MATTEO BRIGHENTI | È un momento di piena e profonda difficoltà. I dubbi, le incertezze, le delusioni si rincorrono e alimentano a vicenda da marzo scorso. Reinventarci è l’unica strada possibile: non perdere di vista chi siamo, ma adattarci, entrando in dialogo con ciò che è e d’ora in poi sarà il nostro quotidiano presente.
Il festival Testimonianze ricerca azioni è nato a Genova nel 2010 come un laboratorio, un luogo e un tempo di condivisione e confronto dei processi di creazione artistica. Chiusi i teatri, a seguito del DPCM del 25 ottobre per fronteggiare l’emergenza epidemiologica da Covid-19, i direttori artistici Clemente Tafuri e David Beronio di Teatro Akropolis hanno rimodulato in streaming l’edizione di quest’anno, l’XI, mettendo al centro non gli spettacoli, forma d’arte considerata totalmente estranea al linguaggio delle dirette sul web, ma il racconto sull’origine della creatività.
Dagli spazi, quindi, che avrebbero dovuto accogliere esiti e performance è stato trasmesso dal 6 al 14 novembre un ciclo di incontri con artisti in collegamento da altre sale teatrali chiuse, ma vive, a colloquio con studiosi e critici sui tratti distintivi dei loro rispettivi linguaggi. Momenti di arte e di politica che hanno aperto nuove possibilità di conoscere su cosa si fonda e a cosa aspira la ricerca artistica di questi tempi.
«Siamo soddisfatti di com’è andata questa edizione del festival – raccontano Tafuri e Beronio all’inizio della nostra intervista – e abbiamo molti progetti a cui lavorare da subito. Quindi stiamo bene». In poco più di una settimana gli undici eventi, tre progetti speciali, trentacinque appuntamenti in tutto con trentadue artisti coinvolti hanno raggiunto quasi settemila visualizzazioni dall’Italia, ma anche da Spagna, Francia, Germania, Gran Bretagna, Stati Uniti, Norvegia, Svizzera e persino dal Giappone.
La lezione che ci consegna Testimonianze ricerca azioni 2020 è quella che ci possiamo adattare alle situazioni più complicate senza rinunciare al pensiero, come dimostra anche il nuovo account Instagram @Akropolisforrreal creato dai giovani del Liceo Artistico Klee Barabino di Genova, guidati dalla professoressa Claudia Campanella, e rivolto agli studenti che seguono i progetti di Teatro Akropolis.
Dal vostro punto di vista di studiosi e di teatranti, di uomini di pensiero e di azione, che tempo è quello che stiamo vivendo?
È un tempo sospeso, sembra che tutto quello che sta accadendo sia provvisorio. In nome dell’emergenza siamo circondati da azioni, parole e riflessioni che sembrano destinate a una strettissima attualità, come se tutto fosse destinato a essere dimenticato nell’arco di poche settimane, quando tutto ritornerà normale. In realtà la sensazione che abbiamo è che proprio adesso si stiano ponendo le basi per un futuro che durerà piuttosto a lungo, che le considerazioni e le scelte che si prendono oggi siano estremamente pesanti e significative.
Testimonianze ricerca azioni quest’anno si è svolto online. «Ancora una volta – scrivete in una nota – siamo chiamati ad affrontare la chiusura delle sale, a creare una risposta politica alla provocazione legislativa. A propugnare la vita contro il divieto». Che vita è quella che è costretta a riunirsi davanti a un computer?
È una vita un po’ differita. Come se quello che si vede sullo schermo fosse un documento di qualcosa che è accaduto altrove e altrimenti. Invece è tutto lì, quello che vediamo sullo schermo è proprio quello che accade, quello che in questo momento solamente può accadere. Questo è il motivo per cui sullo schermo non si può riportare tutto, solo alcuni aspetti dell’incontro fra le persone sono riproducibili attraverso un video. Diventa allora molto importante usare la massima cautela nella scelta degli eventi da organizzare in streaming e nella scelta delle modalità con cui fare in modo che quegli eventi si svolgano. La parte maggiore del nostro lavoro curatoriale, nell’organizzare questa edizione on line del festival, è stata quella di rimodulare gli appuntamenti del cartellone evitando il rischio di offrire un surrogato degli spettacoli o degli incontri dal vivo. Ripensare tutto a partire dal mezzo che ci si offriva per metterlo in atto.
«I teatri – scrivete ancora – sono luoghi d’arte. Di pensiero. Presidi, appunto, di civiltà». E anche luoghi sicuri, aggiungo io, stando ai dati diffusi recentemente dall’Associazione Generale Italiana Spettacolo (AGIS). Perché allora sono stati chiusi?
