RENZO FRANCABANDERA | Visti i tempi, avrebbero potuto chiamarla una stagione drammatica, oppure una stagione al buio. Volevano restare ottimisti, Giancarlo Mordini e Angelo Savelli, i padroni di casa, insieme al pubblico, del Teatro di Rifredi, e avevano dato avvio alla “bizzarra stagione” cercando di garantire le misure di sicurezza.
Una stagione divisa in due e annunciata a metà. Una prima parte fino a dicembre presentata subito, confidando nella possibilità di poterla svolgere regolarmente, e una seconda già sostanzialmente pronta ma congelata in attesa di auspicabili positivi sviluppi della situazione generale.
Ma purtroppo non è andata come sperato.
Senza dubbio il tempo dei teatri chiusi porta con sè alcune domande su cosa fanno i teatri, specie quelli di rilevanza nazionale, destinatari dei finanziamenti pubblici. Le scelte, il pensiero. Il Centro di Produzione Pupi e Fresedde – Teatro di Rifredi è stato sicuramente negli ultimi anni fra i centri nazionali di maggior attenzione alla nuova drammaturgia contemporanea, tanto che per questa attività di promozione, Angelo Savelli e il teatro di Rifredi hanno vinto il Premio Ubu Speciale 2019, “per l’intenso lavoro di traduzione, allestimento e promozione della nuova drammaturgia internazionale”.
Da sempre alla ricerca di nuovi autori, Rifredi negli ultimi anni ha portato in scena sia testi di autori largamente affermati all’estero ma quasi sconosciuti in Italia, come il catalano Josep Maria Mirò (Il Principio di Archimede), sia adattando alla scena le opere letterarie di prestigiosi autori internazionali come la turca Elif Shafak (La bastarda di istanbul con Serra Yilmaz) e il franco-belga Eric Emmanuel Schmitt (L’intrusa con Lucia Poli).
Abbiamo intervistato il direttore artistico Giancarlo Mordini.
Nonostante i teatri chiusi, vi sentite di dire che Rifredi resta aperto?
No, il teatro è chiuso. Anche se è decisamente vivo. Gli uffici, i camerini, il palcoscenico di Rifredi pullulano di vita, di confronti, di progetti, di ordinaria e – in questo caso – soprattutto di “straordinaria” amministrazione. Ma il teatro è chiuso al pubblico e quindi è un teatro chiuso. Perché un teatro è veramente aperto solo quando è aperto al pubblico. Nonostante l’istintivo vitalismo che ci pervade, non crediamo in questo momento di stare facendo veramente teatro, ma di gestire – più o meno coraggiosamente e coscienziosamente – l’”attesa” e la “speranza”. Questo è il nostro Avvento, ma il nostro Natale arriverà solo quando il pubblico tornerà a teatro.
Sui social avete anche condiviso una serie di immagini che vi vedono intenti nelle riprese di un vostro allestimento. Che rapporto pensate possa esistere in questo tempo fra video scena? In cosa può aiutare il video, in cosa può sostituire, se può sostituire?
Niente può sostituire il teatro. Per questo è sopravvissuto al cinema, alla televisione e a Internet. Il video o la fotografia possono servire per documentare gli spettacoli, ma solo in maniera fatalmente parziale, come giustamente sosteneva Ronconi. I video possono essere integrati nel linguaggio scenico con minore o maggiore inventiva ed arricchirlo, ma non sostituirlo. Internet, facebook, gli streming e via dicendo possono promuovere ed amplificare l’evento teatrale, ma a volte possono anche banalizzarlo o impoverirlo e mai possono essere un’alternativa al pathos della rappresentazione teatrale.
Il teatro continua peraltro con le sue collaborazioni internazionali. Uno dei vostri drammaturghi di riferimento del momento, Josep Maria Miró ha appena ricevuto un importante riconoscimento in Spagna. Che cosa significa per voi questa cosa?
