RENZO FRANCABANDERA | Non si sono fatti intimorire dalla cabala di arrivare alla tredicesima edizione nell’anno bisestile, e così sono andati tenacemente avanti, fino all’ultimo giorno di festival nel passaggio fra estate e autunno a Bologna, componendo come sempre tessere, spiragli, incontri fra persone, a prescindere dall’essere ascrivibili alle categorie di “artista”, “pubblico” o “comunità”, in luoghi diversissimi della città e della provincia bolognese.
Il tema di questa edizione di perAspera, festival di arti performative tenutosi a Bologna negli ultimi dieci gironi di settembre, è stato Imbattersi. Significavo, all’inizio, lo stupore di respirare arte in luoghi e modi inattesi, la capacità di lasciarsi sorprendere da una casualità non fortuita, ma diventata, dopo l’arrivo della pandemia, l’incontro con la durezza inimmaginata di un evento epocale, che ha mutato le condizioni dell’essere e del manifestarsi. Abbiamo intervistato Ennio Ruffolo e Maria Donnoli, che hanno ideato e diretto il Festival.
È certamente stata un’edizione strana e condizionata di perAspera. Come vi sentite?
È stata, questa, una edizione stranamente normale. Costruita con molta accortezza in considerazione del periodo storico e delle conseguenti disposizioni, che sono state rispettate facendo in modo che non toccassero nella sua essenza il Festival. Abbiamo lavorato, insieme a tutta la squadra, a un perAspera che fosse straordinariamente “normale”, perché è della normale potenza dell’arte che tutti oggi abbiamo bisogno. Ci sentiamo, quindi, stanchi perché riportare l’oggi ad una normalità richiede molto sforzo progettuale e organizzativo, ma altrettanto felici per le esperienze create e vissute assieme al pubblico e agli artisti.
È venuta come l’avevate pensata? Cosa vi ha sorpreso? Cosa non vi aspettavate?
Siamo stati sorpresi dal desiderio delle persone di vivere e di attraversare le esperienze artistiche. Una delle sfide più complesse e più entusiasmanti di questo Festival è la tensione continua verso due poli apparentemente opposti: l’espressione della ricerca performativa contemporanea e l’apertura di queste proposte a un pubblico non specializzato. E’ venuta, in questo senso, come l’avevamo pensata: con proposte artistiche che rappresentano a nostro parere l’evoluzione delle arti contemporanee e con una commistione di pubblici estremamente trasversali e diversificati. A questo contribuisce anche la dimensione itinerante che perAspera ha assunto da quattro anni a questa parte.
Nel corso delle sue edizioni il Festival è sempre più è andato verso una dimensione performativa e di commistione dei linguaggi. Da festival stabile, come era a Villa Mazzacorati, è diventato un festival itinerante. Corrisponde anche a una logica di progetto?
Il cambiamento di perAspera – da stanziale a itinerante – è nato da una condizione oggettiva: l’impossibilità di continuare a operare nel complesso settecentesco di Villa Mazzacorati che, per una serie di motivi strutturali e organizzativi, non poteva più essere concessa in uso a perAspera nella forma in cui questo lì era nato e si era sviluppato. Non è stato semplice perché, per sua stessa essenza, perAspera considera i luoghi come parte integrante della creazione artistica.
Cambiare luogo ha significato quindi trovarsi nell’urgenza di rifondare il festival stesso e, con la capacità adattiva che ci contraddistingue, abbiamo creato così un perAspera nuovo, che cambia luogo e linguaggio artistico ogni giorno, che attraversa Bologna e la Città Metropolitana, che si apre a diversi possibili contesti, non solo storici. A seguito di questa trasformazione, i progetti di perAspera sono diventati non più semplicemente site-specific ma context-specific, entrando in una relazione molto più stretta con le architetture e con le persone e rafforzando la dimensione produttiva e curatoriale. Questa è, oggi, la logica del progetto perAspera.
Cosa significa curare la direzione artistica di un festival multidisciplinare oggi?
