SUSANNA PIETROSANTI | Esce in questi giorni, per i tipi di Cronopio, Una festa tra noi e i morti. Il volume riporta la traduzione dell’Orestea di Eschilo prodotta da Simone Derai e Patrizia Vercesi, agita in scena dagli Anagoor nel celebre spettacolo Leone d’Argento Biennale 2018. Riporta anche un prezioso contributo di Maddalena Giovannelli sul senso e il simbolismo della parte finale della trilogia, Conversio; e un mio saggio, Coi cani e con la rete, sulla scelte complesse ed eretiche della traduzione dal greco e sugli intrecci antropologici che ogni parola evoca. Scriverlo è stato infinitamente complesso, e infinitamente facile.
Dapprincipio, quando si è trattato di valutare la traduzione, la ricerca è stata una rete che imitava il procedere eschileo; perché forse di Eschilo si scrive con le modalità di Eschilo, o non si scrive affatto. Ho tentato maniere più razionali e più contemporanee, non funzionavano. Bisognava ricostruire le cellule potenti del lessico e del mito valutandole una a una, ma anche vederne i rimandi e i riflessi, la rete variopinta di un montaggio insuperabile.
Ho valutato la traduzione di Anagoor in chiave diacronica, posizionandola nella lunga catena di Orestee precedenti (Peter Stein, Pasolini, Castellucci) e studiando minutamente i risultati e le radici. Ma ho anche rincorso «Socrate, Broch, Severino, l’amato Sebald, Arendt, il poeta Mazzoni, una muta di Virgili apripista» per valutarne l’influenza, per stabilire una nuova rete, e scendere «lungo la schiena dell’Occidente dal bacino del Mediterraneo alle foreste europee, su tracce che portano ai rituali funebri, all’ossessione del non c’è più, all’origine del teatro, alle fosse comuni». Sono parole di Simone Derai, che cito perché questo lavoro è stato prima rete, poi danza. Una mano in quella di Eschilo e nelle sue modalità, l’altra in quella di Simone Derai, che scriveva il suo commentario contemporaneamente a me. Ci confrontavamo, sì, ma non così spesso.
È stata una sorpresa folgorante vedere quanto, invece, i due testi si fossero segretamente intrecciati. La particolarissima struttura del volume costruisce l’ennesima rete nella quale l’editore ha rifiutato, coraggiosamente, di fare ordine – offrendo magari la traduzione tutta completa, le note di regia di Simone Derai e la mia analisi – e ha invece preferito mantenere l’intreccio (un punto del testo in traduzione, a seguire il commentario del traduttore e del regista, a seguire le mie note esplicative) supponendo che le irregolarità fossero illuminanti.
Caotico e vivo, in fondo, questo testo si è scritto da sé.
E infine, è stata una caccia. «È brava, questa straniera, come un cane da caccia: ha fiutato la pista che porta al sangue», dice il Didaskalos di Cassandra. Perché non ho soltanto valutato la traduzione e gli innesti dal punto di vista filologico, ma anche antropologico. Una parola può costruire il mondo. «Io che sono donna-cane», dice Elena, e apre tutta una strada di allusioni ed evocazioni, alle divinità teriomorfe, alla storia della mentalità, ad altri libri, ad altre valutazioni e altri mondi. Ho cercato di renderne conto, lavorando in modo convulsivo, totalizzante, spesso totalmente istintivo, poco accademicamente corretto, molto eretico e molto strano.
Essendo l’Orestea un’opera-mondo, sono consapevole di non aver svelato tutto. Sono pronta a ricominciare. Credo, inoltre, che questa Orestea non possa mai esser separata dalla sua resa teatrale. Alcuni personaggi non esistono e non sono comprensibili senza l’incarnazione scenica del loro interprete e senza il procedimento sciamanico che li ha prodotti. Certo questa antica e nuovissima Orestea è parola, ma parola fatta corpo e voce. Parola metamorfica nella sua performatività: nessun saggio che la esamini può estrapolarne la dimensione scenica, a rischio di venirne infinitamente penalizzato.
E neppure la dimensione realistica. Il titolo, infatti, così enigmatico, si illumina solo facendo riferimento alla commemorazione che, il 2 novembre del 1947, fu celebrata sulla tomba del comandante Primo Visentin, “Masaccio”, che aveva dato la vita per la libertà e la dignità altrui. Come il suo sacrificio viene celebrato con una vera e propria festa, tra fiori e stelle filanti, così il senso segreto dell’opera eschilea si celebra solo in teatro. «Per intendere le parole dei morti bisogna che ci sia una festa tra noi e loro. Le parole si odono a questa condizione: rinunciare a noi, dimenticare noi, sconvolgere l’ordine consueto della nostra ricerca, compiere la pazzia di perdere anziché di acquistare». Lo scritto commemorativo della Brigata Martiri del Grappa svela l’enigma: anche se, direbbe Pasolini, il vero senso di questo libro non è un enigma, ma un mistero. Ammette infiniti tentativi di illuminazione. Effonde il desiderio di intraprenderli. Tutti.
Foto di copertina Giulio Favotto