Significa che avevamo visto giusto quando ci siamo impegnati per far conoscere anche in Italia l’opera di questo straordinario e attualissimo drammaturgo catalano. Dopo la fortunata messa in scena de Il principio di Archimede, grazie anche alle segnalazioni di Mirò, è iniziato un percorso in quel territorio della drammaturgia contemporanea straniera che noi abbiamo voluto identificare nella formula de I neolatini. Abbiamo così tradotto, pubblicato (grazie alla Cue Press) e rappresentato oltre alle opere di Miró anche quelle del franco-uruguaiano Sergio Blanco, del francese Rémi De Vos e dei belgi Buysse/Murgia/Zenoni… E il cammino continua.
Siete un teatro nazionale, da voi in molti quasi pretendono un ruolo attivo a sostegno del sistema. È possibile pensarlo? In quali termini? Cosa state facendo voi nello specifico?
Il nostro ruolo attivo a sostegno del sistema consiste, in questo momento, nel sostegno ai lavoratori dello spettacolo. A marzo noi soci del C.d.A. e i dipendenti a tempo indeterminato siamo entrati nel FIS (fondo di integrazione salariale) per alcuni mesi, avendo, però, contemporaneamente onorato i contratti artistici in essere. Quando poi, a giugno, siamo rientrati in teatro, abbiamo fatto un po’ di conti e ci siamo detti che la cosa più importante che potevamo fare era quella di garantire LAVORO al massimo di persone possibile, per alleviare una situazione economica difficile per molte famiglie ma anche per dare dignità e futuro ai nostri collaboratori più stretti e agli artisti che collaborano da anni con il Teatro di Rifredi. Per questo abbiamo completamente ripensato i programmi della gestione 2020 dando un’attenzione particolare alle nostre produzioni, assumendoci noi il rischio degli incassi e dell’incertezza – come poi è purtroppo successo – sui tempi e i modi delle riaperture e delle nuove chiusure dovute all’andamento della pandemia. Essendo un Centro di Produzione è stato per noi naturale concentrarci sul progetto produttivo e di promozione a cui ci stiamo dedicando da alcuni anni, quello, appunto, de I neolatini. Così abbiamo potuto saldare la salvaguardia del progetto artistico con la salvaguardia dell’occupazione; e a questo principio ci stiamo attenendo anche adesso – dopo che il 25 ottobre i teatri sono stati nuovamente chiusi – sia onorando i contratti per le attività traumaticamente interrotte sia continuando a far lavorare i nostri artisti e i nostri tecnici alla preparazione delle future produzioni; tutto naturalmente nel rispetto delle regole. La cosa ci è costata e ci costa non pochi sacrifici ma è ciò che noi riteniamo etico fare in questo momento.
Avete un pubblico vivace e affezionato, che non vi ha mai fatto mancare il proprio sostegno. In che modo è possibile mantenere vivo questo rapporto nel tempo dei teatri chiusi? Cosa significa essere spettatori oggi?
Cerchiamo di mantenere un contatto costante con il pubblico, abbiamo incentivato la nostra presenza social che è molto seguita. Il pubblico ci chiede di resistere, è costantemente preoccupato per noi, si informa sulle attività in corso e inoltre continuano ad arrivarci, almeno un paio di volte a settimana, i famosi dolci del Teatro di Rifredi. Un semplice ma tangibile gesto di affetto che ci continua a sorprendere e commuovere.
L’esercizio dello sguardo come quello del pensiero sullo spettacolo dal vivo si nutre di compresenza. Il teatro sta lavorando ad una sua comunità virtuale? Come?
A noi piace la comunità reale, fisica, personale. Ma non ci sottraiamo dal partecipare o dal promuovere tutte quelle iniziative virtuali che comunque non abbiano come fine la propria autocelebrazione ma l’incentivazione della presenza e dell’incontro dal vivo.
Oggi per voi teatro è…?
Come abbiamo detto: mancanza, attesa e speranza.