ANTONIO CRETELLA | Quello LGBTQ+ è un universo linguistico totalmente inesplorato dalla maggioranza dell’opinione pubblica, un universo linguistico nel quale la lotta per una vocale o per un articolo condensa gli immani sforzi per la costruzione di una visione inclusiva e rispettosa delle diverse identità, misconosciute o, se riconosciute, costrette a essere definite da una nomenclatura eteronormativa elaborata sulla base di una rigida visione della sessualità umana coincidente con quella del maschio cisgender eterosessuale, che aveva creato a sua volta un universo linguistico per definire ogni difformità rispetto al paradigma attraverso espressioni offensive o grossolane. Non serve qui riportare l’infinito elenco di insulti utilizzati per definire omosessuali, lesbiche, transessuali, tutte declinazioni di una mancata virilità o di una mancata femminilità. La questione nominale e pronominale ha rappresentato e rappresenta la sfida per l’emersione e il riconoscimento di esistenze che il passato relegava all’oblio, e si intreccia a doppia mandata con la riflessione su un linguaggio non discriminatorio, ma tuttora viene marginalizzata, vista con sufficienza come un capriccio. Il risultato è una grassa ignoranza anche degli addetti alla comunicazione che banalizzano nella cronaca il percorso di una persona transgender, che costa dolore fisico e psichico, sbagliandone il genere o confondendo orientamento e identità. Al dolore, come nella tremenda tragedia di Maria Paola e Ciro, si aggiunge se non il disprezzo, l’indelicatezza di certo giornalismo che, pur lavorando con le parole, non ne conosce il peso, senza nemmeno immaginare che per una -A o per una -O si combatte duramente per tutta una vita.
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