RENZO FRANCABANDERA | Quello che rimane della ex Manifattura Tabacchi di Cagliari (Sa Manifattura), come di molte altre industrie che lavoravano su commissione del monopolio di Stato per la produzione di sigarette, è un’estesa area all’interno della quale ci sono palazzine, piazzali, aree attrezzate, macchinari residuati di un’industrializzazione che è ormai alle spalle: un edificio assai vicino al centro del capoluogo sardo, un’area molto ampia che comprendeva spazi adatti ad accogliere tutta la catena produttiva, che sorgeva sui resti di quello che per secoli era stato un monastero a ridosso del porto di Cagliari, distrutto proprio per questa ragione dai colpi di cannone sparati via mare delle armate spagnole nel Seicento.
Nonostante la laboriosità dei monaci, i colpi avevano ferito in modo irrimediabile non solo la struttura ma il suo stesso motivo d’essere e fu così che, dopo un secolo e mezzo di travagli vari, l’area nell’Ottocento fu adibita a manifattura per la lavorazione delle foglie di tabacco. I Savoia ne presero assai presto la proprietà e di lì in poi lo spazio seguì la vicissitudine comune a quella di molte altre manifatture italiane.
Due secoli, duecento anni: una normale storia di industrializzazione e deindustrializzazione.
Qui fra macchine assordanti, lavoro a cottimo, cartellini, paghe e sottopaghe, lotte sindacali, malattie professionali, mani veloci, camion di merce, uomini e donne, si è ripetuta per decenni una storia di produzione, di trasformazione di un prodotto della terra in un bene di consumo voluttuario, che ha dato lavoro a moltissimi proletari del capoluogo sardo.
Dopo la definitiva chiusura di circa vent’anni fa, lo spazio era finito in un grandissimo degrado, per essere solo di recente, fatto oggetto di un progetto di recupero, per trasformarlo in un grande contenitore polifunzionale per l’arte e la ricerca scientifica. Ancora oggi, sebbene affidato alla gestione di Sardegna Ricerche, la direzione vera, la nuova vocazione di un’area così importante, non è ancora del tutto rivelata. Non c’è ancora un’anima che abbia sostituito quella che ha abitato questo luogo per oltre un secolo.

Forse anche questo presupposto ha spinto Karim Galici, regista appassionato di performing art e fondatore di Impatto Teatro, a pensare di creare una narrazione performativa, sviluppata come percorso all’interno dello spazio della ex Manifattura tabacchi di Cagliari, ridenominata appunto Sa Manifattura, come la chiamavano con l’articolo della lingua locale, gli abitanti della città.
Galici ha abitato in questa zona per tutta la sua infanzia. Il cancello della Manifattura chiuso era un po’ il simbolo dell’inaccessibile, del mondo del lavoro, da cui partivano fiumi di persone negli orari di entrata e uscita, i cortei, gli scioperi. Storie che assomigliano a quelle dei cantieri navali a Genova e di tutti quei siti industriali vicino alle città, se non addirittura dentro il tessuto urbano come in questo caso, il cui perimetro chiudeva alla città stessa la possibilità dello sguardo.
La performance inizia quindi non a caso con il pubblico fuori dal cancello e una voce narrante che introduce, prima che la porta si apra al comando magico di una sigaraia, una sorta di spirito guida, che lanterna alla mano, condurrà un po’ come Virgilio, i circa 15 spettatori ammessi per ciascuna replica dentro il sito postindustriale.
Dettagliare quello che accade in poco più di un’ora di percorso itinerante dentro il ventre dell’ex manifattura può aver senso solo in parte: come tutti i percorsi esperienziali, in cui si mescolano narrazione, emozione, cammino, molta parte del significato profondo non sta necessariamente o esclusivamente fuori da noi, ma in altrettanta parte in ciò che è dentro di noi e che l’itinerario è capace di risvegliare.