Significa non perdere la visione sul fermento della scena contemporanea e non essere spaventati dal cambiamento di forme che questo comporta per la programmazione. La pluralità dei linguaggi, la contaminazione tra gli stessi, le vesti progettuali che assumono rappresentano una sfida costante all’identità di un festival, alla sua riconoscibilità. Oggi, per perAspera, curare la direzione artistica significa avere il coraggio di cambiare continuamente connotati, di non sclerotizzarsi in una immagine data, assumendosi il rischio che chi la riconosceva ieri possa non riconoscerla domani. Assumendosi la fatica di una costruzione costante di forme, fruizioni e pubblici diversi.
Come si scelgono gli artisti? A chi dare voce e perchè? Voi quali voci avete scelto?
Solitamente, perAspera apre una chiamata pubblica legata a un tema guida e, così, monitora il fermento nazionale e internazionale. Contemporaneamente, opera un’osservazione costante sul territorio, integrando così una selezione delle proposte che arrivano da open call e da chiamate dirette, che sono legate soprattutto a progetti che prevedono una produzione e quindi l’operare in un dato contesto da diversi mesi prima della pratica performativa/installativa aperta al pubblico. In questa tredicesima edizione abbiamo dovuto rimandare due progetti produttivi molto rilevanti, uno nazionale e uno internazionale, che non erano realizzabili in base alle disposizioni vigenti.
In compenso, sempre per quell’anima fluida e indomita che perAspera si ritrova, abbiamo potenziato la presenza di artisti del territorio, privilegiando la dimensione produttiva e di dialogo con i contesti. Facciamo alcuni esempi: un progetto di photo-landart nato da uno studio approfondito del territorio da parte di Gianluca Rizzello, dal suo attraversamento e dall’imbattersi – il tema di questa edizione – nelle persone che lo abitano, per trasformare l’intero abitato in un museo open air; un video-danza che nasce da laboratori coreografici on line che mettono in relazione corpi e visioni sul tema dell’amore attraverso le generazioni, realizzato da DNA; una performance che prende origine dall’urgenza dell’isolamento esperito e che nasce mettendo in sinergia artisti del territorio per creare un’esperienza itinerante tra mercati e case popolari, come ha fatto Macellerie Pasolini. Altro filone, altre voci, sono quegli artisti la cui ricerca risuona intimamente nell’anima di confine e di innovazione di questo festival, come Vincenzo Scorza con Isola, performance audio-video, legata all’isolamento inteso in senso interiore e universale; come Fabrizio Saìu, con il suo portare al limite il corpo in relazione all’altro da sé, in una commistione inusuale ed estrema di elemento fisico e tecnologico; come Fabrizio Favale / Le Supplici, la cui poesia dei corpi da sempre è parte di perAspera e senza la quale non potremmo forse immaginarci.
Come si può creare rete fra festival e realtà indipendenti, consentendo a ciascuno di restare nel proprio specifico?
La rete è un termine abusato, oggi. Spesso, un termine usato in maniera falsata. Entrare in relazione e in dialogo è connaturato agli esseri umani e alle loro espressioni, anche quindi ai festival. Come le persone, le realtà culturali entrano in relazione quasi naturalmente, in un manifestarsi di sintonie etiche e politiche ancora prima che artistiche. L’intento, il senso, la direzione sono le basi autentiche per costruire relazioni di senso, che non siano strumentali ma, al contrario, strutturali.
L’Emilia è sopravvalutata, necessaria, paranoica o adorabile? E Bologna?
L’Emilia-Romagna è una regione felice. Storicamente, è stata la terra del fermento contemporaneo, dell’apertura, della sperimentazione. Per questo, è stata da sempre anche una regione “affollata”. Bologna ne è il capoluogo, quindi, è anch’essa espressione di questa ricchezza di stimoli e di potenzialità creative. Il rischio che vediamo è che, con il trascorrere del tempo, si costruiscano vasi pieni e non comunicanti, o comunicanti tramite i medesimi flussi. Il rischio è che ci si ancori alle trasformazioni del passato smettendo di vivere e alimentare quelle dell’oggi. Il rischio, in una prospettiva più ampia, è che gli artisti e le artiste scelgano l’Estero perché permette condizioni di vita e di lavoro che in Italia sono difficilmente ottenibili e che le nuove realtà non abbiano risorse sufficienti per passare a un livello professionale, ovvero a una condizione in cui si possa vivere di arte.