ELENA SCOLARI | Come mi piacciono le figure retoriche! Lo spettacolo/lezione Black dick (dick: slang volgare, traducibile in italiano con “cazzo”) di Casavuota interpretato da Alessandro Berti comincia con una sineddoche (la parte per il tutto): il maschio nero è il suo cazzo. Eh sì, che sia stata pruderie non usare l’italiano per il titolo? Oppure in Italia ancora non si può? Sarebbe stato un buon esperimento per la Biennale Teatro 2020 dedicata, più sulla carta che in palco, alla censura.
In fondo è una sineddoche anche il luogo dove I Gordi ambientano il loro ultimo spettacolo Pandora (presentato poche settimane fa in anteprima alla Biennale Teatro di Venezia): un bagno pubblico. Bagno come posto di passaggio, come ricettacolo trasversale che non separa ricchi da poveri, impiegati da saltimbanchi, ballerini da netturbini. Bagno come parte che simboleggia il tutto del mondo, il fuori.
L’intenzione di Berti in Black dick è illustrare la sineddoche citata, sostenerla per discuterla; dice infatti espressamente che con questo lavoro vuol tentare di difendere gli uomini di colore che in Italia sono ancora etichettati secondo luoghi comuni superficiali e perlopiù negativi.
Lo spettacolo ha la forma di una conferenza in cui il prof. Berti, in abito grigio, fa un excursus storico-sociale-culturale sull’uso del corpo del maschio nero da parte della società bianca americana, passando dall’età della schiavitù in cui i servi non potevano avere rapporti (di alcun tipo) con le padrone bianche, fino allo stereotipo dell’industria cinematografica del porno in cui crescono le produzioni di film “interracial” perché cresce la richiesta, anche femminile, di vedere all’opera fisici statuari neri con femmine bianche negli hot movies cercati su internet.
Il corpo è qui continuamente metafora di un ruolo, identificare l’essenza di una persona con il suo membro (per quanto ragguardevole) significa in realtà “ridurre” la persona a una funzione, non considerarne la complessità e sentirsi quindi in diritto di sottometterla o di trascurarne altri organi ben più caratterizzanti. Niente di particolarmente nuovo.
Con Black dick si apprendono, piuttosto scolasticamente, una serie di informazioni interessanti e che possono stimolare ad approfondire il tema (in via teorica, of course) ma manca un affondo (sempre teorico) che faccia emergere un vero bandolo.
Eppure gli agganci ci sarebbero: si parla – ovviamente – di Malcolm X ma anche di James Baldwin, acuto intellettuale omosessuale nero autore di alcuni testi fulminanti come Gridalo forte (Go tell it on the mountain), in cui racconta e analizza con lucidità crudele la vita dei giovani americani neri negli anni ’60. Consiglio il bel documentario I’m not your negro di Raoul Peck che percorre la sua vita con il ritmo profondo del blues.
Però qui Baldwin è solo brevemente citato ma non spiegato, come moltissimi altri nomi a noi sconosciuti di cui sarebbe stato invece interessante sapere, sacrificando alcune ridondanze superflue.
La faccenda ha molti risvolti, si parla anche di Black Panthers, il movimento rivoluzionario afroamericano – cui Baldwin mai aderì – le cui azioni sfociarono più volte in atti violenti; diceva infatti il pensatore di Harlem: «La storia dei negri d’America è la storia dell’America. E non è una bella storia».
Occuparsi di membri e di cosa si portano dietro è cosa che si dovrebbe fare senza timori, oggidì, perché sono convinta che movimenti di ispirazione suprematista come i Proud boys siano la deriva deteriore dello smarrimento del senso del maschile e della virilità che tanti uomini sentono e convogliano, rozzamente, in queste compagini violente e manesche.
Maneggiare la materia del razzismo è sempre delicato, Berti non è mai retorico e contrappunta la sua narrazione in stile anglosassone con canzoni, brevissimi sketch fatti di poche battute, la proiezione di alcune foto su uno schermo-lavagna, con una disinvoltura, anche fisica, visibilmente ben calcolata. Il sottotitolo dello spettacolo è Bugie bianche capitolo primo, aspettiamo dunque il secondo capitolo perché trovi posto un nocciolo che qui è ancora tiepido.
Se in Black dick, nonostante il titolo, di cazzi non se ne vedono (palpabile la delusione in platea), se ne vedono invece nel bagno di Pandora de I Gordi, e anche le donne ne indossano di posticci. La mezza esibizione è una scenetta spassosa in un contesto scherzoso quindi senza alcuna possibilità di turbamento. Così come la maggior parte dello spettacolo.
