ILENA AMBROSIO | Un misto di aspettativa e timore accompagna sempre lo spettatore di un film al cui titolo si aggiunge la dicitura “tratto da…”.
Aspettativa, da un lato, di veder ampliarsi sul grande schermo il gesto teatrale o la parola scritta; timore, dall’altro, di restare amaramente deluso dallo scarto tra l’oggettività dell’immagine concreta e ciò che l’esperienza di fruizione aveva lasciato come impressione e suggestione del tutto personali.

Così, proprio con desiderio e insieme timore, ho visto Le sorelle Macaluso di Emma Dante, presentato all’ultimo Festival del Cinema di Venezia. Ma lo dirò subito: il rischio della delusione è stato abilmente scansato.
Va detto, in primis, che è difficile definire questa pellicola una trasposizione fedele dell’omonimo spettacolo teatrale che si guadagnò – meritoriamente –  il premio Ubu come miglior spettacolo nel 2014. La Dante sembra piuttosto aver utilizzato la pièce come un serbatoio dal quale attingere parte del materiale umano, dei segni, degli oggetti, aggiungendo, d’altro canto, elementi di approfondimento psicologico, di colore ambientale, di contesto per conferire rotondità, direi, tridimensionalità alla sceneggiatura, realizzata a sei mani con Giorgio Vasta ed Elena Stancanelli.
Ne scaturisce un’asciugatura rispetto al lavoro teatrale. Lì, dalle potenzialità espressive del gesto scenico, evocativo e simbolico, scaturiva una intensa concentrazione drammaturgia che, invece, si diluisce a vantaggio del dettaglio sul grande schermo. 

Spariscono le figure genitoriali, sparisce la vicenda del cugino morto drammaticamente. Le cinque (e non più sette) sorelle diventano ciascuna un percorso umano che vediamo dipanarsi nelle tre fasi della vita – fanciullezza, età adulta, vecchiaia – ma che, al tempo stesso, si compie, come fosse un destino, solo se le consideriamo un unico corpo, un organismo le cui parti, anche se diverse, anche se per contrasto, si completano a vicenda, si muovono ed evolvono in simbiosi. 

Le dodici attrici – tutte incantevoli, nessuna esclusa e parimenti – che impersonano le sorelle sanno incarnare con intensa passione questo corpo vitale, rigoglioso, che esplode di entusiasmo durante la fanciullezza; che si mostra, che vuole il mare, che vuole ballare. Corpo che, crescendo, si appesantisce e si ammala, diventa livido, emaciato. Corpo che muore. In ognuna delle tre parti, la scena di un corpo in una vasca da bagno: fotografia della mutazione.

Sono una cosa sola Maria, Pinuccia, Katia, Lia e la piccola Antonella. Sono talmente una cosa sola che neppure la morte può farle distinte. La pièce teatrale riusciva con grande efficacia a far dialogare vivi e morti in uno spazio che pareva assoluto e senza tempo; sul fondo di quel buco nero i morti restavano incastrati come in un girone dantesco, nella ripetizione infinita di un movimento che ne rappresentava l’essenza. Nella pellicola lo spazio e il tempo, invece, evolvono e su questo progredire si scandisce la struttura drammaturgia; eppure allo stesso modo accolgono le presenze di chi non c’è più e la cui immagine resta identica al passato, reiterando gesti, parole.
La piccola Antonella è ancora lì, fissata in un istante del giorno della sua morte: in costume, nell’angolo accanto allo specchio del bagno, ammira Pinuccia che si trucca, dicendole «Sei bellissima». Maria torna, nel tutù da ballerina del giorno in cui rivelò che qualcosa la stava uccidendo, e legge all’orecchio di una Lia anziana per placarne, come sempre aveva fatto, gli eccessi della mente. Immortalate in questa forma eterna sono entrambe lì, in fila (le file “di confine” di Emma Dante) accanto ai corpi invece segnati dal tempo delle sorelle, al capezzale del letto di morte di Lia.

Così, più che intrecciarsi vorticosamente, come avveniva in scena, passato e presente sembrano qui rincorrersi e la frenesia a tratti grottesca della rappresentazione teatrale cede il posto a una tinta più propriamente tragica, in cui i fantasmi del passato ritornano come a ricordare che la loro assenza è solo un’illusione o, meglio, che proprio la loro assenza indirizza il destino di chi è rimasto. 

