ELENA SCOLARI | Le hanno trovate dietro un muro di cartongesso in via Monte Nevoso 2 a Milano. La neve di quella via ha coperto per anni molte delle parole scritte da Aldo Moro durante i 55 giorni di reclusione, tanto è durata la sua carcerazione in seguito al rapimento messo in opera dalle Brigate Rosse nel 1978, in cui uccisero due carabinieri e i tre agenti di scorta.
419 fogli manoscritti (anzi, le fotocopie) ritrovati dagli operai mentre ristrutturavano l’appartamento. Ora si può comprare tutto in libreria (finché resteranno aperte): le novanta lettere dalla prigionia e il memoriale. Ma non se li fila nessuno. Dacchè sono diventate pubbliche non sono state più interessanti, quelle parole dure, appuntite, spietate.
Le BR nei loro velleitari e strampalati comunicati dicevano “tutto verrà reso noto al popolo”, invece hanno censurato molto, eccome. Non divulgarono, tra altre, alcune lettere in cui forse temevano che, celati, ci fossero indizi per indicare dove si trovasse il prigioniero (in realtà vaghissimi). In quelle pagine – vergate anche in seguito agli “interrogatori” del tribunale del popolo rappresentato dai rapitori – ci sono l’organizzazione paramilitare Gladio collegata alla loggia P2, la strategia della tensione, i finanziamenti alla Democrazia Cristiana e i collegamenti con i servizi segreti, Cossiga, il Vaticano, Andreotti. Erano segreti che i brigatisti, in teoria, volevano che fossero disvelati, perché non ne abbiano fatto alcun uso rimane un mistero.
Moro dichiara, proiettandosi nel suo personale ex post, che sarà stato ucciso tre volte: dall’insufficiente protezione nei suoi confronti (si sapeva che avrebbe potuto essere considerato un bersaglio), dalla scelta di non trattare con i rapitori, e infine da una politica inconcludente che non ha trovato la strada per una soluzione del caso. Ma ci fu anche il disconoscimento delle sue parole. Sì, perché per sconfessare ciò che nelle lettere l’onorevole stava confessando si disse che Moro non era più Moro, che sragionasse, che fosse sotto stupefacenti. Forse il tradimento peggiore.

Con il vostro irridente silenzio (espressione di Moro) ripercorre quelle settimane, Fabrizio Gifuni incarna con impeto, convinzione, fino a un furore raggelante i tentennamenti, le meschinerie, le paure e le codardie di uomini di stato alle prese con una situazione che non hanno saputo maneggiare. L’attore ha scelto di non creare un ulteriore commento a quella vicenda ma di usare solo le parole di Moro per sperimentare se risuonino e scuotano ancora la gente. A giudicare dagli applausi sembrerebbe di sì. In platea c’erano spettatori che quegli anni li hanno vissuti, altri che c’erano ma erano troppo piccoli per capire (come me) ma percepivano la gravità del fatto dalla preoccupazione dei genitori.

Per la nota “ragion di stato” fu applicato un rigore ferreo e inusuale in un paese definito da Moro “scombinato”, lo statista si richiamò (del resto la pelle era la sua) agli scambi di prigionieri che in casi di rapimento fecero Breznev e Pinochet in paesi altrettanto “rispettabili”. Molti hanno pensato allora e pensano oggi che accettare quelle condizioni per la liberazione di Moro avrebbe significato il riconoscimento da parte dello Stato di un’organizzazione criminale sovversiva, dando alle BR un ruolo di legittimo interlocutore.

Gifuni affila l’interpretazione degli scritti con mille toni diversi, fa ronzare con disgusto la Z di Zaccagnini (allora segretario della DC), ci mette tutta la rabbiosa speranza di un uomo che suggerisce strategie, invita con veemenza a interpellare anche il Papa Paolo VI, cui poi si rivolgerà direttamente. Le ha tentate tutte ma non lo hanno voluto ascoltare. E anche i suoi carcerieri hanno maldestramente cercato fino all’ultimo una via d’uscita diversa dall’uccisione: sapevano che quel tragico epilogo avrebbe decretato anche la tragica fine della loro storia.
Aldo Moro rimprovera i compagni di partito per l’accusa fatta a Craxi, l’unico che propose di trattare con i brigatisti, di andare solo a caccia di voti.

Lo studio fatto per scegliere i testi dello spettacolo si esprime in un montaggio che costruisce un crescendo di stizza, disprezzo e disperazione. L’uomo politico inveisce senza più freni contro Cossiga e contro Andreotti – definito “livido assente, assorbito dal suo cupo sogno di gloria” – esprime la sua “immensa gioia di averli perduti”, seppure al prezzo della vita, e auspica che tutti gli italiani provino lo stesso sentimento. È impressionante, poi, il comparire della consapevolezza della fine, le ultime lettere alla famiglia, alla moglie, gli slanci di tenerezza per il nipotino Luca, la raccomandazione dolce che la sua Nora possa sempre avere i fiori di giunchiglia che tanto le piacevano.

Moro non ha solo scritto Il mio sangue ricadrà su di voi – accusa pesantissima –  rivolgendosi ai compagni di partito, figure di spicco della DC, nel memoriale ha anche scritto Farete scendere la mia canizie con dolore, nel soggiorno dei morti.
Un fendente terribile e poetico. Atroce e disperato.
Gifuni è Moro. Resta in piedi per le due ore abbondanti di interpretazione (dire lettura sarebbe riduttivo), tiene in mano quei fogli, che gira, scuote, agita, inclina, a indicare che non si poteva piegare la volontà dei rapitori. Durante la prolusione iniziale in cui introduce il lavoro, dà alcune informazioni di cronaca e spiega la sua scelta, è ordinato, pettinato, a posto. A fine spettacolo è scarmigliato, affaticato, si deve scrollare fisicamente di dosso quel macigno storico.
C’è stato un momento, un solo brevissimo momento, appena l’attore è tornato in luce dopo il buio che precede gli applausi, in cui mi è sembrato Moro, un attimo in cui la sua fisionomia si è piegata al volto di quell’uomo, come un omaggio. E come un’accusa.
Quella, ancora vivissima.

CON IL VOSTRO IRRIDENTE SILENZIO
Studio sulle lettere dalla prigionia e sul memoriale di Aldo Moro

ideazione, drammaturgia e interpretazione Fabrizio Gifuni
si ringraziano Nicola Lagioia e il Salone internazionale del Libro di Torino, Christian Raimo per la collaborazione, Francesco Maria Biscione e Miguel Gotor per la consulenza storica

Teatro Grassi, Milano | 15 ottobre 2020