LAURA BEVIONE | Il 25 novembre è la giornata dedicata alla riflessione sulla questione, purtroppo da molti anni di calda attualità, della violenza contro le donne. Una realtà diffusa a ogni latitudine e in ogni contesto sociale, a denunciare così la sopravvivenza di stereotipi e consuetudini esiziale così come di fragilità – psicologiche e sociali – sovente nascoste ovvero sottovalutate.
Una realtà che anche uno spettacolo teatrale può aiutare a svelare e, magari, correggere: è quanto da un paio di anni sta provando a fare l’attrice/danzatrice/autrice/regista eporediese Francesca Brizzolara, ideatrice e interprete di un monologo, Volo, che su una storia di violenza contro la donna è incentrato. Il racconto del progetto in questo contributo video.
Abbiamo poi parlato con Francesca non solo dello spettacolo ma anche della situazione attuale, aggravata dal lockdown.
Il tuo spettacolo, Volo, tratta della violenza sulle donne: per quali ragione hai deciso di occuparti di questa tematica, purtroppo tragicamente attuale?
Nel 2018 La Casa delle Donne di Ivrea mi ha chiesto se avevo qualcosa, tra i miei lavori, da presentare per il 25 novembre, Giornata Mondiale Contro la Violenza sulle Donne.
In particolare il tema da affrontare era quello della violenza domestica, quella che si perpetra all’interno del nucleo familiare, quella meno denunciata, che riguarda tutte le classi sociali, senza distinzione di età, razza, etnia. Diffusa, forse la più diffusa.
Io mi chiedo quale donna non abbia vissuto, anche in forma molto lieve, un’esperienza di sopruso. Una qualche forma di abuso, anche solo sul piano psicologico (o fisico, o sessuale). Mi chiedo, non solo tra le donne, chi non abbia subito anche solo parzialmente, o anche agito, una qualche forma di controllo emotivo all’interno del nucleo familiare.
Dipende, certo, dal vissuto di ognuno, ma non si può non essere toccati da una tematica del genere, perché riguarda tutti, indistintamente.
La famiglia è la più piccola unità di misura d’amore, di responsabilità, di cura e sostegno. Il nucleo attorno al quale organizziamo le giornate. Lo spazio dove condividiamo le vittorie e le sconfitte. Il posto dove siamo chi siamo e non chi vorremmo essere. Il posto dove ci sentiamo a nostro agio.
Ho trovato questa definizione da qualche parte. Una bella definizione. La famiglia ideale, quella che vorremmo… Ma non sempre è la famiglia in cui ci ritroviamo a vivere (quella da cui proveniamo o quella che ci costruiamo). Non sempre le relazioni che abbiamo messo in atto nel nostro nucleo sono basate su trasparenza, indipendenza, rispetto dei ruoli, fiducia reciproca, generosità, compassione. Quando alla base non ci sono questi presupposti, quella più piccola unità di misura di agio e di cura può invece diventare la nostra prigione, il luogo in cui si sfogano le pulsioni più basse, fino ad arrivare alla manipolazione e alla violenza psicologica e fisica. Io non avevo mai affrontato il tema artisticamente, e mi sentivo matura per farlo. E allora ho cominciato a scrivere.
Come è avvenuta la creazione del tuo spettacolo?
Ho avuto la fortuna di poter sviluppare il progetto nella residenza artistica di teatro e arti varie Morenica – Cantiere Canavesano, il progetto stanziale che la mia compagnia Tecnologia Filosofica porta avanti sul territorio canavesano dal 2003. Ho potuto beneficiare di lunghe prove presso la palestra della ex Scuola Elementare del Comune di Burolo, nel Teatro di Chiaverano e nello Spazio Baobab di Ivrea, luoghi in cui ho potuto costruire il lavoro alternando sessioni di prove, studi, prove aperte e lavoro di confronto anche con i miei colleghi: Raffaella Tomellini, Renato Cravero, Antonella Enrietto e con gli allievi dei nostri laboratori.
Sono molto riconoscente anche a Danio Manfredini, un maestro, che ha visionato il mio lavoro e mi ha dedicato uno scambio molto utile e prolifico.
Il progetto ha potuto crescere in varie tranche di lavoro. Prima lo studio, nel novembre 2018, a Banchette d’Ivrea finanziato da La Casa delle Donne; poi il vero e proprio debutto al Teatro Giacosa di Ivrea a maggio 2019, sostenuto dal festival La Grande Invasione, in collaborazione con il Progetto Violetta-la Forza delle Donne e ancora La Casa delle Donne.
La produzione è stata realizzata dall’inizio grazie al sostegno di Regione Piemonte (che ha dato anche il Patrocinio al progetto), TAP (Torino Arti Performative) e Morenica-Cantiere Canavesano.
