RENZO FRANCABANDERA | Ideato e organizzato da Teatro Nucleo, il Festival TOTEM Scene Urbane si è tenuto a Pontelagoscuro, poco fuori Ferrara, negli spazi del Teatro Julio Cortàzar, nel Parco Tito Salomoni – che praticamente separa il Teatro dal Po – e in altri spazi del comune e di Ferrara (Darsena, Piazza Travaglio): incontri, spettacoli e interventi performativi che si svolgono negli spazi aperti, in strade e piazze, che si rivolgono in particolare a non-spettatori resi spettatori, secondo l’intento che da quarant’anni guida l’agire di Teatro Nucleo, secondo la regola che in questo santuario laico hanno voluto portare i due fondatori.
Teatro Nucleo è un ente di produzione, formazione, ricerca teatrale, riconosciuto dal FUS- Fondo Unico per lo Spettacolo del Ministero per i Beni e le Attività Culturali e dalla Regione Emilia Romagna, con sede a Ferrara. Parliamo di quasi cinquant’anni di storia. Fondato nel 1974 a Buenos Aires da Cora Herrendorf e Horacio Czertok con il primo nome di Comuna Nucleo e stabilitosi definitivamente a Ferrara nel 1978, è oggi una realtà composita dove diverse progettualità artistiche operano sul territorio cittadino, nazionale e internazionale, una cooperativa teatrale dove i fondatori e le nuove generazioni di attori e registi operano in sinergia con altre realtà associative e istituzionali.
Fra le persone che stanno portando avanti il passaggio generazionale dentro questo luogo di pratica dello spettacolo dal vivo, la figlia di Cora e Horacio, l’artista Natasha Czertok, che abbiamo intervistato a margine dell’edizione di quest’anno di un festival pensato proprio per coinvolgere le diverse le generazioni, a partire dai più giovani, cui sono stati dedicati percorsi laboratoriali e spettacoli multidisciplinari.
Natasha che edizione di Totem è stata? Cosa è Totem nell’intenzione di Teatro Nucleo?
Questa edizione di Totem Scene Urbane è stata molte cose. Un “ritorno a casa”, perché abbiamo scelto di concentrare il festival nei dintorni del Teatro Cortazar, la nostra sede a Pontelagoscuro: il Parco Tito Salomoni, la strada davanti al teatro chiusa al traffico, e il teatro stesso. È stata una festa nel senso più antico, un momento di gioia e di celebrazione della vita e della comunità attraverso il rito del teatro. È stato un ritorno all’attraversamento dello spazio pubblico, che nel periodo che stiamo vivendo non è un fatto scontato. Mascherine, termometri, distanziamento e prenotazioni non hanno compromesso questo momento per noi importantissimo di crocevia artistico, di radicamento sul territorio, di sguardo al presente e al futuro del teatro. È stato per noi un grande risultato anche la partecipazione dei ragazzi di Supernova, il laboratorio per adolescenti avviato quest’anno in cui si sono integrati diversi linguaggi: teatro, rap, video writing e webradio. Il gruppo di giovanissimi ha partecipato a tutti gli spettacoli in programma e ha preso parte attiva nello spettacolo Kakawa della compagnia Aidoru andato in scena per tutte e tre le giornate di Totem. In questo momento di grande cambiamento dell’assetto sociale, penso che ancora più di prima il teatro possa diventare un punto di riferimento, uno spazio di riflessione e comunicazione, crocevia di esperienze e riflessioni, uno specchio della società.
Quali elementi di continuità e discontinuità ci sono stati rispetto alle edizioni degli anni passati?
Quando Totem nacque nel 2012, l’idea era quella di aprire il teatro alla città, offrire i nostri spettacoli al territorio e creare opportunità di confronto con altre realtà a noi vicine, si proponeva soprattutto come un momento di festa, da cui il nome “Totem Arti Festival”.
Da due anni a questa parte è nata in noi l’esigenza di creare, intorno alla festa, momenti di riflessione collettiva e partecipata sui temi che riguardano più da vicino il nostro fare teatrale, con focus tematici sulla rigenerazione urbana, sul teatro negli spazi aperti e alternativi, la pedagogia teatrale, la formazione del pubblico. Così, dal 2019 il festival è diventato Totem Scene Urbane”. Rimane sempre l’attenzione al territorio, la scelta di mantenere una proposta diversificata per temi proposti e tipologie di spettacolo, il tentativo di coinvolgere anche quelle fasce di pubblico che normalmente non si avvicinano al teatro, e si aggiunge una ricerca maggiore dal punto di vista dell’utilizzo degli spazi cittadini. Quest’anno, grazie allo spettacolo Sotto i lampioni di Ferrara con la regia di Marco Intraia e il tutoring di Andrea Maurizi, nell’ambito del progetto teatrale “Notturni delle città”, abbiamo avuto modo di scoprire in bicicletta luoghi poco (o molto poco) noti della Ferrara notturna, dal centro alla periferia, grazie all’intenso lavoro di ricerca di Intraia durante la residenza artistica che ha preceduto Totem, ispirato alla poetica del cantautore ferrarese Vasco Brondi. Il filo conduttore della scoperta di nuovi spazi per il teatro e la sua importante funzione in questo particolare momento storico è stato al centro anche del meeting Le Magnifiche Utopie 2020, che ha visto la partecipazione di compagnie regionali, nazionali e internazionali sul tema della necessità teatro e del suo manifestarsi negli spazi aperti. Al tempo stesso, la scelta di concentrare a Pontelagoscuro gran parte della tre-giorni ci ha permesso di avvicinare i nostri vicini, le famiglie che salutiamo ogni giorno ma che considerano l’arte qualcosa di troppo distante o diverso da loro. È stato emozionante vederli avvicinare ogni giorno, curiosi e felici di essere, per una volta, al centro della festa, vedere magari per la prima volta in vita loro uno spettacolo. Esserci.
