GIORGIO FRANCHI | “Conosci Recensioni preventive di Beppe?” Questo è Davide Pascarella. Non uno che ti chiede se conosci dei libri, nella fattispecie, quanto più un eterno bambino immerso in un flusso di pensieri spesso completamente avulsi dalla realtà che lo circonda, tanto che alle domande risponde così: con divagazioni che cancellano la domanda stessa. L’archetipo umano di Donny del Grande Lebowski o Todd di Bojack Horseman, dai quali però si distacca perché dotato di una straordinaria e quasi contraddittoria lucidità. E, soprattutto, di un intuito formidabile: quell’intuito che lo fa debuttare a ventitré anni come autore e regista al festival Tramedautore al Piccolo con Questa lettera sul pagliaccio morto quando ancora manca una rotazione terrestre al suo diploma, come attore, alla scuola dello Stabile di Torino. Lo stesso intuito e la stessa natura caotica dei suoi personaggi: Zebbo Brkyglash, protagonista indiretto del monologo che vede in scena Paola Senatore, è «il peggior pagliaccio e il peggiore zingaro» che chi lo ha conosciuto abbia mai visto, che tuttavia sembra sempre farcela ad arrancare nel suo mondo ai margini e a conquistarsi qualche fetta di libertà. E se il testo va nella direzione opposta della spensieratezza, cantando i segni che lascia un mondo crudele sulla carne degli emarginati, il personaggio finisce per darci l’effetto Mandela di un vincitore, qualcuno che, a scapito di un epilogo tragico, ha comunque vissuto una vita degna di essere narrata.
Ma torniamo a noi. Recensioni preventive è un libro di Cesare Ciasullo e Giuseppe Varaldo, Beppe per i suoi colleghi de La Sibilla, rivista di enigmistica alla quale collaboriamo anche io e Davide da circa cinque anni. Si tratta di un esperimento di ludolinguistica: Varaldo scrive una recensione a una poesia non ancora nata, dopodiché Ciasullo legge la recensione e compone le strofe di modo che la rispecchino. Abbiamo deciso di organizzarci così per questa intervista. Per tre giorni sono stato in compagnia dell’autore, ho ascoltato le sue opinioni sullo spettacolo a ruota libera senza chiedergli quasi nulla, riproponendomi di inventare le domande una volta cominciato a stendere l’articolo. Avevo la certezza che non avrebbe lasciato quesiti irrisolti: chi conosce Davide Pascarella sa che quando comincia a parlare di teatro può andare avanti delle ore senza fermarsi.
Guardando Questa lettera sul pagliaccio morto si è subito colpiti da come tutto sia in scena: Paola Senatore si illumina con torce e candele senza l’ausilio di fari su americana, le musiche sono suonate dal vivo da Chiara Dello Iacovo, al posto di un potenziale video da proiettore ci sono le ombre in movimento dei modellini di Gabriella Armini. Cosa ti ha portato a questa scelta?
Ho notato che il pubblico disperde una gran parte delle sue energie a svelare i trucchetti del teatro. Non voglio che questo distragga dal significato dello spettacolo: in questo forse mi avvicino a Brecht, del quale per il resto non trovo tracce nei miei testi. Penso che quello che scrivo sia poetico e politico allo stesso tempo, e come tale ha un messaggio che deve arrivare: per il personaggio del macchinista, protagonista e narratore, mi sono ispirato a Lulù Massa in La classe operaia va in paradiso di Elio Petri, che fonde bene le due nature. La poesia è uno strumento eccezionale: per me è qualcosa di concreto, materiale, e come tale fa male e arriva in profondità. Le parti di Zebbo sono scritte in versi sciolti, ai quali intervallo contributi e/o piccoli furti da Emilio Piccolo, Svjatlana Aleksievič, Dino Campana e altri. Penso che questo sia tutto quello che serve. Nel mio teatro – anche se preferisco dire “nei miei teatri”, non ho ancora una linea stilistica definita – non trovo spazio per altri trucchetti magici.
La magia è tuttavia presente nei tuoi testi: in questo, ma anche in Appunti, semifinalista alla Biennale di Venezia e attualmente presente sui comodini di metà dell’ambiente teatrale italiano.
