzatori, meccanizzati nella loro intenzione, scagliano gli uni contro gli altri ad un certo punto dello spettacolo, come in una battaglia navale infinita, cui a volte lo spettacolo ci riporta, con i danzatori piazzati in scena al posto delle navi. E il computer a dire: «Brad: vai in B5! Julia: F4…».
Pontus Lidberg provoca ma in fondo addolora. La nudità dell’uomo davanti a tanta potenza di calcolo è solo nella sua residua forza di ribellione, di affidarsi al bello estremo, al sensibile per sè.
«Questa edizione del Festival è un gesto di resistenza – ha commentato all’avvio di questa 40esima edizione il direttore artistico Lanfranco Cis –. Rappresenta la voglia di esserci e di guardare oltre la pandemia, affermando il valore della relazione tipica dello spettacolo dal vivo.»
E forse resisteremo al virus, ma per quello che si è capito in questo avvio di Oriente Occidente alla macchina, no. Potremmo non sopravvivere.
Ce lo ha raccontato – l’artista bielorusso, attivo dapprima in Israele e ora in Francia, Arkadi Zaides la sera dopo, con il suo fare teatro di denuncia a sostegno dei diritti umani. Presentava al Festival Talos.
Anche lui ritornava a Rovereto a cinque anni di distanza dal suo ‘politico’ e documentaristico assolo Archive, – un’indagine sulla gestione della convivenza nei territori occupati in Cisgiordania vista con gli occhi dei Palestinesi.
Talos è un progetto per lo sviluppo di un sistema informatico capace di monitorare i confini territoriali finanziato da dieci paesi e 14 istituzioni mondiali tra il 2008 e il 2013. In sostanza parliamo di misure di sorveglianza e controllo contro l’immigrazione clandestina con robot semi-autonomi a supporto delle guardie di frontiera. Tutto giocato sul confine fra umano e disumano, su quanto questa linea stia diventando sempre più sottile, la possibilità che a decidere il destino sia un robot a forma di cane e privo di qualsiasi germe di umanità sconvolge. Lo spettacolo è di fatto una conferenza, il cui elemento significativo sono le videoproiezioni che trasformano la realtà del vissuto umano in schemi computerizzati dove gli uomini sono pallini. Alla fine il performer attore inizia ad inciamparsi, a ripetere le cose, come una macchina.
Destino evidentemente ineludibile.
Che contrasto con il lavoro di Michela Lucenti e Balletto Civile (in una circostanza insieme ad Antonio Viganò)! Qui è tutto umano, dolorosamente ma dolcemente umano, troppo umano. I corpi sensibili del gruppo del Teatro della Ribalta, con Un peep show per Cenerentola, o le casette trasparenti di MAD – Museo antropologico del danzatore tra le strade di Rovereto, con i danzatori di Balletto Civile chiusi in queste teche trasparenti all’interno delle quali l’arte si sterilizza.
La logica della separazione fra azione recitata/coreografata e luogo dello spettatore. Forse il preludio all’avvento delle macchine, alla intermediazione del medium digitale per ristabilire contatto. Ovviamente il postulato di questi artisti, come pure di Luna Cenere (artista associata del Festival) nel suo progetto site specific alla Campana dei Caduti con i partecipanti ai laboratori, è il contrario: l’uomo, con i suoi istinti, le sue bestialità, i suoi limiti. Minuscolo ed enorme al centro del creato, in un dato momento dell’esistere, piccolo nel suo essere nudo dentro l’assoluto che lo sovrasta. È l’effetto che produce allo sguardo la creazione Genealogia_Time specific di Luna Cenere che prosegue nella sua ricerca sulla nudità come condizione umana in una nuova declinazione adattata ai tempi pandemici priva di contatto tra i danzatori in scena. Fortissimo l’impatto nella sua “ambientazione” alla Campana dei Caduti, luogo simbolico, storico, di commemorazione della sofferenza e della perdita.
In questo luogo i corpi sembrano resuscitare da una eterna sepoltura per tornare a volersi raccontare, con esasperante lentezza, dentro un tempo assoluto, ma ricordando il presente delle distanze, delle divisioni, delle lontananze. Pur con qualche ingenuità compositiva, la creazione comunque ha una bella potenza architettonica, ha saputo dialogare con il luogo, riuscendo a raccontare l’individuo, oltre che la collettività, il singolo corpo.
Forse per un computer un uomo e una cavalletta sono la stessa cosa. Per l’essere umano questo non è.
L’arte è dell’essere umano per l’essere umano. Un messaggio in presenza, o verso un futuro anche ignoto, verso uno sguardo anche non immaginabile o non nitidamente percepibile, ma comunque possibile. Questo pensiero la macchina non lo fa.
Michela Lucenti da questo punto di vista è incarnazione precisa di una dimensione amazzonide, in cui davvero il suo corpo, dimensione animalesca, viene portato dalla testa a confrontarsi con uno sguardo, spingendo sè e l’osservatore verso una dimensione quasi sempre di trance, di trapasso emotivo, di superamento delle resistenze inibitorie.
In MAD sono dieci i danzatori/attori immersi in piccole casette trasparenti, serre al cui interno cresce e vive un’umanità. Un museo con lo spettatore che passa, guarda, magari va via distratto ma con il corpo di ciascuno che diventa in qualche modo opera d’arte: in ciascuna teca c’è un pezzo unico, la storia di un uomo, o di una donna.