L’ultima tranche di lavoro, di novembre 2020, finalizzata alla realizzazione di un video per lo streaming, si è conclusa grazie al contributo e sostegno di Comune di Chiaverano, Comune di Ivrea, Consiglio Regionale del Piemonte, Facoltà di Infermieristica di Ivrea, Soroptimist International (Club di Ivrea)_Orange the world.
Come hai raccolto i materiali con i quali hai costruito la drammaturgia dello spettacolo?
Mi sono documentata grazie anche alla consulenza di La Casa delle Donne, che mi ha fornito degli spunti molto interessanti. E poi sono partita con la mia ricerca: i libri (Ferite a morte di Serena Dandini, Io sono Una di Una, Racconta la mia libertà di Alice D’Oro, La donna che scriveva racconti di Lucia Berlin.. per citarne alcuni); i film (mi viene in mente Kill Bill, ma anche Giuditta e Oloferne), la pittura (Caravaggio, Artemisia Gentileschi); e anche il mito (la biblica Giuditta, la stessa Eva e, per noi Eporediesi, Violetta, la figlia del mugnaio che taglia la testa del barone cattivo che esigeva lo ius primae noctis); gli articoli di giornale; alcune rubriche televisive. Diciamo che l’argomento, se si alzano le antenne, è purtroppo all’ordine del giorno.
Ma, al di là della documentazione, quello che mi è servito per scrivere, è stato attingere alle esperienze più vicine, quelle che in qualche modo mi riguardavano perché sentite raccontare da un’amica o vissute in prima persona, quelle che ti risuonano dentro, nella carne.
Le storie di violenza si assomigliano tutte. Nascono da esperienze di dipendenza, incastri di coppia dove ognuno gioca il proprio ruolo perfettamente: quello della vittima e quello del carnefice. E, a seconda della propria tendenza, ci ritroviamo a interpretare con maggior facilità uno dei due ruoli. A forza di fare la vittima prima o poi incontri un carnefice che giustifica il tuo modo di essere. E quel giochino può essere molto pericoloso. Fino a quando non si decide di cambiare profondamente, di non essere più quella vittima/carnefice, e allora anche gli incastri si sbloccano.
Alla fine ho scelto di raccontarne e agirne una, di queste storie, una che per me era esemplificativa di tutte.
Hai realizzato numeroso repliche di Volo per le scuole: qual è stata la risposta degli studenti?
Molto partecipata. Gli studenti hanno seguito e sono stati toccati dallo spettacolo, almeno questa è stata la sensazione in sala, e poi c’è stato il rimando dei professori.
Il dibattito, che normalmente facciamo seguire allo spettacolo, a caldo, ha smosso osservazioni molto profonde. Alcuni studenti si sono anche lanciati con grande generosità nel portare esperienze vissute, o punti di vista molto personali.
Il dibattito che organizziamo di solito per gli studenti è condotto insieme a una psicoterapeuta, Valeria Ferrero, e a un avvocato, Jessica Rizza, in modo da fornire ai ragazzi tre punti di vista diversi sullo stesso tema: quello psicologico, quello forense e quello artistico.
Mi piace molto fare Volo per le scuole, perché lì si incontrano davvero tutti. Le classi sono uno spaccato della società. Anche per questo mi piace incontrare diverse tipologie di scuole.
Con la mia compagnia, Tecnologia Filosofica, siamo allenati nell’affrontare progetti sul sociale e nell’incontrare le scuole: con il progetto Comuni Marziani – ovvero dell’affettività e dell’omosessualità abbiamo incontrato circa quindicimila ragazzi in dodici anni. Mi auguro di poterlo fare anche con Volo.
II lockdown – quello di primavera e quello attuale – hanno acuito il problema della violenza sulle donne ma l’emergenza sanitaria pare aver messo in ombra la questione: quali potrebbero essere, secondo te, le strade da percorrere per affrontare – o tentare di affrontare – in modo efficace questa tragica realtà?
L’emergenza sanitaria ha messo in ombra tante urgenze, sì.
Quindi la domanda mi provoca un rigurgito che è meglio che io plachi immediatamente, perché non condivido una serie di disposizioni prese per contenere appunto la pandemia e che rischiano, a mio parere, di aggravare molte altre criticità…
Comunque, rimaniamo in tema.
Da quando ci hanno chiuso in casa, la prima cosa che ho pensato è stata: come fa una donna che vive una situazione delicata, a trovare un respiro? Là dove si è costretti a stare sempre in casa, là dove non ci sono più delle situazioni di sfogo e di apertura?
Dev’essere stata, dev’essere, veramente dura. I dati, infatti, confermano un aumento dei casi, delle richieste di aiuto. Sicuramente questa chiusura forzata ha slatentizzato situazioni a rischio e aggravato il clima domestico della convivenza già nelle normali famiglie, figuriamoci in quelle dove c’erano i sintomi di una disarmonia.