Ecco quindi che la visione iniziale delle culle, con cui si avvia il percorso è qualcosa che ha a che fare con il senso stesso della vita. In realtà non si tratta di alcuna forzatura simbolica perché all’ingresso dell’ex Manifattura c’era proprio un asilo: molta parte della forza lavoro era femminile, e a quel tempo, fra fine Ottocento e inizio Novecento, le strutture esterne in grado di ospitare i figli delle lavoratrici erano pochissime, così nacque questa sorta di spazio per i figli piccoli dei dipendenti.

Si narrano storie di allattamenti condivisi, per permettere di volta in volta alle lavoratrici in difficoltà di poter completare il turno, mentre un’altra le allattava il figlio: sono molti i cagliaritani “fratelli di latte”.
Fra costoro e gli ex dipendenti ormai molto anziani dell’ex manifattura, il gruppo artistico guidato da Galici negli ultimi due anni ha svolto un lavoro di ricerca, intervista, ricostruzione, e coinvolgimento in un allestimento in cui si è arrivati a comporre una squadra mista di professionisti del linguaggio scenico e teatrale, cui si sono uniti volontari interessati al progetto e persino alcuni ex dipendenti che sono stati chiamati a recitare se stessi, la propria storia, il vissuto di anni e anni, rientrando in quegli spazi in cui hanno lavorato per molte ore al giorno, ogni giorno, per più di metà della loro esistenza produttiva.

Gli spettatori quindi vengono guidati dentro un itinerario di tipo misto, in cui la narrazione dei fatti, delle vicende personali e sociali cui la Manifattura aveva dato vita in quanto luogo di unione di esperienze umane, si mescola ad una reinterpretazione artistico simbolica, giocata sulla rappresentazione archetipica del passaggio tanto dalla natura all’industria, quanto dal lavoro manuale a quello meccanico, passaggi cui viene data vita attraverso una serie di codici linguistici della scena che comprendono il teatro, la danza, la videoproiezione, all’interno di un percorso curato sia dal punto di vista dell’illuminotecnica (Stefano Damasco) che da quello delle installazioni polimateriche nate dalla la collaborazione con il Liceo Artistico di Cagliari i cui studenti hanno contribuito alla realizzazione del progetto, con il tutoraggio affidato a Roberta Vanali. Interessante anche la ricerca sui costumi indossati dai performer, firmati da Luciano Bonino.
Studiato per essere proposto proprio mentre cala la sera, nello spettacolo lo spettatore viene condotto in quello che diventa un percorso iniziatico verso una serie di interrogativi sul senso del lavoro, della comunità, dei diritti: temi quanto mai attuali, soprattutto se riferiti all’universo dell’arte, le cui leggi sono così ambigue in questo tempo in cui la forma sociale viene messa sotto scacco da un virus capace di modificare la vita e l’aggregazione umana.
Il titolo del percorso, Cosa rimane?, risuona così emblematico e interrogativo: i partecipanti finiscono per essere coinvolti in una danza rituale, che segue un momento coreografato a cura della danzatrice e coreografa Caterina Genta, in cui i lavoratori manuali dell’antica manifattura ottocentesca, iniziano piano piano, come in Tempi moderni di Chaplin, a trasformarsi in macchine, a sfilare come nella Nelken line di Pina Baush, fra rinascita e meccanizzazione.
Storie di vita e di vite che trovano ambiente naturale dentro l’architettura della manifattura, arricchite da una ricerca sonora apprezzabile e affidata a Federico Leonardi, Matteo Muntoni, Alberto Obino, che curano le attente musiche ma anche la dimensione sensoriale uditiva del percorso, con voci e registrazioni d’epoca, suoni dei macchinari e altri coerenti inserti sensoriali.
Il pregio fondamentale dell’operazione artistica ideata da Galici e portata avanti con senso di squadra e disciplina artistica percepibili, risiede proprio nella naturalezza con cui il percorso riesce a coinvolgere, permettendo allo spettatore un attraversamento vero dello spazio e della sua vicenda storica.
Come tutte le operazioni che accolgono con lucida determinazione il contributo creativo di non professionisti, anche questa incorpora una voluta, e vorremmo dire necessaria, pasoliniana imperfezione, che vuole proprio riportare un principio di naturalezza e allontanare l’artificiosità dell’arte come costruzione distante e rarefatta, pur nella precisione con cui, in ogni modo, la creazione è curata.
Al netto di alcuni improvvisi avvicendamenti dell’ultim’ora nella compagine attorale e di un percorso creativo ancora in fase di sviluppo, trattandosi di un risultato ancora parziale del progetto Storie di Manifattura che dovrà finalizzarsi a primavera prossima, quello che è stato possibile vedere è un esito pregevole in cui si apprezza lo sforzo di coniugare i linguaggi senza forzarli, e su cui la regia continua ad intervenire per il labor limae.
La regia cerca di tenere insieme i codici, e l’operazione nel complesso riesce, ricordando certamente i canoni del teatro sensoriale per come si sono andati definendo negli ultimi vent’anni a livello internazionale, cui si aggiunge una sorta di originalità narrativa, capace di tessere una vicenda drammaturgica, non ambientata dentro uno spazio onirico come spesso succede nei percorsi sensoriali, ma dentro un’esperienza storica leggibile e concreta, che lo spettatore attraversa.