Porti addosso un’eredità artistica e storica radicata in un tempo molto preciso del fare teatro. Ma per Teatro Nucleo sembra anche essere un momento di passaggio di mano, di intenzioni. Come si fa ad andare oltre la propria storia o a proseguirla?
Già, l’eredità. Non è certo qualcosa che si sceglie. La si può accettare o rifiutare. Credo sia stata colpa del teatro in piazza, delle lunghe tournèe sfiancanti in cui si attraversava l’Europa, il Sud America, la Corea per portare spettacoli difficili da montare, da interpretare. Di quella cosa lì o ti innamori per sempre o la rifuggi. Certo, non è stato facile. Farsi dirigere a 20 anni dai propri genitori, scindere la vita dal lavoro, prendere in mano un mestiere e farlo diventare cosa mia. Il mio primo giorno di lavoro mi trovavo a Dachau, per una solenne commemorazione delle vittime della Shoah presentavamo Tempesta, uno spettacolo per spazi aperti sulla rivolta del ghetto di Varsavia. Faceva freddo e io avevo passato il pomeriggio a osservare i forni crematori nel campo, restaurati e mantenuti in perfetto stato, come se il tempo non fosse passato. Mi sentivo lo stomaco ribaltato, non ricordo nulla dello spettacolo, ricordo però che siamo andati a cena in un ristorante greco proprio davanti alla porta del campo di concentramento e ho pensato che dopo tutto io dopo cena me ne sarei andata a dormire e a Dachau non ci sarei tornata più, quei greci emigrati in Baviera invece stavano lì a guardare quel cancello ogni giorno, tutto sommato la nostra non era proprio una vita così orribile.
A parte gli aneddoti, certamente stiamo attraversando un periodo delicato, di passaggio e di trasformazione, ma in fondo in qualche modo è così da sempre, per me. Sono passata attraverso tutte le fasi di vita del Nucleo, non saprei dire se c’è un prima e un dopo o un vero e proprio passaggio di mano. Il teatro lo fanno le persone, con le loro urgenze e visioni. Qui, oggi, si tratta di far convivere e coesistere generazioni diverse, con visioni legate a percorsi di crescita e linguaggi diversi ma con un’urgenza molto vicina. E’ difficile ma anche molto stimolante.
Come è stata la tua vita con due persone così appassionate in questo tempo? Che significa essere figli di artisti fautori di una pratica e di un linguaggio?
Confesso di aver sofferto un po’ di solitudine quando la loro “passione per la vita” li teneva impegnati in sala prove per ore e ore, ma sapevo che era importante quello che facevano. Mi hanno sempre trasmesso i perché delle loro idee, raccontato tutto sui loro maestri e punti di riferimento. Il peso dell’esilio (dall’Argentina a causa della dittatura militare) veniva spinto via attraverso il lavoro teatrale, la ricerca della bellezza, della perfezione, lo studio. Ho iniziato da bambina a sentire la responsabilità dell’arte. Il suo peso e la sua importanza nella mia vita sono arrivati presto: la scuola di danza, il pianoforte, la scuola d’arte. A 16 anni ho passato l’estate a studiare al Ballet Teatro del Espacio di Ciudad de Mexico, con Gladiola Orozco, che doveva infondermi il senso della danza. Essere figlia di questo tipo di artisti credo significhi non avere scampo, insomma!
Nucleo ha sempre ospitato nella sua struttura artisti, diciamo così, associati al progetto. È così anche adesso?
In effetti le residenze artistiche al Nucleo sono iniziate negli anni ’70, con gruppi come il Living Theater che a Ferrara portò Paradise Now! Erano anni in cui lo scambio di pratiche e i lunghi laboratori residenziali erano molto diffusi. Anche oggi rimane in noi molto vivo il bisogno di confronto con esperienze di altre compagnie, il senso di Totem è anche quello di avvicinare e dare spazio a realtà che sentiamo affini, ritrovare compagni di avventure che magari non vediamo da anni, ritagliare spazi per riflessioni e progetti. Anche lo pratica delle residenze artistiche, tramite la quale arrivano compagnie da tutta Italia, va in questa direzione, anche se oggi è più istituzionale, con bandi dedicati e budget specifici.
Quale idea hai sul futuro dello spettacolo dal vivo indipendente?
Ci siamo indignati quando il settore dello spettacolo è stato pressoché dimenticato nel Decreto Rilancio, eppure lo sapevamo già di essere gli ultimi. Forse questa ennesima amnesia ha avuto se non altro il pregio di aprirci gli occhi un po di più, di ricordarci quanto siamo importanti per la società, per il pubblico, per la formazione degli individui e spingerci a metterci in rete, trovare forme di collaborazione. Io vedo una scena molto viva, tantissimi giovani hanno voglia di esercitare il loro diritto all’arte e alla bellezza, mettersi in gioco. Il futuro del teatro lo vedo più povero ma più ricco. Meno sovrastrutture, più idee, più ricerca.