Cosa fare? Questa è la domanda di sempre.. anche prima del lockdown.
Cosa fare? Non sono ancora riuscita a rispondere in modo esauriente.
Non sono mai riuscita a rispondere..
Socialmente è difficile aiutare veramente una donna che vive una situazione di violenza domestica. Il pericolo è grandissimo e per quanto uno possa mettere a disposizione dei mezzi, la donna si trova comunque sempre sola.
Non è una posizione disfattista, ma una considerazione che mette al centro, prima di tutto, il risveglio e la presa di consapevolezza della donna.
Tante volte la donna non si rende nemmeno conto del punto cui è arrivata, di quello che si è ridotta a subire, di quanto si è svalutata. È lei la prima a non rispettarsi, ad accettare cose che non sono accettabili, se si mette al centro il valore della propria vita.
Quindi credo che il lavoro da fare sia proprio alla base, un lavoro di educazione delle coscienze. Un’educazione al valore della vita come assunto che viene prima di qualsiasi cosa.
Come si possa fare? Un modo è certamente quello di incontrare i giovani, per agire da subito nell’aprire le menti e nel tentare di sgretolare visioni distorte che ci vengono trasmesse da una cultura patriarcale radicata, cristallizzata, ma anche solo da esperienze subite a nostra volta e non elaborate…
Educare al valore della vita, al valore della bellezza.
Questo è da fare insieme. Tutte le forze a disposizione. E con tutti i linguaggi: l’arte, la musica, il teatro, il cinema, …
Ci sono tantissime associazioni che fanno un lavoro encomiabile e utilissimo. Solo nel nostro piccolo, a Ivrea, io ho conosciuto: La Casa delle Donne, che gestisce uno sportello antiviolenza a Ivrea e mette a disposizione delle donne un ascolto e un aiuto; il Progetto Violetta-la forza delle donne; il Soroptimist International (Club di Ivrea)_Orange the world, con il progetto La stanza tutta per sé. Tutte associazioni che hanno anche contribuito alla realizzazione del progetto Volo. Ma anche la questura con la Rete Dafne e, a Torino, il Centro Antiviolenza delle Molinette. A Nichelino sono venuta in contatto con molte Associazioni: Punto Donna, e anche Il cerchio degli Uomini, che raccoglie anche uomini che vogliono affrontare la propria tendenza ad avere reazioni violente; a Biella l’Associazione Non sei sola. Non ultima la Facoltà di Infermieristica di Ivrea che ha sostenuto in gran parte la realizzazione della versione in streaming di Volo.
Promuovere la diffusione di tutte le attività e le iniziative di queste associazioni e di questi enti e istituzioni è sicuramente un modo per fornire dei punti di appoggio e di accompagnamento per le donne e per gli uomini che si trovano a vivere esperienze simili, per rafforzare sempre più la rete che può contenere questo fenomeno e denunciarlo.
Ma poi ogni donna, per uscire da queste situazioni malate di dipendenza, deve prendere una decisione e, con tanto coraggio, affrontare un percorso difficile, ma bellissimo, verso l’autonomia. L’unico percorso possibile, a mio avviso, per conquistare la libertà.
Una riscoperta del proprio valore, una riscoperta del grande valore della vita e del potenziale anche protettivo che la vita mette in atto quando con coraggio si decide di darle spazio e di spiccare il volo verso la libertà.
Nello spettacolo io parlo di un’esperienza spirituale: quella che per me è davvero necessaria. Quella che a me è stata utile per venir fuori da situazioni che mi sembravano impossibili da sbrogliare. Io mi sono affidata al Buddismo, ma non è l’unica strada.
Questa è stata la via fondamentale per me, che mi ha permesso di ritrovarmi, che mi ha messo a ritmo con l’Universo. Solo con esperienze del genere, che ci sostengono, ci si può sentire abbastanza forti per affrontare situazioni simili e uscirne vittoriose. Solo centrandosi si può mettere in molto una serie di azioni (il primo passo è staccarsi, e poi denunciare, e poi i figli, e poi e poi…) che a quel punto innescano una catena virtuosa e ti permettono di ricostruirti una nuova vita.
Da quando ho cominciato a lavorare al progetto di Volo, molte donne che stavano vivendo situazioni di violenza si sono avvicinate. E questo è un altro modo per poterci aiutare: alzare le antenne, ognuno di noi, e incoraggiare da cuore a cuore le persone che ci sono vicine a prendere consapevolezza di quello che stanno vivendo.
Ci vuoi regalare un ultimo pensiero?
Vi lascio con questa citazione, che mi pare molto significativa ed efficace:
«La nostra vita è veramente nostra. Nessuno può venire a dirci come dovremmo viverla» (Daisaku Ikeda).