Appunti è nato dopo la prima versione della Lettera. In Appunti non ci sono elementi magici nel senso stretto del termine, ma situazioni quasi ordinarie che si caricano di significati struggenti e incontrollati se rapportati al mondo dei personaggi e degli spettatori. Nell’universo di Appunti nascono solo coppie di gemelli perché è una realtà in cui è troppo difficile essere soli. Un piccolo miracolo poetico della natura per andare avanti. In Questa lettera sul pagliaccio morto, invece, la magia è innanzitutto linguistica. Il macchinista non parla la lingua romana del clown nomade che ha appena investito quando si ferma a prestargli soccorso, ma in qualche modo capisce tutto. Nello spettacolo si parla di Černobyl’ senza mai menzionarla; i personaggi, i luoghi e le situazioni non hanno nomi e spesso non vengono approfonditi, rimangono sospesi nell’immaginario di Zebbo che possiede la testa del macchinista. Il secondo elemento è, di nuovo, un piccolo miracolo: ciò che vediamo in scena accade negli ultimi tre quarti d’ora di vita del pagliaccio, un tempo decisamente irrealistico per qualcuno che è stato investito da un treno e abbastanza generoso da concedergli di raccontare la sua storia senza fretta, per farsi chiudere le palpebre al giungere del suo epilogo. Il tempo che gli rimane non è un secondo di più, né un secondo di meno di quello che gli serve per raccontare la sua storia.
Come Mercuzio in Romeo e Giulietta.
Come Severus Piton in Harry Potter e i Doni della Morte.
Questa lettera sul pagliaccio morto nasce nel 2019 per Odiolestate, residenza indetta da Carrozzerie_n.o.t che ha co-prodotto lo spettacolo con il Nuovo Teatro Sanità. La prima versione durava mezz’ora e vedeva protagonista Matilde Vigna, mentre per Tramedautore è raddoppiato di volume. Cos’è cambiato?
In effetti è stato come creare un Frankenstein. La versione breve era costellata di richiami poetici embrionali, che tali dovevano restare. Torno un attimo sulla poesia: per me la poesia è fare di una cosa piccola un elemento centrale, non a caso cito Gozzano nel testo. (NDA: in un altro dei nostri colloqui, dopo aver visto Ce ne andiamo per non darvi altre preoccupazioni di Deflorian/Tagliarini, Davide mi raccontò del suo amore per i finali aperti, o meglio, “quelli in cui non torna tutto”. Ecco, i finali di Pascarella sono sempre molto chiari, a essere aperto è tutto il resto).
Per andare avanti un’ora ho sentito il bisogno, come i neonati di Appunti, di qualcuno che mi facesse compagnia: ho dovuto far evolvere un personaggio citato da Zebbo, Mike, per trasformarlo nel suo interlocutore, a cui do voce io fuori scena. Inizialmente volevo che il pubblico rimanesse affascinato da questa figura amica appena accennata, che uscisse dalla sala con il desiderio insoddisfatto di saperne di più. Ho dovuto tradire questa scelta, ma questo mi ha permesso di trovare e sviluppare altri spunti. Tante cose sono cambiate anche con il passaggio del testimone da Matilde Vigna (che è rimasta nei crediti come co-creatrice dello spettacolo e che ha improvvisato battute che ora fanno parte del copione) a Paola Senatore: il macchinista è diventato più tenero, scanzonato, meno grezzo rispetto alla versione di Matilde. La versione di Paola riesce anche a strappare delle risate per i primi cinque minuti, prima di tuffarci nel nero della vicenda.
Pensi che questo sia positivo? Il testo in lettura ricorda molto Antonio Tarantino e a tratti Sgorbani, c’è un’ironia continua di fondo ma non sembra mai andare a cercare la risata.
No, infatti. Penso che il pubblico spesso cerchi un pretesto per ridere, è uno degli approcci più facili. Per me la sola risata onesta è quella che arriva in controtempo. Il testo la raggiunge con momenti di ingenua tenerezza che commuovono spiazzando lo spettatore. Questo genera la risata, che non è quasi mai espressa ad alta voce. Ho provato lo spettacolo più volte per un pubblico di amici, che alla fine mi hanno sempre detto di essere rimasti toccati, ma di aver anche riso. Io però non li ho mai sentiti ridere. Penso che faccia ridere dentro, che lasci la sensazione della risata senza mai imporla al pubblico. Rimane comunque un testo leggero, grave nei contenuti, ma non nella forma. Poetico e politico, appunto.
QUESTA LETTERA SUL PAGLIACCIO MORTO
testo, regia, spazio, luci Davide Pascarella
con Paola Senatore
progetto sonoro dal vivo Chiara Dello Iacovo
scenografia e creazioni materiali Gabriella Armini
creato con Matilde Vigna
assistente alla regia Eva Meskhi
aiuti Gabriele Matté, Erica Nava, Letizia A. Russo
foto di scena Guido Mencari
un progetto di Davide Pascarella/tEATROMEMORIA
residenza produttiva Carrozzerie_n.o.t.
in collaborazione con Nuovo Teatro Sanità
con il sostegno di Teatro Italia Acerra
progetto vincitore “odiolestate 2019”
Foto di copertina di Guido Mencari