Di seguito è possibile vedere il video reportage da noi realizzato con immagini documentali e un’intervista a Karim Galici realizzata al termine di una delle repliche.

 

COSA RIMANE?

Ideazione e regia: Karim Galici
Interpreti: Caterina Genta, Andres Gutierrez, Beppe Martini, Adriana Monteverde, Monica Zuncheddu, e i partecipanti al laboratorio di recitazione e linguaggi sensoriali (diretto da Karim Galici) e la masterclass di danza e gesto sonoro (diretta da Caterina Genta): Rosanna Argiolas, Angelica Adamo, Anna Cardis, Chiara Cocco, Cristina Copez, Silvia Devoto, Giuseppina Mannai, Alessandro Mezzorani, Daniele Mormile, Gianluca Picciau

Produzione: Impatto Teatro con il contributo della Fondazione di Sardegna e in coproduzione con TiConZero

In collaborazione con: Sardegna Ricerche, Conservatorio G.P. da Palestrina, Sardegna Teatro, Sardegna Film Commission, Liceo Artistico e Musicale Foiso Fois, Dipartimento di Architettura dell’Università di Cagliari; Ordine degli Architetti di Cagliari; Abaco Teatro; AISM Associazione italiana Sclerosi multipla; Pane Acqua e Culture e Rumor(S)cena (media partners) e FREEM (partner tecnico), Caffè Graffina, Ristorante La Pola.

Voce narrante Karim Galici
Coreografie a cura di Caterina Genta in collaborazione con la Piccola Compagnia d’Arte
Scenografie Andrea Forges Davanzati insieme agli studenti del Liceo Artistico Foiso Fois di Cagliari con la cura e il coordinamento di Roberta Vanali.  Assistente scenografa Michela Pinna
Costumi a cura di Luciano Bonino
Musiche a cura di Federico Leonardi, Matteo Muntoni, Alberto Obino, coordinamento tecnico Stefano Cocco con la supervisione di Daniele Ledda
Drammaturgia Karim Galici in collaborazione con Adriana Monteverde, Andres Gutierrez, Emidio Porru, Beppe Martini e tutti gli ex dipendenti della Manifattura Tabacchi che hanno fornito ricordi, aneddoti, storie e testimonianze della Fabbrica cagliaritana e con i contributi dei partecipanti al laboratorio di scrittura creativa diretto da Rossana Copez
Aiuto regia Andres Gutierrez e Adriana Monteverde
Assistente alla regia: Piergiorgio Perra
Responsabile tecnico e light designer Stefano Damasco
Organizzazione Alessandra Zurrida
Comunicazione Riccardo Bianco
Progetto grafico e illustrazione Daniele Conti
Riprese video a cura di Nicola Ambu
Foto di scena Marco Mura