La centralità dei luoghi fisici nella nostra idea di festival virtuale è stata ribadita e mantenuta. Tutti i collegamenti con gli ospiti sono stati fatti dalle sale che li avrebbero visti sul palco, o che avrebbero accolto i loro seminari o i loro interventi. Anche vuoti i teatri sono luoghi che possono essere vivi, la loro chiusura è semplicemente il frutto della sciatteria e dell’insipienza di chi ha deciso. Non è stato preso in considerazione il valore civile e politico di lasciare che i teatri continuassero a essere frequentati, pur con tutte le limitazioni che consentissero la massima sicurezza. Probabilmente si è ritenuto che fosse meglio evitare un’occasione in più di contatto sociale, senza valutarne il valore simbolico.
In assenza del luogo-palcoscenico, orizzonte di senso del vostro e di ogni altro festival, siete stati costretti a far risaltare l’XI edizione come luogo della discussione. La parola ha prevalso necessariamente sui corpi. Quali opportunità e quali limiti avete incontrato?
Abbiamo lavorato sulla presenza che la parola normalmente ha nel festival. La sua centralità si è affermata nel convegno sul butō e nel seminario sul teatro della pandemia. Intorno ai temi messi a fuoco in questi appuntamenti abbiamo sviluppato i percorsi di senso degli incontri con gli artisti che hanno sostituito gli spettacoli. Abbiamo lavorato alla priorità del confronto, organizzando le serate in modo che ci fossero più voci in dialogo tra loro: Claudio Angelini con Bernardo Casertano, Paola Bianchi e Alessandra Cristiani con Roberta Nicolai sul progetto Oscillazioni, Riccardo Guratti con Greta Francolini, noi stessi con Andrea Cosentino. Abbiamo chiamato per ogni serata un critico o uno studioso per un contributo ulteriore alla discussione. Sono intervenuti Enrico Piergiacomi, Giulio Sonno, Samantha Marenzi, Fabio Acca, e spesso il dialogo è partito proprio dagli scritti pubblicati dagli artisti sull’undicesimo volume di Testimonianze ricerca azioni.
In questo modo abbiamo sostituito la presenza dei corpi con le loro figurae che, come scriviamo nella prefazione al volume che accompagna da sempre il festival, sono i corpi, ma anche l’immagine fantasmatica che essi proiettano e che trova il suo spazio sul video. Naturalmente la parola ha avuto modo di essere veicolata dalla figura di chi la pronunciava ben oltre il limite del luogo circoscritto e sotto questo aspetto l’iniziativa ha avuto un vastissimo seguito, sia in Italia che all’estero. Inoltre gli artisti hanno avuto un’occasione particolarmente favorevole di riflettere sulla loro ispirazione e sulla poetica che perseguono, forse per il fatto che le serate avevano un’aria di intimità che raramente si riesce a riprodurre in condizioni diverse.
Il momento più alienante è quando finisce la diretta, ci si saluta dal video e tutti scompaiono. La parola svanisce con l’immagine e non c’è più nessuno, come al risveglio da un sogno. Non solo manca il contatto, imprescindibile per ogni rapporto tra persone, ma manca anche il momento in cui la parola diventa privata, in cui il linguaggio si piega verso la sua espressività feriale, verso la passione e la confidenza.
In una situazione come quella che abbiamo vissuto il grande limite della parola è che può essere pronunciata solo come parola pubblica.
Ecco, proprio con l’evento internazionale Immagini e immaginari del butō. Il corpo tra cinema, fotografia, politica, performatività avete recuperato e rincontrato, in qualche modo, il corpo. Il legame di ricerca e approfondimento di Testimonianze ricerca azioni con la disciplina butō è solido e fruttifero da anni. Quali passi in avanti avete fatto in questa occasione? Che cosa ci può insegnare il butō per affrontare questo tempo di oggi con maggiore consapevolezza?
Questa edizione è stata la terza che ha accolto a Palazzo Ducale di Genova un convegno sul butō e si tratta di un momento molto significativo che riguarda e infetta anche altri momenti del festival. Il convegno di quest’anno è stato curato da Samantha Marenzi e Katja Centonze e ha visto la partecipazione di studiosi da tutto il mondo. Sono intervenuti dal vivo Stephen Barber, Raimondo Guarino, le curatrici del convegno e hanno partecipato con i video dei loro interventi Peter Eckersall e Bruce Baird, due dei più importanti studiosi americani di butō, e Takashi Morishita, direttore del fondo Hijikata a Tokyo. I risultati di queste giornate verranno pubblicati in un volume insieme ai materiali che raccoglieremo nei prossimi anni.