Tutto è coinvolto in questa mistica compresenza di stasi e movimento: allo scorrere implacabile del tempo, non solo le persone ma anche le cose oppongono resistenza, come rimanendo inchiodate in un eterno presente. Resta la casa, sesto personaggio insieme alle sorelle: i suoi spazi, le sue stanze – il bagno, la vasca; la camera da letto osservata dallo scorcio che dà su un angolo del letto, l’armadio con la specchiera, la finestra semichiusa; la cucina, la credenza del salotto decorata con il disegno di navi a vela – riempiono inquadrature fisse, lunghissime, che invitano ad ascoltare quegli oggetti, a sentire l’eco di voci delle quali le pareti conservano la memoria. Restano i colombi allevati per essere affittati durante i matrimoni, colombi che volano dalle finestre della mansarda, colombi nel cielo, colombi che entrano in casa; il loro tubare, il loro battito di ali sono leitmotiv che fanno da partitura acustica alla narrazione. E ancora, restano le bambole (le bambole che sempre accompagnano il teatro di Emma Dante), i piatti «del servizio buono», le note di un carillon che suona Gymnopedie di Satie. 

Lo scorrere nel tempo e insieme il permanere di persone, luoghi e cose si offrono a una macchina da presa che, a una distanza minima di messa a fuoco anche nei campi lunghi, schiaccia l’immagine e si fa occhio scrutatore, letteralmente incollato alla realtà – penetranti, poetiche la fotografia di Gherado Gossi e le scelte scenografiche di Emita Frigato. Quell’obiettivo è sguardo che indugia, meditativo, sugli oggetti; che coglie alla sprovvista, di spalle, per spiare; che si allarga, bramoso di aria, all’ampiezza del cielo; che si fissa, crudele, su viscere sanguinolente di animali sezionati, o sul volto di una moribonda che si ingozza di paste siciliane, come a voler restituire al corpo ciò che il cancro le sta strappando. Sguardo, ancora, che accarezza il viso di una morta bambina mentre ancora si prende cura dei suoi colombi; che le abbraccia, tutte, infine, quelle cinque sorelle mentre guardano il mare.

Uno sguardo da chirurgo e, insieme, da madre quello con cui la Dante, nel misto potente di sincerità, crudeltà e compassione che ne caratterizza la poetica, guarda le sue donne, offrendocele senza sconti, nella rigogliosa bellezza, come nell’orrenda decadenza.
Perché sì, alla fine, c’è la fine, alla fine c’è la morte. Ma il passato resta, sembra dirci questa storia, ti resta attaccato alla pelle.
Le persone se ne vanno, muoiono, la casa che ha accolto le loro esistenze si svuota, ma proprio lì si conservano le tracce. I mobili vengono portati via, ma sulle pareti ne resta l’impronta. Resta, nascosto dietro una poltrona, quel buco fatto nel cemento, da cinque sorelle per guardare il mare, luogo dell’anima, del desiderio, della libertà.
Davanti a quel mare, nei loro costumi, loro resteranno per sempre bambine e sorelle, dandoci le spalle per guardare l’orizzonte.
E intanto ancora risuonano un battito d’ali e le note di un carillon.


LE SORELLE MACALUSO

regia Emma Dante
interpreti Viola Pusateri, Eleonora De Luca, Simona Malato, Susanna Piraino, Serena Barone, Maria Rosaria Alati, Anita Pomario, Donatella Finocchiaro, Ileana Rigano, Alissa Maria Orlando, Laura Giordani, Rosalba Bologna
sceneggiatura Emma Dante, Elena Stancanelli, Giorgio Vasta
fotografia Gherardo Gossi
montaggio Benni Atria
scenografia Emita Frigato
costumi Vanessa Sannino
suono Benni Atria
produzione Rosamont (Marica Stocchi, Giuseppe Battiston), Minimum Fax Media (Daniele Di Gennaro), Rai Cinema

Dalla pièce teatrale Le sorelle Macaluso di Emma Dante
Durata 89’