Pur essendo sempre coreografico, l’atto artistico della Lucenti è in se stesso panico, trance. Vuole trascendere il momento della creazione per proiettarsi in un universo mentale selvaggio, in chi osserva, capace di andare a scavare nell’istinto. Ecco perchè è un atto che pur nell’iniziale rispetto di regole compositive, quasi sempre trascende e si sposta, si sporca. Porta sè e i suoi ad una sorta di liberazione catartica, a suo modo sconvolgente. E questa cosa in genere allo spettatore arriva. Può dare disagio. Ma non lascia quasi mai indifferenti. Che per un segno artistico non è poca cosa.
Anche i movimenti studiati per Antonio Viganò e il suo Peep show per Cenerentola sono belli, come visionaria è la creazione del drammaturgo e regista del Teatro della Ribalta con i suoi interpreti.
Lo spettacolo di Viganò è costruito attorno al tema del corpo come veicolo di giudizio e pregiudizio ma anche di verticalità di genere. Cenerentola è l’emblema di questo corpo perfetto, calzante, su misura. Il corpo nella sua declinazione attuale definisce una insopportabile e inspiegabile supremazia violenta dell’uomo, il bisogno della donna di sentirsi bella, accettata, di avere la taglia giusta.
A prescindere da qualche marginalissima didascalia drammaturgica, la creazione è visionaria e poetica, come sempre nell’immaginario del regista. Le sue immagini sono infantili ma arrivano ad essere anche pudicamente erotiche, a sperimentare con grandissimo rispetto per i corpi e le sensibilità a disposizione. Una lezione di come poter riportare il pensiero del desiderabile intorno alla persona prima che al corpo. E questo limite è un vero grandissimo pregio poetico di questo spettacolo.
I movimenti della Lucenti costruiscono attorno alle epifanie sceniche più inquietanti del regista un costante turbine di movimento, che asseconda la forza centripeta della macchina del peep show. Un piccolo evento, per soli quattordici spettatori alla volta!
CENTAUR
Direzione e coreografia Pontus Lidberg
Installazione Intelligenza Artificiale Cecilie Waagner Falkenstrøm
Audio e video Ryoji Ikeda
Programmazione computer per visual Tomonaga Tokuyama
Disegno Luci Raphael Frisenvænge Solholm
Drammaturgia Adrian Guo Silver
Costumi Rachel Quarmby-Spadaccini
Sviluppo The Center for Ballet and the Arts alla New York University
Produzione Danish Dance Theatre
Coproduzione Oriente Occidente Dance Festival, Theatre National de Chaillot e The Royal Danish Theatre
Con il supporto di Augustinusfonden, Overretssagfører L. Zeuthens Mindelegat, William Demant Fonden, Knud Højgaards Fond, Beckett-Fonden, Jyllands-Postens Fond
Durata 60’
MAD – Museo Antropologico del Danzatore
Ideazione Michela Lucenti
Collaborazione creativa Maurizio Camilli, Emanuela Serra, Alessandro Pallecchi
Disegno sonoro Guido Affini, Tiziano Scali
Produzione Balletto Civile
Coproduzione Oriente Occidente Dance Festival, Festival Fisiko!, Associazione Ultimo Punto/Festival artisti in piazza, Festival Pennabilli
Con il sostegno di MIBACT
Durata 90’
UN PEEP SHOW PER CENERENTOLA
Testo e regia Antonio Viganò
Collaborazione artistica Paola Guerra e Paolo Grossi
Movimenti e coreografie Michela Lucenti
Scene e costumi Roberto Banci
In scena gli attori del Teatro la Ribalta-Kunst der Vielfalt
Produzione Teatro la Ribalta-Kunst der Vielfalt (Bolzano)
Coproduzione Oriente Occidente Dance Festival
GENEALOGIA_TIME SPECIFIC
Coreografia Luna Cenere
Assistenti alla coreografia e interpreti Lucas Del?no, Davide Tagliavini con la partecipazione di un gruppo di performer, amator* e non professionist* che hanno partecipato ai laboratori di creazione
Musiche Renato Grieco
Management & Distribuzione Domenico Garofalo
Produzione Compagnia Körper | Oriente Occidente Dance Festival
In collaborazione con AMAT e Civitanova Danza per “Civitanova Casa della Danza” con il supporto di L’Arboreto – Teatro Dimora di Mondaino e Teatro Petrella di Longiano, Compagnia Virgilio Sieni e Les Brigittines – Playhouse for Movement, Associazione Armunia/Festival Inequilibrio
Inserito nel progetto ResiDance XL 2018 – luoghi e progetti residenza per creazioni coreogra?che, azione della Rete Anticorpi XL – Network Giovane Danza D’autore, coordinata da L’Arboreto – Teatro Dimora di Mondaino
Durata compresa tra i 30′ e 40′
TALOS
Ideazione e direzione Arkadi Zaides
In collaborazione con Claire Buisson, Nienke Scholts, Jonas Rutgeers, Youness Anzane, Effi & Amir (Effi Weiss & Amir Borenstein), Gabriel Braga, Culture Crew, Amit Epstein, Dyane Neiman, Thalie Lurault, Etienne Exbrayat, Simge Gücük
Durata 50’