Il nostro interesse per il butō si inserisce in un percorso di ricerca che ci ha portato a un confronto sempre più serrato con le tematiche sollevate dalle avanguardie del Novecento, tra le quali il butō non viene mai preso in considerazione, se non come un’esperienza a sé. L’idea di questo approfondimento è proprio quella di collocare l’esperienza del butō in dialogo con le altre grandi esperienze che hanno segnato una nuova visione della scena e dei problemi che essa pone. Anzi che essa ci pone, proprio in questo tempo dove diventa essenziale ripensare il lavoro sulla scena proprio a partire dagli elementi essenziali che lo contraddistinguono. Da diversi anni il teatro e la danza sembrano disinteressarsi di quella crisi della rappresentazione pensata da Nietzsche ed esplosa con le avanguardie storiche. Assistiamo a un ritorno all’ordine che un confronto serrato con esperienze come quella del butō hanno la forza di mettere in discussione.
Il professor Marco De Marinis dell’Università di Bologna si è interrogato per l’appunto su Il Gran Teatro della Pandemia, titolo che riecheggia Il gran teatro del mondo di Pedro Calderón de La Barca. Che mondo consegna al teatro il Coronavirus? E che cosa rimarrà dell’anno che si avvia alla conclusione?
La riflessione di De Marinis parte proprio dall’analisi di una progressiva spettacolarizzazione della cronaca e della politica, accelerata dal Covid-19 che ha avuto la forza di amplificare i processi di disgregazione sociale già ampiamente in atto e di dare nuova occasione di crescita a quella performance della politica che egli individua come uno dei tratti distintivi del populismo internazionale che si è affermato negli ultimi anni. Di questo anno che sta per terminare rimarrà molto più di quanto crediamo. Le visioni e le strategie che sono state messe in atto per affrontare l’emergenza rappresentano esperienze su cui riflettere, e di cui ci troveremo a confermare alcune pratiche e a sviluppare alcune intuizioni.
Il Festival ha visto l’apertura di Teatro Akropolis alla produzione cinematografica grazie al progetto La parte maledetta. Viaggio ai confini del teatro. “Maledetta” perché la parte “benedetta” è quella del teatro?
La “parte maledetta” è quella parte del lavoro per la scena che sulla scena non si vede. Sono le immagini, le riflessioni, i pensieri, le parole, le sessioni di lavoro che non hanno trovato posto nella versione finale di uno spettacolo. È tutto ciò che è stato ripudiato, ma non per questo è stato rinnegato. Tutto questo può finire in un film e questo film può avere come protagonista il lavoro di un altro artista, ma anche di un pensatore, di un curatore. Quello che ci interessa è raccontare, ancora una volta, il limite di una delle grandi questioni che la scena ci pone, di ritrarre il percorso di chi si è spinto fino al confine della rappresentazione.
I primi due film della serie sono dedicati alla danzatrice e coreografa Paola Bianchi e al regista Massimiliano Civica. Perché siete partiti proprio da loro due? In generale, come scegliete gli artisti a cui dedicare i vostri ritratti d’autore?
La parte maledetta è un progetto di ampio respiro, si svilupperà in un arco temporale piuttosto ampio e i titoli che ne faranno parte sono diversi. Per questo motivo era importante esordire con due film che fossero molto diversi fra loro, per soggetto, durata, stile di ripresa e di montaggio. Dunque la scelta dei primi due titoli è stata dettata anche dall’esigenza di avere la possibilità di realizzare due lavori molto diversi tra loro che dessero ragione dell’ampiezza e della varietà dell’ispirazione che sta alla base dell’intero progetto. Questi film rappresentano una galleria di ritratti, di figure che in vario modo sono arrivate ad affrontare il nocciolo essenziale delle questioni che sono al centro della riflessione sull’azione performativa. A dicembre dovrebbero cominciare le riprese di un nuovo film, ma le limitazioni agli spostamenti e l’incertezza sullo sviluppo della pandemia ci rendono particolarmente prudenti. Anche a dire a chi sarà dedicato.
Un Festival e l’arte dal vivo nel suo complesso è prima e forse più di tutto una comunità che si ritrova in un medesimo luogo e riflette su se stessa. Pensate di essere riusciti a ricostruire anche nell’ovunque dell’online la comunità di Testimonianze ricerca azioni? L’esservi trovati in collegamento principalmente dalla Sala Mercato del Teatro Nazionale di Genova è l’attestazione di un riconoscimento pure da parte dell’istituzione?
È difficile dire quale comunità si sia riunita attorno agli schermi durante le serate del festival. Sicuramente una parte di quella che ogni anno segue le varie date, ma anche altre persone che hanno seguito diversi eventi, che hanno registrato quasi settemila visualizzazioni. Sarà necessaria un’approfondita riflessione sulla natura di una comunità come quella che segue un festival online, probabilmente molto diversa da quella che partecipa in presenza. Stiamo assistendo all’inizio di un fenomeno di cui sappiamo molto poco. Le sale del Teatro Nazionale di Genova ci erano state offerte dal momento che il nostro Teatro Akropolis è in fase di ristrutturazione: abbiamo trovato nel direttore David Livermore un interlocutore estremamente attento, che sicuramente riconosce l’interesse del nostro lavoro più che decennale.