Il bagno accoglie, abbastanza prevedibilmente, una carrellata di persone, una galerie humaine continua come ne abbiamo viste tante, spiando dai tanti buchi della serratura, dal cinema al teatro ai libri. Una successione di scene in cui si incontrano ragazze ribelli che si dipingono scritte di protesta sulle tette con il rossetto (Ceci est politique), compratrici compulsive che inciampano nei loro acquisti, uomini azzimati che gridano al cesso per sfogarsi, cantanti di strada con cassa acustica appresso, sposi non promettenti, inservienti, una coppia irreale che costruisce il momento forse più poetico della pièce: una maschera di elefante fatta coi jeans, un miniracconto buffo e sognante sulla trasfigurazione da persona a personaggio.
Il tratto comune è una sorta di stupore nell’incontro con l’altro, ogni figura guarda le altre con un misto tra sospetto e un’ombra di irrisione, e forse sta qui il pensiero sotteso a una passerella lunga e talvolta un po’ ripetitiva.
Claudia Caldarano, Cecilia Campani, Giovanni Longhin, Andrea Panigatti, Sandro Pivotti, Matteo Vitanza sono bravi, sono puntuali, si muovono bene, la regia di Riccardo Pippa li distribuisce con cura nello spazio. Spazio composto qui da tre postazioni (lavandini, orinatoi e bagni chiusi) che non hanno però una funzione di senso o di differenziazione delle azioni, come invece avveniva in Visite dove tre zone di profondità indicavano tre prospettive temporali e un progressivo allontanamento della lucidità di visione.
In Pandora (a proposito: perché Pandora? Da quel vaso uscivano tutti i mali del mondo…) c’è pochissimo testo, come è tipico dei Gordi, ci sono alcune canzoni, per esempio la ballata veneta Un ciodo de fero vecio, cantata da un gruppo di ciclisti, che allude a prati dove non si raccolgono fragole ma baci, cantata nel bagno da un coro improvvisato a più voci, con un effetto comico innegabile. C’è soltanto una maschera di lattice, elemento che è stato caratterizzante della compagnia, per uno degli ultimi tipi irriverenti e che fa pipì un po’ a caso.
Pandora è presentato come il terzo capitolo di una “trilogia della soglia” che cominciò con Sulla morte senza esagerare (ispirato a Wislava Szimborska), dove il confine era tra vita e morte, continuò con Visite che esplorava il limite tra presente e passato. Quest’ultimo lavoro assume invece come soglia il corpo, che «con la sua straziante fragilità, separa e congiunge noi e il mondo», si dice nel programma di sala. È un concetto estremamente attuale ma a mio avviso poco sviluppato in questo spettacolo, in cui si mostrano tante piccole manie e dove le scene non hanno correlazione tra loro se non per il ripresentarsi del primo personaggio che ha aperto la galleria – l’ossessionato dalla disinfezione – che chiude con la stessa goffaggine con cui lo abbiamo conosciuto.
L’idea di Pippa e dei Gordi è ambiziosa e mostra un passo verso la volontà di maturazione del gruppo, che con Pandora offre però un lavoro con un tasso di originalità inferiore agli altri della trilogia.
Bisogna quindi leggere dentro questi pezzi di vita giustapposti per trovarci lo smarrimento, il nostro quotidiano traballare, il senso di inadeguatezza, l’impaccio nel cucire relazioni, la fretta che crea solitudine, l’incapacità di distinguere reale da fantasia.
Questo, forse, sta nel vaso che la fanciulla forgiata da Efesto apre incautamente vinta dalla curiosità.
BLACK DICK | bugie bianche capitolo primo
uno spettacolo di Alessandro Berti
cura Gaia Raffiotta
fotografie Daniela Neri
una produzione Casavuota
con l’aiuto di Gender Bender Festival – Teatro Comunale Laura Betti – Ater – Barfly Il teatro fuori luogo – Opera Prima Festival – Mezza stagione errante – Ogni casa è un teatro
PANDORA
ideazione e regia Riccardo Pippa
di e con Claudia Caldarano, Cecilia Campani, Giovanni Longhin, Andrea Panigatti, Sandro Pivotti, Matteo Vitanza
dramaturg Giulia Tollis
maschere e costumi Ilaria Ariemme
scene Anna Maddalena Cingi
disegno luci Paolo Casati
cura del suono Luca De Marinis
vocal coach Susanna Colorni
responsabile tecnico Alice Colla
scene costruite presso il laboratorio scenotecnico del Teatro Franco Parenti
costumi realizzati presso la sartoria del Teatro Franco Parenti diretta da Simona Dondoni
produzione Teatro Franco Parenti/ Teatro Stabile di Torino – Teatro Nazionale/ Fondazione Campania dei Festival in collaborazione con Teatro dei Gordi
Teatro Franco Parenti, Milano
30 settembre e 2 ottobre 2020